CONTAINER BELLO

MOOR MOTHER, MAI COSÌ IN ALTO

MOOR MOTHER – THE GREAT BAILOUT

ANTI-

2024

Electroacoustic, Jazz Poetry

Nel 2024 possiamo dire con certezza che Moor Mother non ha bisogno di presentazioni, per usare un gergo trito e posticcio. Gergo che solitamente ha anche la funzione di preterizione, come oggi: Camae Ayewa, il suo nome al secolo, è una di quelle artiste per cui non è intelligente parlare di percorso quanto di galassia. Il suo campionario artistico è impegnato da oramai un decennio in un ambizioso e vasto progetto di revanche della storia universale delle persone afrodiscendenti, ed è caratterizzato dalla sua irrefrenabile voce, declinata a ogni uscita discografica e a ogni live in una riconoscibilissima slam poetry da attivista e insieme fattucchiera, prestata ogni occasione ad una performance diversa a seconda del caso. Poche figure del contemporaneo sono così eclettiche: il borborigmo di fondo dello stile Moor Mother è nel sound collage delle sue prime uscite, piccoli esperimenti per netlabel alle cui espressioni chiave ritorna volta per volta come attirata dal centro di un mulinello; ma l’incursione esplorativa tipica della nostra è ben più avventurosa. Il primo tentativo, ben coerente con le influenze dichiarate nelle interviste più accurate, è un aggancio con l’hip hop politico della East Coast, fatto avvenuto in Fetish Bones e replicato nei suoi titoli maggiori (Analog Fluids of Sonic Black Holes, il bel Nothing to Declare con DJ Haram e soprattutto il recente Brass con billy woods). Dall’altro lato il sodalizio con Keir Neuringer (visibile anche in Circuit City) e l’avant-garde jazz battagliero degli Irreversible Entanglements, un’ottima occasione per spogliarsi dell’abito da noiser e per tentare di dare uno schizzo parlato dello stato dell’arte del jazz anno dopo anno, con dei risultati che nei momenti migliori – soprattutto nello splendido debutto – hanno avvicinato pericolosamente Gil Scott-Heron e, più esplicitamente, Amiri Baraka. Ancora, il noise-punk in Sprechgesang di True Opera, i field recordings di Clepsydra, il post-industrial di Dial Up, fino ad arrivare al recente Jazz Codes, miscuglio epico (nel brutto senso di The Epic) che prova con poco successo a fare una summa dello spiritual-jazz-rap nero come se non stessimo ascoltando dal 2015 tre dischi così ogni anno. Eclettica, in questo caso, è un termine che non è capace di descrivere questa galassia, questa attitudine. Semplicemente: Moor Mother usa ogni mezzo possibile per provare a raggiungere il suo obiettivo comunicativo. Questa prolificità, onnipresenza, vaghezza della poetessa di Aberdeen è il perfetto presupposto per un costante alternarsi di hit e miss, accordi e disaccordi di quando la propria galassia viene a scontrarsi con quella dell’artista, album dopo album, progetto dopo progetto. Ma un dato di fatto è che ogni volta che Ayewa si è spostata, anche per operazioni di poco conto, le nostre orecchie le abbiamo drizzate, che ci piacesse o no. 

Mai prima d’ora, però, un astro della galassia progettuale di Moor Mother ci ha colpito come The Great Bailout. Va capito se è una questione di allineamento di sensibilità, di scrittura e struttura che ben si accorda con il nostro punto di vista, oppure se c’è proprio un segreto nascosto all’interno dell’ennesimo disco della poetessa. Partendo alla larga: sembra abbastanza evidente che mai prima d’ora la foresta espressiva di Ayewa si sia presentata con questo grado di compiutezza. Nel paragrafo precedente ho avuto modo di usare la metafora del prestito della voce e della poetica per raccontare come la carriera di Moor Mother si sia strutturata; penso che possa andar bene anche laddove i lavori sono affetti da una situazione meno collaborativa e più solista. Nelle rare occasioni in cui Ayewa è partita dalla sua poesia il lavoro musicale alle sue spalle è stato un po’ un contorno, una colonna sonora non sempre entusiasmante (penso per esempio ad Anthologia 01). In The Great Bailout siamo traccia per traccia davanti a uno spettacolo, grottesco e affascinante allo stesso tempo, di un demiurgo che genera nuove stringhe di musica a partire dal proprio flow, neanche tanto dagli argomenti trattati (qui focalizzati sull’imperialismo europeo), quanto dalle lettere e dalle sillabe che si mettono l’una dietro l’altra e fanno da messaggero per i concetti che l’artista vuole ruggire. Lo spazio sonoro di The Great Bailout è, come per una performance di poesia dal vivo, tanto vuoto, triste, carico di energia potenziale e gonfio di attesa. Abbiamo imparato ad apprezzare il preaching di Moor Mother su tanti strati di rumore, di ottoni, di distorsioni e per la prima volta abbiamo l’occasione di vederlo assoluto e sommerso in questa disgraziata qualità di scrittura che non può che attivare le sinapsi di qualsiasi appassionato di musica un po’ più laterale, un po’ meno composta. Trovarsi davanti certi brani solleva delle domande la cui risposta, soprattutto per un critico e giornalista musicale, non è affatto scontata: quand’è che Camae Ayewa ha avuto modo di tessere certi segmenti sonori, lo sapeva che il timbro che registra fa capo a questo o a quello? È mai possibile che i fili di queste melodie siano stati generati per fare da sfondo cinematico al parlato, e non per statement musicali? Com’è possibile accomodare negli stessi venti secondi di brano il vocalizzo à la Esperanza Spalding e la glossolalia furibonda di Kristin Hayter? 

Il lavoro alla produzione di Moor Mother è così attento che andrebbe esclusa la possibilità che questo disco sia una casualità della galassia di cui sopra: sembra proprio la prima volta che questa poetry dannata e ossessiva si è evoluta anche in sound poetry, per emersione e similarità dei temi. Brano dopo brano, pur con due o tre incertezze, la parata bisbigliata della musica di The Great Bailout si protrae nel piano delle ombre della storia, affiancandosi ai mantra pieni di rancore della poetessa e a quello stesso gorgoglìo di sound collage attorno a cui essa gravita da un decennio. Quasi ogni episodio ha qualcosa da offrire all’ascolto di chi dimostra interesse: Il pulviscolo di note d’arpa con cui Mary Lattimore apre Guilty è così immediatamente caratteristico, con il suo fiorire attorno agli archi e al corno; segnano con una pari intensità la manipolazione delle sue linee melodiche e la ricostruzione di un mosaico di sample dai frammenti staccati, dalle briciole. Ugualmente spiazzanti sono l’ossessivo e statico tema di pianoforte che accompagna la dark ambient e i tuffi nell’horror del soprano drammatico Alya Al Sultani in All The Money, nonché la chiusura del brano nella bora più caotica. Posso proseguire decantando le lodi della tromba effettata di Ambrose Akinsmure dispersa e disperata tra gli hi-hat e gli inaspettati cambi di tono che fanno da involucro per God Save The Queen, della balbuzie satanica e della manipolazione di nastri hardcore di Death By Longitude, dell’holler solitario e penoso di My Souls Been Anchored, che tanto ricorda i momenti più ispirati di Dial Up, ma decido di fermarmi prima di diventare più stucchevole del dovuto e vi rimando immediatamente al disco. Ho taciuto, per correttezza, dei suoi minuti più belli. 

Non credo che The Great Bailout riceverà grande giustizia di critica. Jazz Codes e Brass hanno dimostrato che il premio arriva quando ti adegui all’industria, quando trovi certi megafoni per addolcire i tuoi temi – ma questo, ahimé, credo che sia scontato. Però, per quanto mi riguarda, le creazioni sonore che Ayewa e i suoi collaboratori hanno lasciato emergere dal suo incontrollabile e costante pestaggio poetico, per non parlare delle strategie di presentazione, delle scenografie e delle scene che The Great Bailout vuole mostrare all’ascoltatore, si ascrivono tutte ai migliori momenti della musica che ho avuto modo di sperimentare in questo 2024. Contemporaneamente, si ha la sensazione concreta di essere finalmente davanti al nucleo pulsante dell’arte di una scrittrice che, per quanto con una grande confusione, riesce sempre a creare scompiglio nelle scene che frequenta. Forse oltrepasseremo questo sweet spot già con la prossima uscita targata Moor Mother, ma assistere nella fucina alla fiamma che divampa, istruita e modellata nel fatto compiuto del disco, è stato un privilegio assoluto.

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M