CONTAINER BELLO

I SÉLÉBÉYONE CONTINUANO A RIDEFINIRE I CONFINI DELL’HIP HOP

SÉLÉBÉYONE – XAYBU: THE UNSEEN

Pi Recordings

2022

Experimental Hip Hop

Ripensandoci a mente fredda sei anni dopo, avendo lasciato sedimentare gli ascolti e quindi forti della sicurezza di non star incappando in alcun immotivato o esagerato sensazionalismo, Sélébéyone appare come uno dei dischi più incredibili tra quelli che abbiamo avuto modo di ascoltare in questo nuovo millennio. E quando diciamo incredibile, lo intendiamo nel senso più letterale del termine. Prima di pubblicare Sélébéyone nel 2016, Steve Lehman era “solo” uno dei più promettenti sassofonisti emersi dal sottobosco di New York. Brandendo un curriculum accademico piuttosto raro (un Master in composizione alla Wesleyan University e un dottorato sotto la supervisione di Tristan Murail e George Lewis alla Columbia University), Lehman aveva coniato un’originalissima formula di jazz d’avanguardia declinando l’influenza della musica di Anthony Braxton per il tramite di idee mutuate dall’M-base di Steve Coleman, dello spettralismo francese e dall’armonia microtonale; in particolare, i suoi dischi per ottetto (Travail, Transmutation, and Flow del 2009 e soprattutto Mise en Ab​î​me del 2014) gli erano valsi pure un discreto successo di critica e di pubblico, rendendolo un osservato speciale della brulicante scena jazz East Coast. Tuttavia, senza alcun preavviso, Lehman aveva poi intrapreso una strada completamente differente, influenzato anche dalle collaborazioni del suo studente Maciek Lasserre con vari esponenti della scena hip hop della scena senegalese, tra cui Gaston Bandimic, sui dischi del suo MCK Projekt. Riuniti Lasserre, Bandimic e anche High Priest degli Antipop Consortium sotto il moniker Sélébéyone, Lehman aveva quindi ridefinito le possibilità – il significato stesso – della formula “jazz + hip hop”, tanto a livello tecnico quanto a livello concettuale: Sélébéyone è un album dalla manifesta dimensione sperimentale, dichiaratamente composto e registrato procedendo per tentativi senza la piena consapevolezza degli strumenti a disposizione del gruppo; eppure, è anche un disco già estremamente compiuto e maturo, così radicale nella sua operazione di crossover stilistico da stranire diversi di quegli stessi ascoltatori che avevano tessuto le lodi di Mise en Ab​î​me, evidentemente sprovvisti degli opportuni strumenti di decodificazione del linguaggio hip hop necessari per comprendere la formula di Sélébéyone. Non è questo il luogo opportuno per spendere ulteriori parole su quel capolavoro: se comunque siete arrivati fino al 2022 senza ascoltarlo, andate direttamente qui e leggete nel dettaglio tutti i motivi per cui vi siete persi uno dei lavori più grandi degli anni Duemila. 

Sélébéyone, così distante dal resto della musica registrata da Lehman prima e soprattutto dopo il 2016, poteva comunque apparire come una fugace digressione destinata a rimanere un unicum nella sua discografia, e in effetti io l’avevo interpretato proprio come tale. Invece il nucleo fondamentale dei Sélébéyone ha continuato a suonare insieme, girando per tour in America e in Europa, scrivendo anche nuova musica: già verso la fine del 2021 si potevano apprezzare sui canali ufficiali di Steve Lehman e della Pi Recordings i primi teaser (ora rimossi) di un imminente nuovo album, pubblicato infine ad agosto con il titolo Xaybu: The Unseen.

