MUSICA DALLA PANGEA

La gigantesca industria culturale in cui siamo sommersi come pedine senza alcuna agency accumula e accumula prodotti di ogni genere in quella gigantesca cassettiera in cloud che è la nostra memoria, che sia biologica o informatica cambia poco. L’antipatica conseguenza dell’essere pedina in questo sistema è quella di avere un proprio punto di vista. Punto di vista sicuramente privilegiato e comodo, ma parziale e distante. Siamo sempre persone coccolate dalle contraddizioni dell’occidente globalizzato, con un bell’accesso a internet, con il tempo e la voglia di leggere un longform come questo – nello stesso mondo in cui ci sono località in cui l’invasione è dietro l’angolo, la fame morde a morte, una zanzara non è solo una zanzara. Da quando nasciamo guardiamo il mondo da uno spioncino la cui lente, per quanto abnorme, è comunque stata soffiata da un qualcuno o da una rete di qualcuno o, più recentemente, da un qualcosa. Ci sono diversi livelli di interazione tra il mondo delle cose e il nostro punto di vista, che partono dall’ascoltare solo Enzo Dong se sei napoletano e non te ne frega un cazzo e arrivano al confrontarsi con un’enorme cartina del pianeta Terra, casa nostra, e notare quanto tempo passiamo in camera da letto e quanto poco tempo nello studio. La deformazione delle nostre frequentazioni artistiche è, nel migliore dei casi, nauseante, vertiginosa. Quanto è densa la baraonda di nostri idoli che si ammassano sulle due coste degli Stati Uniti, sul centro-sud della Gran Bretagna, sulla nostra nazione? E se noi siamo quello che mangiamo, per citare Feuerbach e mia nonna, una distribuzione di questo genere quanto dice di noi? Non è difficile: dice che siamo persone nate in un certo contesto storico, in un certo luogo del mondo, magari con una certa classe sociale e un certo giro di amicizie. Quando i dati a disposizione sono così ineludibili, quando le spaccature così nette, il lavoro di classificazione è dolce: abbiamo la demografica. 

Negli anni precedenti la grande esplosione di internet il meglio che l’Occidente ha saputo regalare a se stesso, facendo un enorme torto al resto del mondo, è una perfida rappresentazione sparpagliata e coloniale di tutti quei luoghi che occidente non sono – non vi sto raccontando nulla di nuovo. La grande industria musicale novecentesca ha esotizzato tante realtà imponendo il suo sguardo postcoloniale anche prima di Ravi Shankar coi Beatles, e i meccanismi di controllo, lo stare sotto al pacchero dell’occidente, si sono replicati come conigli dentro ai fossi a partire dagli anni ‘80, dalla svolta orientalista della new age e dalla scoperta dei catalogacci world music. World music è un termine così particolare, se ci soffermiamo. Musica dal mondo, come se l’Occidente, di questo mondo, non facesse nemmeno parte: appunto, al di qua e al di là dello spioncino. Neanche i grandissimi della storia della musica sono stati esenti da questo errore epocale (nel senso, caratteristico dell’epoca): guardate la faciloneria con cui Steve Roach si approccia alla spiritualità degli aborigeni australiani con Dreamtime Return, o il periodo africano di Lizzy Mercier Descloux – i primissimi esempi che mi vengono in mente. 

L’haute couture ha attraversato l’infuori dell’Occidente, con poche doverose eccezioni, sempre nello stesso formato: bianco promoter colleziona naturalia da luoghi che per il pubblico sanno vagamente di spezie (che sia harissa o coriandolo poco cambia). L’artiglio di Toy Story sceglie volta per volta quale delle grandi personalità di una musica che non è storicizzata con i tempi dell’Occidente sacrificare sul falò di quelli che ne sanno. Tjokrowasito e gli Huun-Huur-Tu sono gli unici progetti del loro universo culturale che diventano importanti agli occhi del pubblico, Nonesuch Explorer decide cosa arriva al di qua dello spioncino e ci siamo tutti quanti ripuliti: ne sappiamo, di quello che succede dall’altro lato del mondo. Magari riusciamo anche a implementarlo se siamo dei musicisti: è quello di cui parlavamo qualche tempo fa nella nostra intervista con Lili Refrain, un approccio con luci e ombre. 

Grazie a dio il secolo breve è finito da decenni, e da più o meno altrettanto tempo siamo tutti quanti alle prese con il più grande cambiamento di paradigma mediatico che l’essere umano abbia mai visto fino ad oggi: una società connessa tramite internet. 11 Settembre blablabla, primavere arabe, blablabla, deep learning, chatbot ed eccoci qui, tutti quanti più o meno uniti da tecnologie tutto sommato comparabili e con in tasca una lingua franca che ci concede di comunicare a migliaia di chilometri di distanza senza fare troppi passaggi intermedi. Non c’è bisogno che vi spieghi io come funziona (non lo so). 

A questo cambio di paradigma mediatico sta conseguendo, con una certa velocità, un cambio di paradigma culturale e di distribuzione della musica indipendente. Da un lato, l’iperconnessione facilita molto l’emersione e l’hype costruito intorno a singole scene, un po’ un’evoluzione più etica e articolata dell’approccio world. Kampala o Essaouira sono l’esempio perfetto di questa faccenda: luoghi che hanno un’energia potenziale artistica così imponente da non solo esplodere al di fuori dei propri confini nazionali, ma anche diventare delle vere eterotopie che brillano sotto i riflettori accesi dalle normali cittadine dell’Occidente globalizzato. Dall’altro lato, finalmente, il manico del coltello è in mano ai singoli artisti, che con grande semplicità possono esprimere un punto e caricarlo su bandcamp tramite proxy. Algeria? Vietnam? Filippine? Cile? È importante? È ovviamente importante, con un ma. È importante perché l’identità della nazione da cui provengono artisti e scene, tipicamente, vibra con una forza inconfondibile all’interno della loro musica (o, allargando, delle loro opere). Vibra, ma emerge, trasuda, insegna ed entra a spada tratta nel Great Planet Earth Songbook che tanto ignoriamo ogni volta che facciamo i calcoli su quale sia il nostro album preferito (il long play è un formato giovane di una settantina d’anni), su come suonasse la musica nel ‘600 (ovviamente in Europa, ragazzi…) o su come sia una canzone “folk”. Ma torniamo al ma. Il ma: ancora più potente dell’impronta etnica che si subodora in questi dischi indipendenti è quella sensazione indescrivibile che ci fa pensare che i musicisti che hanno uppato quell’uscita, alla fine, sono veramente tanto come noi. Ok, non veniamo dallo stesso universo, culture diverse, esperienze diverse, ma quanto degli Asia Menor o dei è possibile ritrovare negli Stegosauro? Quante volte ci capita di pensare: ma questi vengono effettivamente da questo paese o si sono solo localizzati lì

C’è una treccia di ragionamenti che viene filata a partire da questa impressione. Da un lato la Naomi Klein che è in noi (se c’è ancora) si scazza e bestemmia contro la globalizzazione: dai, come cazzo è possibile che l’hardcore punk delle Taqbir sia così newyorkese? Da qualche parte ci deve essere uno stivale invisibile che schiaccia a forza l’egemonia culturale dei paesi anglofoni su tutto il resto del mondo. Dall’altro lato, sensazione diametralmente opposta: se molti di questi act sono indipendenti e fanno solo il loro gioco, non siamo davanti a una certa forma di internazionalismo? Non è più una catena di Starbucks che piaga il mercato horeca di Bangkok; è Yeule che, magari, va da Singapore a finire nelle playlist di uno Starbucks di Manchester. E nel campo artistico, questa cosa deve funzionare: è sempre in No Logo che Klein racconta come siano le comunità meno forti a livello politico ed economico il luogo d’elezione dove germinano le mode più cool e i memi più possenti. Qui l’esempio di Nyege Nyege e dell’impatto che ha avuto al di fuori dell’Uganda è lampante. I confini, in questo caso, mi sembra che vengano rotti in una direzione bottom up, con l’occasionale artista che arriva da lontano e sfonda veramente per strane congiunture di marketing, algoritmo, movimenti di denaro. Ma non c’è bisogno di farsi vomitare in bocca la broda preriscaldata da Sony (colpevoli anche noi con la recente recensione di Silvia Perez Cruz) per arrivare, oggi, ad uno sguardo consapevole su tutta la musica che viene fatta nel grande altrove dell’Occidente. Non c’è bisogno di essere etnomusicologi per esplorare certe nicchie, e ignorarne l’esistenza, in questo periodo storico, è nel migliore dei casi una cosa molto miope – nel peggiore una cosa sbagliata e basta. Le nostre operazioni scene che esistono e periferie hanno questo obiettivo: connettere, condividere. Una mailing list, non un museo di storia naturale. Con i Rắn Cạp Đuôi si può chiacchierare su Instagram, non è che vanno ascoltati durante delle bianchissime esplorazioni psichedelico-spirituali. (Non ascoltate i Rắn Cạp Đuôi durante le vostre esplorazioni psichedelico-spirituali). 

Quella mappa del mondo che citavo prima, tutta concentrata sulle megalopoli degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, comincia a collassare vistosamente nel momento in cui – oggi – scegliamo di ronzare in quegli spazi della musica che esistono, che abbiamo a disposizione, e che ci raccontano tantissimo di loro, di noi, e di loro e noi insieme. Abbiamo molti strumenti per depotenziare la gerarchia dell’industria culturale che si concentra sulla costruzione dello spettatore perfetto (e non dell’opera d’arte). Alienarci dal nostro ruolo di consumatori è molto più facile, se facciamo un passo di lato e scopriamo quanto il pianeta abbia da offrirci. Avete ascoltato il nuovo disco di Siavash Amini? Il grime burkinese di Art Melody? Quella bestia di Aunty Razor? La Baracande e Soit Le Jour, avant-folk occitano edito per Pagans? I dischi che Shackleton sta facendo con gente come Scotch Rolex e Siddhartha Belmannu? Il jazz di Mário Costa? Wata Igarashi? Rodrigo Ogi? QOW? I La Vida Bohème? I ТДК? Ne ho tirati fuori tanti perché vi vedo malandrini che piombate tutta la vostra attenzione selettiva sui dischi che consigliamo ignorando tutto il resto del testo. Torniamo al punto.

Noi guardiamo altrove non perché siamo tutti appassionati di etnomusicologia, né perché abbiamo le effettive competenze per curare cataloghi che abbiano quel tipo di approccio di cui parliamo prima, che ha fatto la fortuna di Nonesuch. Abbiamo, semplicemente, il pianeta a portata di mano. E, stavolta, non solo perché qualcuno ci ha dato una cartina turistica. Per quanto possa essere più verticale e per quanta storia possa racchiudere in sé la musica popolare di una grande città occidentale, è semplicemente wishful thinking pensare che la maggioranza delle cose interessanti si concentri lì. Anzi, tendenzialmente molta della musica popolare delle nostre zone privilegiate tende ad accumularsi in degli apparati sclerotizzati che vanno avanti con le solite regole del tardo capitalismo: network e net worth. Chiunque abbia provato a sfondare in qualsiasi ambito sa perfettamente come funziona, qui: non c’è manco bisogno di sondare chissà che retroscena. Non so benissimo come funzioni, , ma so che giorno dopo giorno mi passano in cuffia tanti dischi fatti con lo sputo da gente che sta passeggiando nel proprio percorso con quella indipendenza e quel menefreghismo delle grandi meccaniche che ti rende un outcast – in musica, un outsider. E quale può essere la casa degli outsider, se non quella che non ha confini? 

Quando a gettare luce sull’altrove è gente che ha l’unico obiettivo di conoscere e godersi l’arte – dal momento dell’ascolto a quello della condivisione – l’esplorazione chiude il suo fronte antropologico-accademico e si comincia a parlare di scambio tra culture, contaminazione artistica, parallelismi di classe. Si illumina in questo modo un plancton di relazioni e minuscoli organismi culturali che da soli valgono poco e niente, ma insieme sono la chiave di volta di tutta la biodiversità di un oceano di musica. Cambiamo la metafora e mettiamoci coi piedi per terra. La cartina si evolve per accogliere gli outsider, i continenti si affratellano, i confini diventano più difficili da tracciare e l’universo di artisti può raggiungersi a piedi. Siamo già e ancora sperimentando l’effetto della pangea nel momento in cui ci connettiamo e andiamo a vedere che roba è la power electronics in Somalia o il punk underground in Turchia. Lo facciamo abbastanza? Io lo faccio molto, ma non sento di stare sfruttando al meglio queste mie possibilità. Voi? Soprattutto, cosa può nascere nel momento in cui noi ascoltatori (che muoviamo a modo nostro l’industria, soprattutto a questi livelli) scegliamo di mettere questi altrove sullo stesso piano del nostro qui? Qual è l’effetto, cosa ci arrischiamo a creare?

Queste riflessioni, che già mi fermentavano dentro da mesi, sono state abbondantemente catalizzate da una rassegna di serate che sono state curate da Klang in quel di Roma. Quando lo staff è entrato in contatto con noi ho immediatamente colto la palla al balzo per parlare del nostro lavoro di scoperta e connessione, da vero stronzo. Il giro di serate è cominciato lo scorso 15 ottobre, finirà il prossimo 21 gennaio e vede alternarsi happening che raccolgono artisti più o meno emergenti da Stati Uniti, India, Iran, Turchia, Svezia, Giappone, Grecia e Italia. Gettare uno sguardo su quello che è uno dei più interessanti eventi che prende a mani basse da questo plancton che ho descritto qui sopra, magari, se si è di Roma, fare un salto, è sicuramente un modo poderoso di muovere l’industria su coordinate orizzontali, molto più vive e promettenti di quanto possano promettere altre serate ben più blasonate – di cui non facciamo il nome. 

Ci siamo presi la libertà di fare qualche domanda a Cristiano Latini, uno dei curatori del format, sia per dare l’occasione di espandere sul progetto di Pangea, sia per confrontarci su temi che ho aperto qui sopra e che già ci sono tanto cari. Il nostro scambio:

Ciao Cristiano! Innanzitutto come avete organizzato il lavoro della rassegna? Ci fate una introduzione, un racconto un po’ più approfondito e “dietro le quinte” di quanto si trova nel presskit?

Ciao Livorosi del nostro cuor. 

Dunque, come penso un po’ tutti sappiano, Klang è nato ed è stato per lungo tempo uno spazio fisico, un luogo dove concentrare sotto uno stesso tetto un po’ tutte le cose che mi stanno a cuore, con una connotazione musicale fortemente incentrata sulla ricerca sonora e musicale. Purtroppo l’avventura in qualità di locale-club è terminata circa un anno fa (se foste curiosi di un pochino di retroscena, lunga intervista qui), e da allora ho quasi subito cercato di reinventare Klang come progetto di curatela artistica. Non vi nego che è stato un anno piuttosto difficile. Ho trovato diverse porte aperte soprattutto da chi aveva più direttamente vissuto l’esperienza di Klang e in base all’immagine che intorno ad esso si era costruita, ma anche un’infinità di porte chiuse, indisponibilità, mancanza di risposte (che è una cosa che veramente non sopporto), mancanza di risorse. Anche in ambito pubblico.

So perfettamente di lavorare su sonorità ed artisti che abbiano un equilibrio di sostenibilità economica e di pubblico molto incerti e precari, e che indubbiamente spostare l’asticella su qualcosa di più clubbing e più facilmente potabile darebbe i suoi frutti. Ma non è quello che intendo fare e che per me sarebbe interessante o importante portare avanti. E insomma, in generale il succo è che si è lavorato su davvero moltissimi progetti che per un motivo o per un altro si sono tramutati in un nulla di fatto. Ma proprio tantissimi! Location contattate e visitate, accordi presi, artisti confermati, date fissate, e poi nulla.

Sì, siamo comunque riusciti a fare diverse cose di cui siamo in ogni caso più o meno orgogliosi (in cima alla lista sicuramente Nyokabi Kariūki all’interno della Basilica di San Pancrazio in collaborazione con i ragazzi di Ekstasis, il nostro piccolo ma a mio avviso squisito spazio all’interno di Dancity, nonché le nostre varie collaborazioni con Gruppo Chimera o Visioni Parallele), ma gran parte del lavoro che è stato fatto è rimasto sommerso e non è stato possibile realizzarlo. Cosa che sinceramente non mi andava proprio giù. 

Sia oggettivamente per il lavoro svolto a vuoto, sia (e soprattutto) per la quantità di occasioni sprecate di fare qualcosa di bello e di valido da poter restituire a questa città e a questo paese. In questo contesto a un certo punto sono stato contattato da Hacienda, questo spazio onestamente incredibilmente bello e versatile, il quale, indipendentemente dalla propria attività di club, voleva iniziare un percorso più trasversale e proporre contenuti più focalizzati sul discorso culturale. Ci ha proposto un calendario molto fitto, invece di proporre semplicemente un insieme di “contenuti Klang”, ho pensato che fosse più interessante ed efficace ideare un concept a sé stante, qualcosa che avesse un suo senso intrinseco e complessivo.

Ho quindi ripreso in mano tutti i progetti rimasti accantonati, e ho cercato di radunarli in un format unico dando loro un senso comune. E così è nato “KLANG: PANGEA”. Nel momento in cui è venuta fuori l’idea, non era ancora successo nulla di quanto geopoliticamente stia avvenendo in questo momento, ma a mio avviso rende tutto ancora più sensato e importante. Nel nostro piccolo, quasi necessario. Come Klang il mio obiettivo è sempre stato quello di indagare la complessità e le infinite sfaccettature della sensibilità dell’animo umano e la sua capacità di restituire agli altri una visione del mondo attraverso il filtro unico dello sguardo dell’artista. 

Umanità, bellezza e condivisione di questa essenza. Questo è ciò che mi interessa fare e per cui penso che una rassegna come KLANG: PANGEA assuma oggi una rilevanza più importante che mai. In un momento in cui sembra indispensabile “tifare” per qualcuno e ci si trova ancora una volta ad alimentare diffidenza e rancore verso il prossimo, mi interessa proporre una visione che superi le fazioni e guardi all’essere umano nella sua interezza e alla sua possibilità di veicolare messaggi di bellezza ed emotività universali. Penso che KLANG: PANGEA rappresenti tutto questo, le letture possibili sono molte e su più livelli, ma sul piano intrinseco (e utopico), l’intenzione è cercare di divulgare e avvicinare culture in nome dell’arte.

Qual è stato il percorso per scegliere gli artisti e le zone da coprire? Come mai non avete toccato l’Africa? Mi sembra che ci siano molte realtà, anche molto vicine, che avrebbero potuto brillare in un evento del genere.

Sono molto onesto: per una gran parte è stata ovviamente la disponibilità degli artisti su territorio europeo e/o i rapporti già instaurati durante l’anno passato, come accennavo prima. A parte questo in realtà la rassegna potrebbe avere una sua seconda parte che sì, toccherebbe ampiamente anche l’Africa, e in generale si tratta di un format che, se ce ne fossero la possibilità e i presupposti, io vedrei andare avanti abbastanza a lungo. L’idea di base sarebbe veramente coprire tutto il mondo, anche se ovviamente ci sono tutta una serie di fattori che devono combaciare nel modo giusto.

Per il momento ci sono queste nove date e mi concentro ampiamente su queste, ma nulla è escluso, e soprattutto al momento nulla è fuori per una ragione specifica. Se in primissima istanza non sono voluto andare subito in Africa, è perché di fatto in ambito di musica elettronica e sperimentale l’Africa è piuttosto sdoganata ed è già ampiamente considerata già da un decennio o più. A partire da tutta la narrativa della diaspora e dell’afrofuturismo, la curiosità verso l’elettronica proveniente dal continente africano è già abbastanza “consolidata” nell’immaginario del nostro ambiente, e già conta presenze importanti con artisti che sono a tutti gli effetti headliner in moltissime realtà di settore. Nella mia ottica in qualche modo lo rende meno “urgente”.

Per quanto possibile, l’intenzione è guardare proprio lì dove i riflettori si soffermano meno ma dove in generale c’è tanto da dire e da dare. E in generale, anche se declinata territorialmente, l’idea è ricercare e proporre ciò che di bello e interessante ci sia anche un po’ fuori dai canali più battuti. I confini geografici sono un’illusione e un gioco fittizio, per definizione la Pangea è un unico continente, e il significato è proprio quello. In assoluto la divisione in paesi è solo costruire un’occasione per poter focalizzare l’attenzione volta in volta su qualcosa di specifico dandogli maggior risalto, assolutamente non una sorta di classifica meritocratica.

Ci è capitato spesso di visualizzare un certo antagonismo tra l’impulso alla contaminazione tra diversi generi e culture e il rischio di compiere un’appropriazione culturale verso realtà meno vicine alla nostra sfera. Cosa ne pensate? Una rassegna come Pangea può dare delle risposte su questo dilemma?

Purtroppo la dicotomia fra cosa sia genuina curiosità verso l’altrove e spontaneo desiderio di conoscenza, e ciò che invece sia appropriazione, decontestualizzazione, banalizzazione e assorbimento all’interno di un’occidentalità annoiata che risucchia risorse dove può, è molto labile e non sempre afferrabile. Così come non sempre è facile sondare quanto un interesse verso qualcosa sia originale o quanto invece contestuale e circostanziale. Nel nostro ambiente c’è moltissima ricerca della razionalizzazione e intellettualizzazione delle cose, ma in parallelo anche (e molto spesso soltanto) un culto spasmodico e mascherato con scarsi risultati verso ciò che sia a vario titolo “hype”, volendolo a tutti i costi nobilitare con grandi giri di parole. Onestamente credo e spero che il succo della questione sia nell’approccio e nella motivazione. 

Personalmente ascolto di tutto senza alcun vincolo, molto spesso nemmeno guardo a priori la storia dell’artista in questione. Nessun filtro, nessuna influenza. Chiaro, se poi qualcosa mi appassiona cerco di approfondire fino all’osso, e di solito nasce l’impellenza di costruire qualcosa per poterlo proporre dal vivo con Klang. Ma essenzialmente quello che vorrei provare a suggerire è proprio questo: genuina curiosità e amore per la scoperta. La scoperta e la valorizzazione di cose incredibili che per vari motivi finiscono nel mare magnum dell’indifferenza mediatica e di fruizione, ma che sono belle, ricche, arrivano dirette in pancia e nel cervello, lasciano qualcosa dentro, ed è semplicemente uno spreco mortale che passino inosservate ai più.

Qui su Livore abbiamo notato una tendenza emergente in gran parte della musica non-occidentale contemporanea, tutta direzionata su declinazioni dell’elettronica e sperimentazione dura. Concordate? Avete una lettura su questo fenomeno da condividere con noi?

Ovviamente concordo. Premesso che chissà quante cose meravigliose esistono e nemmeno ci arrivano, è chiaro che in qualche modo ci sia anche un discorso di “familiarità stilistica” e di circuiti di divulgazione. Comunque penso semplicemente che all’improvviso ci sia stata la possibilità di accedere in modo abbastanza semplice e veloce a sonorità e mezzi produttivi nonché di diffusione che per molto tempo per molti posti sono stati semplicemente impossibili e impensabili.

E insomma, vedersi cadere addosso una valanga di 50 e passa anni di elettronica quasi dal nulla e la possibilità di accedere ad un software con cui è relativamente semplice realizzarla, è un qualcosa che ti cambia radicalmente le prospettive. Sia musicali che proprio culturali.

Senza contare ovviamente tutto un insieme di presa di coscienza, di consapevolezza e di identità che spingono le cose nel verso giusto. Se ci sommiamo il fatto che probabilmente in Occidente le idee iniziavano ad essere un pochino stantie e troppo spesso molto conservative, è chiaro che ci sia stato terreno fertile per la nascita di un certo interesse che ha contribuito ad alimentare un’ondata tale di freschezza. Di sonorità, di idee, di arrangiamenti. Tutto impastato con retaggi culturali alieni, soluzioni inedite, la possibilità di sperimentare senza pesanti retaggi di regole e schemi pre-impostati. Insomma, penso che a un certo punto fosse veramente inevitabile. Fortunatamente!

Qui a Roma ad esempio c’è una realtà bellissima che si chiama Latam Futuro (curata dal duo La Diferencia) che indaga tutto questo dal punto di vista del Sud America, ma grazie a persone effettivamente trapiantate dal Sud America. Ed è davvero una delle cose più valide, interessanti, fresche e vere che siano nate ultimamente. Gli equilibri globali iniziano timidamente a vacillare, e questo si respira in qualsiasi ambiente, da quello più freddamente economico-finanziario a quello culturale e umano. E a mio avviso a livello artistico mischiare le carte, anche se a volte in modo burrascoso, è sempre interessante e dà sempre nuova linfa a tutto, specialmente se si ha una mente golosa e curiosa.

Se questo abbia dato luogo ad un certo “hype”, e adesso ci si stia muovendo sempre più in quella direzione, penso sia comunque naturale e in ogni caso un bene, poi si raggiungerà una stabilità e un equilibrio. In cui probabilmente a nostra volta assorbiremo influenze, in uno scambio che si spera sia sempre più costante, e sperando solo che non diventi un discorso meramente speculativo o omologativo. Che in parte come dicevamo già è, ma ci trovo ancora molta verità e spero non si perda.

Credete che l’Italia sia un luogo adatto a questo tipo di iniziativa? Peraltro, se Pangea fosse nato, chessò, a Berlino, chi avreste chiamato a rappresentare la serata dell’Italia?

Sincero? Assolutamente no. Ma proprio per una realtà come Klang. Ma è proprio per questo che per me ha senso ed ha senso qui. Perché non c’è, o c’è pochissimo e relegata a situazioni “brand” molto specifiche, ed è semplicemente assurdo e triste che sia così. Io finché ne avrò la possibilità, combatterò per cercare di alimentare curiosità ed interesse, di proporre, di divulgare. È una sorta di vocazione, non posso farne a meno, anche se molto spesso è veramente molto dura, l’indifferenza è pressoché totale e spesso è davvero molto molto frustrante. Anche perché se l’indifferenza è totale, la sostenibilità è molto pericolosamente precaria per tutti.

Ma parlando di pancia, io non voglio accettare di vivere in una città o in un paese dove la mia unica chance siano i grandi “brand festival” o il clubbing del fine settimana. E penso che tanto meno ci sono iniziative “diverse”, tanto più diventi un circolo vizioso e sempre meno se ne instauri la voglia. È una battaglia a tutti gli effetti contro l’indifferenza, ma per il momento, anche se con alti e bassi, non posso fare a meno di provare a combatterla. Ovviamente in tanti mi hanno detto o proposto di “esportare” Klang. Anche solo per un discorso di “accoglienza” da parte delle istituzioni pubbliche in altri luoghi. Il fatto è che non penso che altrove sia poi così tanto oro quel che luccica, e in generale per me Klang ha senso qui dove ce n’è, almeno per me, la necessità. 

A Berlino se la passano abbastanza bene da questo punto di vista, sarebbe veramente necessario un altro attore in tal senso? Non so, Klang nasce qui insieme e dalla mia insoddisfazione. Forse altrove brillerebbe intensamente di luce propria, ma per me onestamente perderebbe un pochino di senso. Non chiedermi chi sceglierei per rappresentare l’Italia altrove, perché sarebbero veramente troppi e ho paura di non includere qualcuno di importante che non si offenderebbe di certo, ma mi offenderei io ad averlo omesso. Così come escluderei a priori diversi nomi considerati e considerabili “must” ma che per me non sono poi così meritevoli.

Ma insomma, anche se non lo sappiamo e viviamo di complessi di inferiorità, siamo tanto bravini da queste parti. Parlando sia di giovanissimi che di persone ormai iper consolidate. Più che un appuntamento sarebbe da fare un’intera rassegna dedicata. Te l’ho detto, è stato un anno di veramente molte molte porte in faccia, ma non si sa mai. Qualcuno dopo l’uscita del cartellone di KLANG: PANGEA si è rifatto miracolosamente vivo pur non avendomi mai risposto. Chissà…

Come mai avete scelto di sviluppare il concept della Pangea con la divisione per serate con ospiti di singole nazioni?

Penso di averti più o meno risposto prima, comunque essenzialmente per me era importante creare degli “spotlight” più fittizi che altro, in modo da proporre dei micro-universi e andare ad approfondire in modo un pochino più specifico una determinata “scena” culturale. Per dare anche risalto alle singole geografie rispettandone il valore e la singolarità socio-culturale. E infatti gli appuntamenti iniziano sempre con la proiezione di un film indipendente del paese di riferimento (a cura di Luciano La Camera) e con una selezione gastronomica a tema (curata dai deliziosi Ciao!). Se avessi fatto solamente delle serate miste, temo sarebbe diventato tutto più slavato, e la specificità di determinati artisti sarebbe andata persa in un insieme. Anche se di base con gli appuntamenti “Politeia” il succo è proprio abbattere quei finti confini e radunare il tutto in un’esperienza generale e complessiva. A ricordarci sempre che la sostanza è, per l’appunto, ambire ad un unico supercontinente del suono e nel nome del suono di cui siamo tutti indistintamente cittadini.

Questa domanda è un semplice spazio libero per eventuali riflessioni vostre che non sono emerse con le precedenti, e per un ringraziamento per il vostro lavoro. Saluti, e in bocca al lupo per le prossime serate! 

Mi sa che ho già parlato fin troppo. Mi piacerebbe solo dire che se le idee si ritengono interessanti e valide, vanno supportate con presenza, passione e convinzione. Altrimenti poi è inutile lamentarsi della loro assenza quando finiscono con l’esaurirsi su se stesse. A volte vincere la propria pigrizia mentale o reticenza con un briciolo di curiosità, ripaga in modi esponenziali, impensabili e inaspettati. E varrebbe la pena darsi una chance. 

Ci tengo a ringraziare Hacienda in particolare nella figura di Maurizio Pallini per la fiducia e l’investimento in questo progetto onestamente un po’ ambizioso, e i miei storici collaboratori con cui condividiamo di cuore la missione filantropica di Klang: l’insostituibile Lorenzo Corsetti, la nostra graphic designer Milena Medu (mltfnk) e la nostra videomaker Elisabetta Di Carlo. Che insomma, le idee da sole sono belle, ma per realizzarle servono anche le persone giuste, anche fosse solamente per il supporto morale che ci forniamo a vicenda.


Pangea ha recuperato un folto gruppo di nomi veramente, ma veramente interessanti – e non è così comune che il gusto su questi argomenti trapassi l’hype factor. Le nostre top pick sono sicuramente le due serate Politeia (immaginate vedere dal vivo in un paio di giorni Debit, Klara Lewis, Katarina Gryvul, S280F e Zoë Mc Pherson), ma quasi tutte le serate all’Hacienda sono estremamente economiche, nate direttamente dalla passione di Klang che ci spende il sangue, e terribilmente stimolanti. Dalla prima serata, oramai già andata, recuperatevi almeno USUSUSESESERERER di Axine M, un album di sound collage bestiale e stranamente dancey, di una matericità che viene dalle parti di Kee Avil e con un’attitude distruttiva e punchy di stanza deconstructed club/electro. 

Domenica prossima tocca all’India, il cartellone chiama a raccolta la dark ambient di Ruhail Qaisar e la dub aliena di Tadleeh, due nomi che dal vivo devono procurare una pelle d’oca non indifferente. Il primo è decisamente materiale da Halloween, quest’anno ha fatto uscire il crudo e opprimente Fatima, il cui spin sul genere consiste nell’alternare lastre di droni meditabondi, santi e alienanti, a scariche di power noise industriale di ascendenza Krlic/Prurient. Tadleeh è in Italia e ha in passato pubblicato su Haunter, è alla sua seconda apparizione con Klang, ma l’abbiamo vista anche al Robot del 2021. La sua è una take violenta e inquietante sulla tribal ambient, commistione di beat techno-dub, sintetizzatori a valanga e voiceover mixati direttamente dal CEO delle backrooms. Try it.

Nella prima Politeia brillano, come avevo anticipato, Debit e Klara Lewis con Nik Void. Conoscevo già la prima, una producer messicana attiva dal 2018, ma non avevo mai avuto modo di ascoltare il suo EP System, una mitraglia di guarachero accelerato e ipersaturato che con la sensibilità dei 2020s entrerebbe in classifica in mezzo secondo. È uscito nel 2019, il che lo rende… avanti, immagino: una ottima occasione vederla scassare dal vivo. Klara Lewis e Nik Void hanno bisogno di molte meno presentazioni, lavorano insieme dalla release di Full-On e sono, probabilmente, nel loro momento più felice. Full-On, nello specifico, è un compendio assoluto degli estremismi raggiunti dalla musica elettronica nell’ultima decade: c’è la coralità herndoniana di I’ll Always e Amo e il collagismo assoluto di Phantasy, l’elettronoise d’avanguardia di Guitar Hero e di Green e la club scassata di Say Why. Se a tutto questo aggiungete le disparate provenienze dei producer che si alternano nella serata (Italia, Messico, Svezia, UK, Giappone) avete ben più di un motivo per farci un pensiero.

Dell’Iran abbiamo parlato tanto, tanto. Ma mai siamo riusciti a vedere artisti dell’aboveground di Tehran in quel dello stivale. Il 12 Novembre l’Hacienda ospita Rojin Sharafi e Saba Alizadeh per una serata all’insegna dell’elettroacustica. Entrambi sono vecchie conoscenze in redazione: Scattered Memories di Saba Alizadeh riscosse un immane successo di critica nel 2019, ma noi preferiamo di buona misura i mix schizofrenici e maleducati di Rojin Sharafi, che nel suo Kariz raggiungono livelli piuttosto alti immergendo il caratteristico suono del santur e del piano preparato in delle lunghe sessioni di improvvisazione in live electronics. Ancora una volta, vederli dal vivo è una grande occasione.

La darkness giganteggia anche nella serata dedicata alla Turchia, che conta la producer ambient Hüma Utku, attualmente sotto eMego e la art popper Okay Vivian, artiste rispettivamente di Instanbul e Ankara. Se la dark ambient tagliata con l’accetta della prima ha una piacioneria smaccatamente radicata nel clubbing berlinese (non per forza una cosa negativa), la scrittura della seconda si potrebbe facilmente radicare a quella di una Sevdaliza un po’ meno diva e un po’ più concentrata sulla pura sostanza. Il suo Saye, long play del 2021, ha alcune bordate di produzione che non sfigurerebbero in una classifica di quest’anno, magari vicino a una musica generativa e glitchata come quella degli Amen Seat (la opener, Whisper Like Ice, Damaged Wings). My fucking jam.

La serata della Turchia apre la strada a quello che probabilmente è l’evento che mi affascina di più di tutta la rassegna, il Politeia di venerdì 1 dicembre. Cina, Ucraina, USA e Francia si uniscono per una serata di una qualità eccezionale, con nomi che sono stati mascotte della nostra redazione (Zoë Mc Pherson), eroine del glitch pop (Gryvul) e nostre nuove scoperte sul lato più sperimentale. Mi è capitato di rivalutare, con un ascolto più attento, proprio l’elettronica d’ultima thule di S280F, che mi ha straziato e spaventato a colpi di tristan-akkord, spoken word e campionamenti spezzati a metà, ambiance da videogioco e jump scare. Non mi impegno molto di più di così a raccontarvi dei miei dischi preferiti di Mc Pherson e Gryvul, che sono rispettivamente uno degli album più elaborati del suo tempo (String Figures, della prima) e un gioiellino del glitch pop d’avanguardia (Tysha, della seconda). Semplicemente, cercate di andare a vedere la serata. E fatemi sapere.

La serata della Svezia chiude il mese di dicembre e affianca due act molto diversi, KABLAM e Linus Hillborg. Se il secondo è impegnato nella formazione di abnormi soundscape di classe, neuronali, vedere la prima dal vivo deve essere un’esperienza sfiancante e soddisfacente allo stesso tempo. Quest’anno KABLAM è uscita con un EP di tre pezzi di elettronica sperimentale, ma il suo disco più famoso è Confus​í​a, del 2019: una lunga parata di pugni hard dance dedicata, inspiegabilmente, alla figura di Ildegarda di Bingen. Date un orecchio ai beat insistenti e nevralgici del disco e fatevi voi stessi un’idea. 

Dal giappone, in campo di musica sperimentale, ci sono sempre state tonnellate e tonnellate di uscite. Klang ha deciso di mettere da parte le direzioni più free dell’underground giapponese (che, però, avevano esplorato nella prima Politeia con Araki) e concentrarsi su una club music sempre vivacemente decostruita e ancorata alla regola della techno. Della coppia Temple Ov Subsonic Youth / MIRA新伝統 ci sentiamo di consigliare soprattutto il long play uscito quest’anno per il primo, 35​.​647116, 139​.​702350. Il disco è un’aberrazione da dancefloor che infila uno dopo l’altro i luoghi più bui della techno industriale: un pezzo devastante e mastodontico che può rivelarsi pericoloso, se infilato in una notte di gennaio in quel della capitale. 

Chiude la rassegna la serata sulla Grecia, che mette insieme le anime drone/metal degli MMMD e la creatività improbabile di xato, con in coda un dj set della nostrana Maria Violenza. Gli MMMD sono attivi dagli anni ‘10 e hanno avuto un significativo successo con Som Sakrifis nei circoletti giusti (ai tempi erano sotto moniker Mohammad), mentre xato ha recentemente fatto il salto dalla dark ambient a una non-dance music particolarmente sperimentale e un po’ da calci in faccia. 


Non è un caso se ho scelto di spendere tutte queste parole sulla rassegna di Klang. Lungi da me fare promo per motivi più venali (ma magari), la scelta di dedicare così tante attenzioni all’elettronica e alla sperimentazione al di là del mondo occidentale è vincente. È vincente da un punto di vista concettuale, perché contribuisce a scardinare con la violenza di un operaio luddista la grande macchina della promozione internazionale e a riportare il carro dietro ai buoi, gli artisti prima, l’arte prima, la condivisione e la connessione delle esperienze prima del design del consumatore. È vincente da un punto di vista di pubblico? Non lo so: questo lo decide il pubblico. So per certo, però, che per noi ogni occasione di spingere il nostro settore nelle direzioni che ci sembrano le più adeguate sarà affrontata con la foga del critico militante, quello che cerchiamo di essere. Se potete farlo vi invitiamo caldamente a far parte della rassegna, e magari a raccontarci cosa andava e cosa non andava, anche a pie’ di tutte le riflessioni che vi abbiamo condiviso; se non siete a Roma o dintorni, invece, recuperate gli artisti, ragionate su quanto vi state perdendo, provate a ricucire la vostra pangea. Non lasciate che siamo noi a dirvi dove guardare, anzi: veniteci a informare voi stessi su qual è la prossima scena che dovremmo coprire. Un mondo virtuale senza quei confini di cui parliamo è a portata di mano, ma lo scraping da fare è tanto – e da soli è storia lunga; del resto, più tempo passiamo in strada, più la torre d’avorio si allontana. Klang, con Pangea, sta dando ad alcuni le scarpe per fare questo cammino – noi, lo sapete, siamo già in giro. How about you?

Ci vediamo dall’altro lato dello spioncino.

Quella qui sopra e tutte le altre opere che abbiamo inserito nel pezzo sono dell’artista dominicana Firelei Báez

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M