AMBROSE AKINMUSIRE – honey from a winter stone

Nonesuch

2025

Avant-jazz

7.5

L’attività del trombettista afroamericano Ambrose Akinmusire viene spesso identificata soprattutto con la sua esperienza nel jazz contemporaneo più o meno mainstream – il che, pur non essendo del tutto sbagliato, è comunque molto limitante. Da un lato, è vero che il suo nome è passato dall’essere appannaggio dei soli addetti ai lavori all’essere celebrato anche da un pubblico e da una stampa più generalisti grazie ai suoi primi dischi Blue Note, When the Heart Emerges Glistening (2011) e The Imagined Savior Is Far Easier to Paint (2014), che sono dei piccoli classici del nuovo bop. Oltretutto, negli anni ha continuato a partecipare come sideman a diversi dischi di nomi attivi in questo ambiente – Esperanza Spalding, Gerald Clayton, Walter Smith III, l’ultimo David Binney, pure Joel Ross – quindi il suo legame con l’attuale panorama neo-bop è innegabile. Tuttavia, il percorso musicale di Akinmusire è sempre stato costellato di deviazioni e digressioni in universi sonori più insoliti – e non ci si potrebbe aspettare diversamente, considerando che è stato scoperto da un visionario come Steve Coleman e che si è formato suonando con i suoi Five Elements. Parallelamente alla sua attività come neo-bopper, Akinmusire ha infatti continuato a bazzicare tanto la sfera più avant-garde del jazz (ha suonato in dischi di John Escreet, di Jen Shyu, della formazione Code Girl di Mary Halvorson) quanto il mondo dell’hip hop (con ospitate su To Pimp a Butterfly e su The Great Bailout di Moor Mother). Nel 2018 aveva pure sfogato questo suo interesse per formule musicali più ibride su Origami Harvest, in cui per la prima volta in un suo disco da leader si era cimentato con temi più apertamente politici sperimentando in maniera ardita con un crossover tra hip hop, musica da camera e post-bop. Il successo critico all’epoca era stato anche notevole (finendo pure in cima alla classifica dei migliori dischi del 2018 stilata dal giornalista Nate Chinen), ma comunque l’impressione generale è stata a lungo quella che si trattasse di un esperimento estemporaneo, destinato a rimanere una sorta di unicum in una carriera prevalentemente focalizzata sul neo-bop, e pertanto derubricato a strambo divertissement casuale. (C’è anche da dire che il fatto che il successivo on the tender spot of every calloused moment Akinmusire avesse optato per un ritorno allo stile più blues-y degli esordi Blue Note sembrava soltanto confermare questo inquadramento.) 

La pubblicazione di questo honey from a winter stone, che segna il suo approdo alla Nonesuch, è pertanto la conferma che il seme di Origami Harvest era tutt’altro che infecondo e l’ulteriore espressione di un interesse per musiche più oblique da sempre manifesto nell’opera di Akinmusire. Come Origami Harvest, anche honey from a winter stone si avvale di una formazione tripartita in un trio jazz (oltre ad Akinmusire, figurano i fedeli e navigati sodali Sam Harris al pianoforte e Justin Brown alla batteria), un quartetto d’archi dall’impronta accademica (il Mivos Quartet, lo stesso che ha suonato su Origami Harvest e su altri esperimenti cameristici in ambito jazzistico), e due “outsider” dal mondo hip hop ed elettronico. Il primo è il rapper e improvvisatore vocale Kokayi, che qui ricopre il ruolo che su Origami Harvest era di KOOL A.D. – probabilmente allontanato dopo gli scandali che l’hanno visto protagonista negli anni scorsi; la seconda è Chiquita Magic, già collaboratrice dei KNOWER di Louis Cole, che si occupa invece di tutte le parti di sintetizzatore. È una line up che ricalca quasi perfettamente quella di Origami Harvest, e anche la musica prodotta non si discosta molto da quel lavoro: riassumendo all’osso, si tratta di un incontro tra improvvisazione jazz e hip hop urbano, che trovano un collante in un sostrato cameristico di estrazione minimalista. Il compito di indirizzare i binari espressivi e drammatici della musica è in effetti affidato principalmente agli ostinato e ai crescendo del Mivos Quartet, occasionalmente sostenuti (o sostituiti) dalle texture di tastiere in secondo piano, che conducono il lavoro nel territorio di una musica da camera contemporanea letargica e leggiadra, dal marcato impatto cinematografico e – talvolta – dal gusto melodico perfino pop. Per fortuna, occasionalmente gli archi rimediano a un suono che rischia di essere eccessivamente tenue e anemico con momenti più dinamici, in cui si avvalgono di tecniche estese e gettando una luce più arcigna sulla musica (accade per esempio nella dissonante sezione centrale di MYanx., o nei primi tre minuti della conclusiva s-/Kinsmen). 