Con il suo illustre predecessore, il nuovo album dei Sélébéyone condivide molti dei pivot concettuali – primo fra tutti, la commistione del rapping (in lingua inglese, wolof e francese) con una forma ibrida di improvvisazione che siede nell’intersezione tra la musica spettrale di Tristan Murail e Gérard Grisey (o, per usare la locuzione adottata dallo stesso Grisey e quindi da Lehman, la liminal music) e la cultura musicale afro-americana. Come quelli di Sélébéyone, i brani di Xaybu: The Unseen abitano una dimensione allucinata e distorta che si insinua nelle intercapedini (gli spazi liminali, appunto) tra un evento sonoro e l’altro, giocando con fenomeni psicoacustici atti a togliere punti di riferimento e a far risaltare l’intrinseca instabilità dell’atto improvvisativo e performativo: i tempi subiscono continuamente accelerazioni e decelerazioni solo vagamente percepibili dall’orecchio; gli strumenti suonano simultaneamente note appartenenti allo stesso spettro armonico, portando così i diversi timbri a confondersi l’uno con l’altro e facendo emergere qualcosa a metà tra una singola nota e un accordo; i suoni si spostano senza sosta tra il registro elettronico e quello acustico. (Se masticate abbastanza inglese e teoria musicale da voler curiosare direttamente alla fonte quali sono i concetti dello spettralismo e della psicoacustica che Lehman ha sfruttato nella propria musica, con lo specifico esempio di Echoes da Travail, Transformation, and Flow, vi consiglio la lettura della sua tesi di dottorato, che è estremamente stimolante per quanto ovviamente impegnativa.)

Eppure, Xaybu: The Unseen risuona come un lavoro essenzialmente più hip hop del suo predecessore. A un livello più epidermico, intanto, non ci sono più Carlos Homs e Drew Gress che avevano suonato rispettivamente pianoforte e contrabbasso sull’esordio, il che allontana i Sélébéyone dalle più classiche formazioni jazz e simultaneamente li spinge a sfruttare maggiormente il contributo di suoni digitali e di sample per ovviare alla riduzione dell’organico, in una maniera che richiama più direttamente i beat dei complessi hip hop più sperimentali. Ciò comunque non riduce le possibilità timbriche a disposizione del gruppo, ma anzi espande il tessuto strumentale verso territori che Sélébéyone non aveva ancora esplorato del tutto.

Di quelle sonorità più apertamente jazz, che di contro si associavano ancora senza troppa fatica a quelle esibite su Mise en Ab​î​me, rimangono comunque gli intrecci selvatici del sax contralto di Lehman e del sax soprano di Lasserre, fraseggi ispidi e stridenti che incrociano gli assolo spigolosi di Jackie McLean con il respiro metropolitano e post-moderno della musica di Steve Coleman. Allo stesso modo, viene mantenuto il batterismo proteiforme di Damion Reid, che aveva già impressionato sul debutto e cui Lehman non riesce a rinunciare nemmeno su questo Xaybu: The Unseen – anche perché nessuno suona la batteria in una maniera tanto adatta a una musica del genere: la naturalezza con cui Reid coniuga le idee ritmiche del jazz con i breakbeat fratturati dell’hip hop strumentale, giocando con i pianissimo anche quando il suo accompagnamento si fa più rapido e i suoi fill più convoluti, non trova alcun ovvio termine di paragone in nessun altro batterista in attività. Ma nonostante questi punti di contatto, la musica di Xaybu: The Unseen appare più affine a una qualche forma poliglotta e inclassificabile di elettronica arcigna e urbana: tutte le composizioni sono sempre avvolte da questo gelido manto intessuto di glitch, segnali acustici sovrapposti e sfasati, bordate distorte, pulsazioni di basso provenienti da qualche dancefloor alieno e minacciosi soundscape post-industriali in continuo mutamento. Ogni brano sfrutta in maniera diversa la varietà di soluzioni che i Sélébéyone hanno a loro disposizione: i poliritmi percussivi che rimbalzano su Gas Akap, Lamina e Dual Ndoxol sembrano provenire da una rivisitazione assatanata della gqom a opera di qualche artista del roster Hakuna Kulala; le due Time Is the First Track, poste rispettivamente in apertura e chiusura del disco, e Poesie I, con il loro ritmo claudicante portato avanti da bleep subliminali e dal tema incoerente del pianoforte, sembrano coniugare Supermodified di Amon Tobin con l’estetica della musica glitch; su Poesie II, Navigation e Zeraora i rintocchi elettroacustici che vanno in risonanza, emergendo come accordi inquietantemente consonanti seguendo la filosofia spettralista, proiettano il sostrato digitale verso i territori sonori più austeri delle opere di Jonathan Harvey. Su brani come Gagaku e Souba appaiono anche campioni di strumenti acustici ad amplificare ulteriormente il raggio d’azione del quintetto: se sul primo il solenne unisono di shō, hichiriki e ryūteki preso da chissà quale performance di gagaku viene utilizzato come ulteriore orpello sonoro sullo sfondo di un jazz rap accidentato e ostile (con più di qualche affinità con la Bamba del primo Sélébéyone), sul secondo il sinistro contributo di arpa, flauto e stridii d’archi di sottofondo sconfina verso la visione orchestrale di Tristan Murail.

Ma più che le basi in sé, ciò che davvero lascia meravigliati in Xaybu: The Unseen è il modo in cui High Priest e Bandimic interagiscono con una musica tanto evanescente, continuamente in divenire e sabotata da cambi di tempo, timbri, pure di umori. Se il flow aristocratico del primo , come si era già potuto apprezzare nei dischi dell’Antipop Consortium, si trova più a suo agio con i momenti più astratti e sfilacciati dell’album (Time Is the First Track, Poesie I, Go In, con l’unica eclatante eccezione di Gagaku), quello di Bandimic – viscerale, intenso, sanguigno – si sposa perfettamente con i momenti in cui i ritmi si fanno più intricati. Le ruvide allitterazioni di consonanti e la pronuncia estremamente cadenzata del wolof sembrano essere fatte apposta per rappare su un terreno accidentato come la musica dei Sélébéyone, e si compenetrano eccezionalmente bene con le parti di batteria di Reid – che spesso può essere colto a tradurre sul suo strumento l’andamento ritmico del flow di Bandimic, sia nei versi rappati più aggressivamente, sia in quelli in cui le sillabe vengono scandite in maniera da far emergere un andamento ritmico strabordante di groove.

Coerentemente con una musica tanto mutevole, che sembra incoraggiare l’ascoltatore a esplorare ciò che avviene al di sotto della soglia della propria percezione e al contempo a volgere lo sguardo verso luoghi inesplorati, i testi di tutto Xaybu: The Unseen vertono verso il medesimo tema fondamentale – la contemplazione dell’ignoto, visto in un’ottica spirituale di derivazione sufista (fede che lega Lasserre, Bandimic e High Priest): lo stesso termine Xaybu è infatti la parola wolof per riferirsi al concetto islamico dell’al-Ghaib, in inglese letteralmente the unseen. Se da un lato l’ignoto è semplicemente ciò che l’uomo non può conoscere né comprendere, in quanto segreto di matrice divina, dall’altro per i Sélébéyone diviene anche metafora dello scopo e del significato incomunicabile della creazione musicale che, viceversa, offre uno strumento attraverso cui l’uomo può elevarsi ed esaltare le proprie potenzialità spirituali. A un livello più immanente, la missione di tendere verso l’unseen si traduce quindi in un processo di ricerca artistico che vuole esprimere qualcosa di nuovo, lontano dai trend più effimeri della modernità. Non sorprende quindi che Bandimic su Lamina si conceda un vero e proprio diss agli altri rapper in attività:

Mon rap est conscient et il véhicule des valeurs.
Le rap d’aujourd’hui est bling-bling, richesse, strass et paillettes.
Le rap d’aujourd’hui c’est pour le buzz.
Ils n’ont pas la plume de Nas ou de Jada Kiss.
En tant que MC, tu dois porter des messages.

My rap is conscious and is a vehicle for honor.
Rap today is bling-bling, riches and jewels
Today’s rap is made to create buzz
They don’t have the pen of Nas nor Jada Kiss
As an MC you have to carry messages

Nella strofa di High Priest su Liminal l’attitudine me against the world sconfina dall’ambito meramente musicale e si sovrappone perfino a una rivendicazione identitaria della propria provenienza africana e della propria fede musulmana:

As above is below and I’m from the bottom.
The beast couldn’t digest us. We never assimilated.
To see us in real form some get intimidated.
Buried our history. Now they imitate us.
Things change but change to what?

Victory is coming. Glory is near.
I see us winning. Triumphant. Don’t say it with me. Think it.
It’s not distant it’s here.
Hypnotize your mind to let go of fear.

È quindi in quest’ottica di illuminazione spirituale e ispirazione creativa superiore che va interpretato il campione della voce del regista e attore senegalese Djibril Diop Mambéty, che su Djibril esorta a trovare la luce chiudendo gli occhi e cercando di innalzarsi dal mondo materiale.

C’est simple. Il faut fermer les yeux. Est-ce que vous avez fermé les yeux? Vous voyez des point de lumieres. Serrez fort. La lumiere se précise. Et puis, on ouvre les yeux. C’est tres simple. A chaque fois que vous voulez voir la lumiere, il faut fermer les yeux. 

It’s very simple. You have to close your eyes. Have you closed your eyes? You see points of light. Shut them tightly. The light becomes more clear. And then, you open your eyes. It’s very simple. Each time that you want to see the light, you have to close your eyes.

Curiosamente, però, il sample di Mambéty viene poi sfibrato fino a trasformarsi in puro sibilo elettroacustico, che diviene parte della base sotto cui si erge Bandimic per ribadire il messaggio. Questo perché per i Sélébéyone l’espressione del nuovo non può prescindere dal contatto, rispettoso e reverenziale, con l’esperienza dei propri mentori artistici e maestri spirituali. Ancora su Lamina, Bandimic spiega:

Connaitre son passée est un devoir pour chaque artiste,
Donc plonge toi dans l’héritage de l’Egypte Antique.
Ne jettes pas le passé comme une éponge sale. sinon tu n’auras plus de repère.
Sinon tu n’auras plus de repère
Purifies ton âme et chemines en toi-même car la cité de Dieu s’y trouve.
Transmets cette sagesse même si tu dois recevoir des coups comme Malcom.
Te connaître toi-même en vaut la peine,
Cela te libère de l’obscurité.
Soit prêt à marcher jusqu’en Chine pour l’éveil spirituel.
Il y aura beaucoup d’obstacles sur ta route.
Sois fort griot.

Knowing your past is the job of every artist.
So immerse yourself in the heritage of ancient Egypt.
Don’t throw away the past like a dirty sponge
Otherwise you will lose all orientation.
Purify your soul and look within because the City of God is there.
Pass on this wisdom even if you have to take some hits like Malcom.
Knowing yourself is worth it.
It frees you from darkness.
Be ready to walk to China for your spiritual awakening.
There will be many obstacles on your path.
Be strong, griot.

Forse anche per scolpire nella pietra questo messaggio, tra i vari personaggi campionati lungo Xaybu: The Unseen figurano anche (e forse soprattutto) Billy Higgins e Jackie McLean, entrambi musicisti convertiti all’Islam ma anche mentori di Damion Reid e di Steve Lehman, rispettivamente. Le loro parole, in una delle scelte più elementari eppure più suggestive di tutto questo lavoro, appaiono filtrate, in lontananza, come se provenissero da un ricordo remoto; a queste risponde perentoria la voce ferma di High Priest, che si insinua tra le pause dei due maestri con dei laconici «Yes sir» e «I hear you» per confermare di aver recepito il loro messaggio. Su Gagaku, Higgins rivela il significato del suo nome musulmano, e il modo in cui egli e McLean sono entrati in contatto con l’Islam per la prima volta proprio in Giappone, da cui la scelta del titolo e della strumentazione del brano:

I study the attributes of the name. So, Abdullah means slave/servant of Allah. Karriem is also generous, deserving. So, I have to live up to that name. If I can live up to that name. Then I’ll be eligible to take it.

Jackie and I grew up, I mean, in the music together. He started practicing Islam. And then we went on a Japanese tour to Japan. The first mosque I ever went into was a mosque in Japan.

Ma è forse la dichiarazione di McLean la più profonda dell’album. È posta in apertura a Go In, su un incerto tappeto di elettronica umbratile; non si capisce nemmeno se il soggetto sia l’Islam, il jazz, o chissà quale altro evento della sua esistenza. Anche per questo, viene naturale leggere le sue parole sibilline come una confessione a cielo aperto degli stessi Sélébéyone – non solo sulla loro fede, o sui loro maestri, ma sul modo stesso in cui hanno vissuto la genesi di Xaybu: The Unseen, un disco splendido il cui mistero necessiterà di molto tempo prima di essere completamente svelato.

Everybody got messed up. Yeah. It changed our lives. It changed our lives. We come down here to watch you go in.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia