SCENE CHE ESISTONO AL DI LÀ DEL PRIMO MONDO

Premessa

Non sono un campione di geografia politica né un esperto di etnomusicologia – e sono anche carente sulla storia contemporanea, specialmente quando non ci tocca direttamente. Parlo solo italiano, inglese e un po’ di spagnolo e tedesco, quindi ho anche la concreta impossibilità di andare a recuperare le fonti giuste per località distanti dalla mia città di stazionamento senza affidarmi a internet, a google translate e a qualche mezzuccio. Però, nonostante io non sia uno studioso dei paesi che prendiamo in esame in questo articolo, cerco di fare il lavoro migliore possibile con le carte che ho a disposizione per cercare di lasciarvi un pezzo di divulgazione limpida e utile, qualcosa che possa essere buono tanto per navigare a vista luoghi che ci sono più sconosciuti quanto per avere un punto d’appoggio da cui far partire le proprie future ricerche. Oltre alle dovute semplificazioni sulle scene di cui vi parlo oggi vedrete che tento di mantenere al minimo il mio pregiudizio bianco e italiano nel cercare di promuovere realtà che altrimenti non avrebbero la propria voce nel contesto in cui scrivo. Quantomeno, ci provo. 

Preso atto di questo disclaimer e considerate le infarinature in cui mi sono lanciato nelle ultime settimane vi voglio parlare di brandelli di musica che infestano Kampala in Uganda, Hanoi e Ho Chi Minh in Vietnam, fino ad arrivare a Caracas in Venezuela: cominciamo.


C’è una mista super aggressiva di Grime/Hardcore in Uganda

A quanto pare attorno a Kampala – la capitale dell’Uganda, città del sud del paese che si affaccia sul lago Victoria – da una decina di anni a questa parte c’è un punto focale dell’elettronica e dell’hip hop che raccoglie devoti dalle nazioni che stanno provando a unirsi nella East African Federation e simpatizzanti provenienti dalle grandi zone urbane del sud dell’Africa. L’Uganda è uno dei paesi più poveri dell’intero pianeta e i suoi 42 milioni di abitanti vengono da un mezzo secolo particolarmente duro, segnato da guerre continue, una dittatura particolarmente sanguinaria negli anni ’70 e una grande e costante situazione di bilico per i diritti umani fondamentali (fino a qualche anno era in programma di associare la pena capitale all’omosessualità), con una democratura che va avanti dal 1986 guidata dal presidente Museveni, dall’anno scorso al sesto mandato. È dagli anni ’10 di questo secolo che una situazione relativamente calma, unita alla diffusione di internet e a quel po’ di globalizzazione dei grandi centri abitati dell’Uganda, ha concesso la possibilità di esprimersi in altri modi alla popolazione sui problemi che tuttora sono alla base della stabilità del paese. Citando la DJ Kampire, passando da RA: “In Uganda, music is a way to create change without being seen as overtly political“.

Kampire, fotografata da Aaron Coultate per Residentadvisor

Ovviamente non stiamo parlando del Kadongo Kamu o del pop di serie Z che nella storia contemporanea non ha mai assunto un ruolo particolarmente rilevante. Kampire si riferisce a un fenomeno specifico molto concreto: la nascita di una comunità di creativi di vario indirizzo che si sono riuniti attorno a una villa nella periferia estrema di Kampala (il Boutiq Studio) e che ha articolato il suo percorso in un’etichetta discografica (la Nyege Nyege Tapes) e in un festival di musica elettronica che è riuscito a raccogliere fino a 7000 partecipanti nell’edizione documentata da Resident Advisor. Tramite Bandcamp e la distribuzione di Boomkat la Nyege Nyege è riuscita a rompere i confini dell’EAC e ad arrivare sulle riviste occidentali con svariati pezzi che, a onor del vero, ricalcano molto il gusto odierno. Il dub ragionato di Hibotep, il dancehall mutante di Otim Alpha, il singeli di Sounds of Sisso e il kuduro di HHY, il tradi-modern dei Fulu Miziki sono generi che non solo non ci suonano alieni, ma che negli ultimi 5-6 anni hanno fatto un grosso seguito e hanno attirato l’attenzione di vari grandi player dell’industria musicale, soprattutto grazie al trampolino del web. Cazzo, i Nihiloxica sono stati trasmessi decine di volte da NTS. 

I Fulu Miziki

Se la prima edizione del Nyege Nyege festival risale al 2015, uno dei meriti più grossi della villa e della comunità che si è creata attorno, al netto del poderoso lancio della musica elettronica nell’Africa orientale, è quello di aver gemmato un’altra label stazionata nella stessa struttura, specializzata in una forma di musica molto più cruda e aggressiva di quel grande ombrello Nyege Nyege che è spesso impropriamente sussunto al concetto di afrobeat. La HAKUNA KULALA, che google mi suggerisce tradursi in NO SLEEP, scodella dal 2018 un fiume in piena di dischi assolutamente esplosivi, con un’estetica alla base che si inquadra tra il grime e l’industrial hip hop che abbiamo tanto apprezzato l’anno scorso con The Bug e Scotch Rolex – quest’ultimo promosso proprio da Hakuna Kulala. Attingendo a piene mani dalla tradizione del gqom sudafricano i dischi di Hakuna Kulala devastano con un flow abrasivo e delle basi violente e al limite del dark, probabilmente recuperando terreno anche su quei Duma che nel 2020 hanno inciso uno dei dischi più famosi dell’Uganda con sentimenti industrial e sample di power electronics – non meraviglia che Boomkat scelga di distribuire anche questo subprodotto della villa di Kampala. In una batteria di dischi che a Kampala definiscono trap troviamo alcuni degli MC più intimidatori degli ultimi anni: Sleeping Buddha con il suo “killer gqom” in un self-titled di pura paranoia da megalopoli, Slikback con la sua take sotterranea e claustrofobica sulla techno, Don Zilla con la sua giungla meccatronica e i suoi esperimenti con i poliritmi, Biga Yut con la sua future club distopica. In mezzo a tutti questi nomi emergono un paio di artisti che a nostro avviso hanno portato l’indice di panico di Hakuna Kulala al livello successivo, per cui vale la pena spendere un paio di parole in più.

La Villa fotografata da Coultate

Ecko Bazz è andato al microfono per la prima volta nel 2018 insieme a Biga Yut per un feat. non particolarmente entusiasmante, prosegue con un EP già molto più personale e funebre l’anno successivo e nel 2022 flagella ogni indugio e ci regala Mmaso, un disco grime/gqom che è una delle somme più evidenti della verve guerrafondaia di Hakuna Kulala. Mmaso è un debutto che fa a spallate con i grandi dischi dell’hip hop hardcore/industriale europei e americani, in linea di massima vincendo su tutta la linea in quanto a cattiveria, tematiche e intensità: Ecko Bazz alterna vari DJ di Hakuna Kulala alla produzione per farsi aiutare a raccontare svariati assalti frontali tritati dal suo flow acrobatico, alternando queste bombe a grappolo con intermezzi notturni e terrificanti che oscillano gravemente su tappeti arruffati di trap. NON È IGNORABILE.

Ecko Bazz surrenders to remembrance in “Mugulu E'yo” | The FADER
Ecko Bazz pronto ad attaccare, per Fader

Una delle DJ che collabora con Ecko Bazz è un personaggio su cui finora ho sorvolato, un po’ meno oscuro, probabilmente più brillante e saputo, MC Yallah, che nel 2019 ha collaborato con il producer francese Debmaster e ha lasciato ai posteri uno dei dischi più tosti usciti da tutta l’Africa orientale: Kubali. In una commistione particolarmente riuscita di beat sudici e dark ambient si dipana una mezz’ora scarsa di hit di villainous dance music completamente coperta dalle bestemmie in semiautomatica della rapper ugandese. La cantilena rituale e ammaliante di Sifa Leero consacra Kubali in un album indimenticabile di cui fa sostanzialmente paura parlare: la stregoneria in atto è così intensa da strisciare fuori dalle casse e condannarci a diventare comparse, vittime casuali di quell’horror digitale per cui Hakuna Kulala sembra avere un feticismo così spiccato.

MC YALLAH posa su The Wire

La musica registrata alla corte del Boutiq oramai è già iconica, potete trovarne svariate testimonianze su TheQuietus, RA, persino Pitchfork. In realtà non penso che sia coperta abbastanza e nello specifico credo che l’hip hop anglofono potrebbe giovare tantissimo di un’immersione nei sound Nyege Nyege e Hakuna Kulala, ci uscirebbero più Backxwash. Quindi consigliamo a tutti di mettersi in scia, scoprire quanto ha da offrire l’umida terra di Kampala e considerare il potenziale politico e storico che può avere una comunità di questo tipo, per tornare infine a quelle parole di Kampire che hanno accolto la nostra visita in Uganda.


Nel Vietnam fanno casino in continuazione

Quella striscia di terra incastonata nella costa orientale della penisola indocinese in questo momento ha 96 milioni di abitanti. Il paese è notoriamente diviso in due grossi distretti dagli anni ’50 del ‘900: a Nord c’è Hanoi, la capitale di quello che fu il Vietnam del Nord, comunista – a Sud c’è Ho Chi Minh City, che con il nome di Saigon era la capitale del Vietnam del Sud, supportato dal blocco occidentale. Negli anni la divergenza culturale dei due fronti del Vietnam si è decisamente appiattita, ma rimane il mero fatto geografico: il Vietnam ha due città-poli, che nell’industria culturale si incontrano e si scontrano portando i propri modelli nella scia di una delle economie che si sta sviluppando più velocemente in questo 21esimo secolo.

Skyline a confronto (Hanoi/Ho Chi Minh City)

Come molti paesi dell’estremo oriente più calcolati dal pubblico, il Vietnam non ha mai perso il treno per i generi più grossolani e inascoltabili: se il doppio Hanoi Noise del 2010 è poco più che un esercizio harsh, un certo Signal in Noise, disco dei Six Tones uscito nel 2013, testimonia anche una grande vicinanza concettuale tra la musica classica vietnamita e i rumori della free improvisation, che qui sono sommersi nello stesso fondale. Nello stesso anno emerge la prima edizione dell’Hanoi New Music Festival, una realtà che mira a spingere tutti i possibilismi d’avanguardia vietnamita sotto al termine-ombrello di Experimental. Le ispirazioni avanguardistiche di questo tipo sono solo uno dei modi in cui il rumore vietnamita si è declinato nel corso degli anni ’10 – e negli act sperimentali che crescono tra Ho Chi Minh e Hanoi il caos sembra essere un elemento fondamentale, impossibile da scollarsi in tantissimi generi diversi, quasi a esorcizzare quel V-pop che si avvicina più alle schifezze da classifica dell’Eurovision che al più scontato e distopico referente della vicina Corea del Sud. Per un po’ di contesto: in un’intervista che vede Freddie Hudson confrontarsi con il collettivo Rắn Cạp Đuôi veniamo a sapere che, se Ho Chi Minh è sempre stata molto vibrante nella sua scena rock ed elettronica, Hanoi è invece la metropoli che fa la parte del leone sulla musica sperimentale.

/ The Six Tones in a performance of Go to Hell in Zone 9, a former medicine factory in Hanoi, December 2013.
Giochi di ombre per la performance dei Six Tones nel 2013

Quello che i Rắn Cạp Đuôi non sanno, però, è che la loro fama e il loro decennio di musica hanno trovato svariati discepoli in quel di Ho Chi Minh, e a riguardare le statistiche oggi, il bilancio è sostanzialmente pareggiato. E la cosa non stupisce: il collettivo ha cominciato il suo percorso nella prima metà degli anni ’10 con qualcosa che assomiglia molto all’ennesimo gruppo post-rock, ma nel tempo la musica ha assunto delle tinte elettronico-accelerazioniste fino ad arrivare a quel manifesto di zoomer glitch che è stato Ngủ ngày ngay ngày tận thế, edito l’anno scorso con Subtext. Il gruppo si è di pari passo allargato nei numeri e nei progetti ed è riuscito a sfondare tranquillamente in tante testate occidentali, oltre a cominciare a competere con l’attenzione del medio pubblico a casa. In effetti, prima del botto, il sottobosco di Saigon non aveva a disposizione tante declinazioni del progetto casinista dei Rắn Cạp Đuôi: si parla dell’EDM cyberpunk di Nguyễn Hồng Giang, dell’hip hop strumentale di Jung Buffalo e della straight up merda di Bullz & Verniciacore. Oggi, però, l’impronta del collettivo comincia a farsi ben visibile, contaminando a mani basse alcuni fenomeni, di cui un buon esempio sono i progetti di sound art di Knot Dot e dei Mâu Thuẫn

Rắn Cạp Đuôi per Inverted Audio

Dall’altro lato della penisola, ad Hanoi, la musica sperimentale non è mai stata una novità. Lo testimonia il music festival citato sopra che si tiene nella città, la sua sfilza di artisti che si dedicano alla musica classica vietnamita e la vasta gamma di musicanti da laboratorio che rendono la scena underground bella corpulenta: la plunderphonics dei Pilgrim Raid, l’elettroacustica di Lương Huệ Trinh, l’ambient di Sound Awakener, il power noise di Tran Uy Duc, la rivisitazione in chiave trip hop della musica vietnamita di Annam e Limebócx, il rap disgustoso e fognario di Sundaybars, davvero – chi più ne ha più ne metta e cercate di non ascoltare troppo perché altrimenti ci uscite scemi. In questo brulicare di musica da testate nel muro è uscito un disco super interessante di quest’anno, un delirio hip hop dei Mona Evie, un altro collettivo di ragazzi che si vuole porre come testa di ponte dall’altro lato del paese dei Rắn Cạp Đuôi e che si è conosciuto su internet condividendo la passione per Tyler, the Creator. Bastano due parole scambiate con Experimental Sound Studio per capire il tono cretino del gruppo di Hanoi, che però con Chó ngồi đáy giếng riesce a consegnare una release hip hop bella casinista con molto più spessore di quello che sembrerebbe. Ne parleremo più avanti, in un altro articolo.

Mona Evie (@mona_evie) / Twitter
“Mona Evie in 2022”, dall’account Twitter del gruppone

La cosa più interessante della sperimentale vietnamita è che quella certa sporcizia nella produzione e nella composizione dei brani sembra far parte di un unico humus confusionario che non si limita ai contesti più free: troviamo tracce del sampling squilibrato d’unità nazionale tanto nella Bloody Chunk Records, che promuove il Metal da Ho Chi Minh, quanto nella Nhac Gay, che spinge un’EDM molto lercia sempre nelle stesse zone. Ma anche il noise rock dei GOUT, la folktronica dei Quyếch, persino l’indie dei Nam Thế Giới fanno i conti con quello che con un po’ di fantasia è il genus loci di un Vietnam in cui le persone più giovani stanno egemonizzando la musica alternativa, partendo da un reddito di dissonanza e arrivando da ogni lato in un hyperpop rumoristico di cui noi vediamo solamente il volto più presentabile. Cioè i Mona Evie e i Rắn Cạp Đuôi. Pensate come stanno messi sotto.

Shot di una serata Nhac Gay recuperato da uno splendido articolo su Neocha

Distante da tutto questo traffico di suoni e rumore di fondo vale la pena fare un piccolo salto indietro nel tempo prima di passare alla prossima regione e ascoltare un album avant-folk che non si capisce bene come abbia fatto a uscire fuori dal 2007-2009 vietnamita: il disco titolato Đại Lâm Linh, unica release della band che porta lo stesso nome – siamo sempre ad Hanoi. La performance del gruppo è un collasso musicale di vera trascendenza, un mumbling completamente pazzo e terroristico che distrugge la musica classica vietnamita in un’operazione eterna, ancestrale, che nel nostro universo occidentale trova i suoi corrispettivi solo nei massimi esponenti del folk d’avanguardia. Una prova da brividi, difficile da descrivere nero su bianco, che però mi ha lasciato totalmente febbricitante e che quindi non posso fare a meno di consigliarvi. 


Yeyo è solo la punta dell’iceberg di una buona scena hip hop in Venezuela

Constatare che la sfera che va dal Messico fino ai paesi più a nord del sudamerica è un catalizzatore per molti act hip hop non è esattamente una sorpresa: quello che viene sommariamente chiamato latin rap ha seguito da vicino molte delle vicissitudini dell’hip hop nordamericano e l’ha adattato spesso a molte delle contraddizioni dei paesi dell’USAN. Stupisce di più, forse, venire a contatto con una massa critica di artisti che proprio negli anni della crisi più devastante del Venezuela ha costellato il respiro culturale di Caracas di svariate uscite, che a noi sono arrivate recentemente tramite YEYO, un gran disco di Lil Supa/Marc Ginale, due dei tanti alias di Marlon Luis Morales Santana. Relegare Yeyo a una provincializzazione di quella revanche del boom bap degli anni ‘10 rappresentata dai vari Conway e Westside Gunn è un errore non da poco, e andare a scavare nel passato di Santana ci racconta uno scenario molto diverso. Del resto è proprio lui che in Rodman ci provoca:

¿Quien rapeaba lento antes que Griselda?
Ya nadie se acuerda ¿verdad?

Scopriamolo.

A boy flies a kite in Caracas, Venezuela, Tuesday, Feb. 5, 2019. Earlier this year, opposition leader Juan Guaidó launched a bold campaign with the support of the U.S. and more than 50 nations to oust Chávez’s successor, President Nicolás Maduro. However, Guaidó has yet to make good on his promises to restore democracy, spark a robust economy and make the streets safer. (AP Photo/Rodrigo Abd)
Caracas raccontata nel 2019 da Associated Press

Si potrebbero tracciare delle influenze a grandi linee per tutto l’hip hop alternativo venezuelano, che partono da una golden age dei primi anni ‘00 rappresentata eminentemente dai beat stradaioli dei Guerrilla Seca e – meglio ancora – da quel misto di rap jazzato e reggae/dub che è possibile apprezzare in Papidandeando di Vagos y Maleantes. Ma anche solo senza deviare dal percorso di Santana riusciamo a farci una doccia di granate a partire dall’esperienza dei BAS.Y.CO., una scuola che già nella seconda metà dei noughties formava molti dei musicisti che sono arrivati fuori dal Venezuela negli ultimi anni. Se la direzione iniziale della scena di Caracas alternava dei bei movimenti di turntablism a un’estetica smaccatamente gangsta, nel futuro del collettivo c’è una diaspora che, complice l’apertura di internet, si concentrerà sulla costruzione di pezzi più politici, con una struttura più complessa, che faranno il futuro della tradizione boom bap jazzata e matura che oggi è la regola del capital district.

Momento La Haine per Canserbero e Santana

Nel 2008 due membri di BAS.Y.CO collaborano entrambi sotto pseudonimo per la pubblicazione di Indigos, un mixtape dal sapore metallico, urbano, decisamente più conscious dei suoi predecessori. I due MC sono Santana e Canserbero, di anni ventitré l’uno e venti l’altro. Il connubio è perfetto: il flow inarrestabile e la retorica a macchina di Santana si danno il cambio con la vocalità devastante di Canserbero, una versione grimy e sepolta nella sua gutturalità, che il rapper ha recuperato tanto dal reggaeton quanto dall’hard rock. Canserbero difficilmente ha deluso la sua fanbase: di lì a un paio d’anni avrebbe pubblicato Vida, il debutto da solista perfettamente contestualizzato nella nuova onda lunga di jazz rap di Caracas. Due anni dopo ancora il suo capolavoro: Muerte, un lavoro più violento e hardcore che ha convogliato la sua depressione cronica in quello che probabilmente è ad oggi il disco più importante inciso da un MC venezuelano. Canserbero morirà nel 2015, a 27 anni, in un probabile omicidio-sucidio avvenuto a Maracay, di cui è stato vittima e colpevole. 

Muerte, Vida, i due grandi temi della storia di Canserbero

I primi anni ‘10, ben prima che il boom bap tornasse popolare negli stati uniti, raccontano il cambio di paradigma dell’hip hop venezuelano, che si comincia a coprire di singoli e collaborazioni con un approccio più morbido a partire dai Madzilla di Uanteik, un’altra collaborazione di Santana, un altro disco fondamentale per il riallineamento più maturo del suo hip hop. Ma anche i dischi solisti di Dann Niggaz, i mixtape dell’SPL Clan, Como Siempre di Akapellah e i primi album di Apache fino ad arrivare al bombastico Los cara sucia del barrio di Deja Vù e Gregory Palencia, che è stato registrato a Maracay più o meno mentre Canserbero stava perdendo la vita. Questo mischione di pianoforti in lo-fi, ottoni, bassi a palla e rime politiche in libertà ha spinto sempre più forte nello scorso decennio per uscire dai confini BAS.Y.CO. tramite rapper che hanno seguito la lezione di Uanteik e Indigos: La Zaga con i suoi El Octavo e Sonido Asqueroso, KPU nella sua collab Nací para ser yo mismo, fino ad arrivare a SERIO, il primo disco solista di Lil Supa, edito nel 2017, che ha messo l’ultimo punto fermo con uno stile-summa di tutto il percorso fatto nel decennio precedente che lo ha consacrato come uno dei rapper più famosi dell’america latina. È molto bello, ascoltatelo. 

KPU sceglie i dischi da Mixare, dal suo Instagram

Vincolata all’esplosione di internet e all’affissione del jazz rap come fondamento politico di Caracas c’è un’altra storia, che tocca sempre vari nomi di quelli già citati (Santana che è come il prezzemolo, KPU, Dann Niggaz, Nasty Killah che era in Sonido Asqueroso…) e che ha foraggiato la scena partendo da una netlabel e arrivando a una vera e propria epopea hip hop: sto parlando di EL DOJO e dell’egemonia che questo gruppo di artisti ha esercitato sul rap venezuelano negli ultimi anni. Fondato con nome YoYo!DOJO nella prima metà degli anni ‘10 da Ríal Guawankó, Willie Deville e Drama Theme (tutti e tre con la testa piuttosto avanti), la parte netlabel del progetto ha attratto tutti quegli artisti che avevano la necessità di esprimersi in una musica di qualità, corposa, che raccontava la Caracas della crisi più piena di Maduro. Non è facile trovare informazioni su internet per ciò che concerne la transizione delle due realtà, ma a guardare un paio di date sembrerebbe che l’esperienza BAS.Y.CO. e tutte le collaborazioni che hanno seguito abbiano subito un declino abbastanza netto intorno alla morte di Canserbero. Il nuovo progetto del trio di YoYo!DOJO, ben consapevole della realtà che aveva attorno, ma carico di un respiro internazionale, ha attratto nella seconda metà degli anni ‘10 tutti quegli esuli della scuola di mezzo che necessitavano di un canale per esprimersi, arrivando a diventare un supergruppo, una ciurma di artisti con un piglio sardonico e supereroistico. Trovate la storia completa sul VICE spagnolo, che cita:

En El Dojo circulan personajes que, por sí solos, ya son una referencia de calidad y cualidad por encima del resto. Digamos que hay un Beckham con impecable golpeo de balón, un Roberto Carlos con capacidad de sacar bombazos de zurda, un Zidane pulcro en el manejo de pelota, un Figo que vuela cuando se inspira en su hábitat natural, y un Ronaldo que simplemente no falla. Jugadores que, por su cuenta, son magníficos, pero cuando se reúnen bajo la misma playera, simplemente joden con la visión.

Una bella compilation de EL DOJO è uscita nel 2019, e il suo titolo fa giustizia a quel respiro internazionale di cui sopra: si chiama Worldwide.

Un pezzo del Dojo posa su VICE

In seguito alla nascita del Dojo e al successo recuperato da Santana con i suoi svariati pseudonimi, Caracas ha ancora una volta sostenuto un bastimento carico carico di uscite bomba di cui Yeyo è, appunto, solo la punta dell’iceberg. Volete sentire un lavoro pulito e strumentale che racconta la costruzione delle iconiche basi jazzate venezuelane? Ve ne parla Castellanos in Vicios, Trasnochos & Artimañas. Vorreste ascoltare come viene un disco del Dojo rappato da una donna della scena? Ci hanno pensato Garee e NicoJP in Ofrenda. Volete una take più moderna e orientata sulla trap? Quest’anno è uscito Quarriors, una collaborazione che potrebbe interessarvi. Cazzo, prima di Yeyo Santana si è anche messo a esplorare i generi più disparati: c’è una versione sci-fi/abstract del suo flow in collaborazione con Deville uscita nel 2020, stesso anno in cui con il suo altro moniker NEØN faceva uscire un esperimento synthwave. La pandemia ha fatto proprio male alla gente.

Tayko e Hours hanno pubblicato Quarriors. Da Genius

Per similitudine o differenza, la lunga parabola della musica di Caracas che recentemente ha avuto il suo apice nel Dojo è stata uno dei fenomeni culturali più influenti che abbia toccato la capitale del Venezuela: le tracce dei beat eleganti e sapidi della scuola del capital district sono visibili persino nelle compilation lo-fi che escono dalla zona. Due nomi per controllare se sto dicendo stronzate: Daniel Furino e Originaldubmaster, due dj di pura youtube music, che però non fanno a meno di attingere a tutto quel tappeto di sampling che è stato fatto grande durante gli anni ‘10. Per differenza, invece, quest’anno è uscito un interessante EP industrial/horrorcore: Nacido del monte, criado por culebras dei Nhil Ov Curse, che ha trovato un po’ di attenzioni su rateyourmusic. Un disco che prende le distanze concettualmente da tutte le musiche che sono in pole position a caracas (boom bap, metal, club music): [il disco] Simultáneamente pretende ser otra respuesta dentro de la escena musical Venezolana que señale en dirección a más proyectos existentes fuera del Distrito Capital. Siguiendo este orden de ideas, el título para este EP se inspira en un dicho tan antiguo como famoso usado de manera despectiva que dice: “Caracas es Caracas, lo demás es monte y culebra”. Quanto può un singolo artista cambiare le sorti di un cosmo di musica di dimensione ventennale? È giunto il momento di riascoltare Yeyo


Conclusione

Oh, boy. Dovremmo farlo più spesso. 
In realtà lo faremo più spesso. Esplorare le contemporaneità alternative del pianeta terra è sempre stata un’operazione che abbiamo accolto con piacere, ma non si può dire che lo stesso venga fatto da tutti gli ascoltatori con cui condividiamo il pane. Sarebbe uno spreco rimanere a farsi i cataloghi da soli e ad arricchirsi di prospettive, tanto basta poco per condividere i nostri percorsi con chi ci segue. Prendete Scene che esistono al di là del primo mondo come un’introduzione un po’ calcinaccia di un progetto che ci piacerebbe sviluppare meglio, con voli d’uccello che possano anche affrontare con una certa consapevolezza varie aree, senza stare a rimpallarsi per tutto il globo. Se in Uganda sta succedendo tutto quel macello che abbiamo visto, cosa avviene nella costa centro-occidentale del secondo continente più grande della terra? Molto bene il Venezuela, ma ci sarà traccia di quella consapevolezza ai piedi della cordigliera delle Ande? E che genere di sospiro arriva dalla regione transcaucasica, negli ultimi dieci anni? Un mondo così ben connesso ci impone di discendere dal nostro provincialismo e provare a capire l’arte di paesaggi lontani, in modo da scrostare via la patina di esoticismo e cineseria e considerare i messaggi che ci vuole passare chi nella nostra epoca fa musica ai nostri antipodi, nei contesti più disparati che un vivente del ventunesimo secolo si ritrova ad affrontare. L’internazionalismo passa anche da qui. E da lì.

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M