La vera novità di honey from a winter stone rispetto a Origami Harvest è però il modo in cui gli elementi jazzistici e hip hop vengono innestati su questa matrice minimalista, che rappresenta sia il pregio maggiore di questo nuovo lavoro sia il segno più evidente della maturazione di Akinmusire come compositore e arrangiatore. Su Origami Harvest, l’apposizione di scrittura per quartetto d’archi, improvvisazione jazz e parti rap appariva ispida e stridente, viziata com’era da un processo creativo che sembrava piuttosto convinto del modus operandi da perseguire ma incerto sul risultato conclusivo cui ambire; questa volta invece lo sviluppo dei brani appare più fluido, la compenetrazione delle diverse anime musicali più naturale. Seguendo dichiaratamente i dettami della organic music di Julius Eastman, le composizioni si dispiegano placidamente per interi minuti, mutando lentamente il soundscape cameristico che ne fa da sfondo come nelle partiture di John Luther Adams, mentre sopra di esso i singoli elementi sonori emergono e scompaiono seguendo un graduale processo di accumulo e disgregazione che coinvolge ogni parametro della musica – i timbri, il ritmo, le dinamiche, la stessa strumentazione adottata. Questa volta non ci si trova più confusi o perplessi quando il panorama musicale si trova stravolto da un’improvvisazione collettiva nel solco del post-bop più libero, o da un assolo di tromba del leader in cui esibisce il suo eloquio più virtuoso figlio di Clifford Brown e Booker Little, o ancora da un’intelaiatura ritmica della batteria e dei kick sintetici del basso a metà tra Makaya McCraven e Flying Lotus a fare da beat per l’improvvisazione vocale di Kokayi: tutto sembra finalmente accadere per una ragione logica e consequenziale. Su muffled screams e s-/Kinsmen, i due brani più lunghi e più riusciti di honey from a winter stone, le barriere tra le diverse anime del disco sono talmente sfumate che viene difficile parlare di jazz rap, o post-bop, o minimalismo, tanto il montaggio avviene senza soluzione di continuità – un risultato che Origami Harvest non era riuscito a ottenere. E qui parte del merito va anche attribuito a Kokayi, che al contrario di KOOL A.D. ha esperienza nell’ambito del jazz più avant-garde (in passato ha collaborato con Steve Coleman in alcuni dei suoi flirt con l’hip hop, cfr. A Tale of Three Cities o il più recente live al Village Vanguard): i suoi testi, di nuovo alla prese con le ingiustizie che affliggono la comunità afroamericana, vengono ricamati ad hoc sul tessuto musicale, interagendo organicamente con le parti del resto dell’ensemble. È certamente un’espressione abusatissima, ma qui si può davvero dire che il suo ruolo è più quello di uno strumento aggiunto che non quello di un vocalist.  

La ricerca di Akinmusire in questa forma di musica totale è ancora senza dubbio perfettibile. Specialmente nelle sezioni dominate dagli archi, honey from a winter stone ha ancora una spiccata tendenza a vagabondare senza meta, esasperando inutilmente il minutaggio nel tentativo di montare la tensione – dei quasi 75 minuti dell’album, se ne sarebbero potuti sfrondare senza troppi drammi almeno una decina. Oltretutto, in questo contesto il pianismo di Harris viene valorizzato troppo poco: il suo contributo è subliminale e sparso, volto soprattutto a sostenere il lavoro del Mivos Quartet ricamando la melodia attraverso la ripetizione di note e accordi piuttosto elementari. Fanno eccezione solo sporadici momenti come l’assolo più out there di MYanx., o l’apertura di muffled screams in cui il riferimento evidente è lo spiritual jazz del secondo McCoy Tyner (anche se il pedale che ammanta l’ostinato nel registro grave richiama ancora una volta la tradizione accademica bianca per tramite dell’impressionismo); in generale, però, siamo lontani anni luce dall’esplosività ritmica e armonica dimostrata sugli altri dischi di Akinmusire – il che, viste le doti di Harris come strumentista e la ricchezza di soluzioni che può apportare, non è propriamente un bene. Per questi motivi, continuiamo a trovare in lavori come il live al Village Vanguard del 2017 i suoi massimi successi artistici.

Tuttavia, non si possono ignorare la sua peculiarità e la maturazione di honey from a winter stone rispetto al suo predecessore: a livello di concetto operazioni panstilistiche del genere sono già state attuate con successo altrove, ma il suono ottenuto da Akinmusire su questo disco non ha davvero termini di paragone all’infuori di lui stesso. Magari proseguendo su questa strada riuscirà a comporre qualcosa di ancora più grande, o magari no; ma anche in questa seconda eventualità, già honey from a winter stone rappresenta comunque una manifestazione notevole di tutte le sperimentazioni che stanno avendo luogo nel floridissimo panorama della musica nera di questi tempi. Serve altro? 

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia