Kee Avil – Crease

Constellation

2022

Pop sperimentale

C’è un incavo affascinante nella storia della musica che germina sui negativi: ciò che non ha una melodia, ciò che non ha una struttura, ciò che non ha un senso. La panache che riveste le missioni di conquista verso i picchi più sghembi della produzione musicale si manifesta in quella tentazione di giustificare l’inascoltabile, tentazione dolce e giovanile di cui tutti conosciamo il richiamo. Gran parte dei dischi che amiamo di più sanno resistere a questa sirena e tenere in provetta solo qualche minimo lembo di inascoltabile a vantaggio di composti più materni e rotondi. Crease, debutto su long play di Vicky Mettler (aka Kee Avil), rovescia le sue provette e disintegra la rotondità del suo composto in una quaranta minuti di no pop tattile e plastico, con una doppia lama che paga omaggio a questo benedetto inascoltabile e contemporaneamente ad altro, al cristallino. Non ci dilungheremo troppo né sulle influenze dichiarate di Kee Avil né sul suo approccio scultoreo alla costruzione del brano, di queste cose potete trovare una sinossi fin troppo dettagliata nel presskit su bandcamp, però vale la pena spendere un paio di parole sui meriti più grossi di Crease.

L’universo in cui viviamo è in una continua espansione di esperimenti grandiosamente digitali, di star che si bloccano sulla strada della decostruzione della club music a mezzo glitch (penso per esempio a Holly Herndon, FKA Twigs, Arca) e di intelligenze artificiali capitanate dall’ammiraglia Autechre. In questo firmamento è davvero affabulante trovare una Mettler che spacca e ricostruisce le sue assonanze con un cipiglio molto più crudo, carnoso e reale, eminentemente rappresentato dalla tortura alla chitarra che faceva già da calamaio nel suo primo EP del 2018, che vi consigliamo di recuperare. Il namedrop di Ribot, Orcutt e dei Pere Ubu sul presskit è probabilmente la velleità più sincera della musicista di Montréal, che in Crease sblocca un livello di turpitudine che è difficile associare a lavori solisti di questi tempi senza scadere in tutte quelle correnti accomunate dalla parola dark. Se la promessa di See, my Shadow, la opener del disco, colpisce con una magniloquenza crassa e oscura di bassi, synth e percussioni, la principale cartina al tornasole della qualità del disco e delle sue sculture è il sentimento di bramosia irrisolta, il non detto che lega a mezzo filo i sussurri stonati di Mettler alle dissonanze ossessive dei sample di chitarra, che potrebbero accompagnare alcuni dei brani più deprimenti di Lydia Lunch e allo stesso tempo farsi spazio nella solitaria primitiva di Bailey e Jandek. Drying, Melting Snow, HHHH sono tutti esempi di un’uscita che se ne frega dei revival improbabili e delle regole della best new music, un febbrile incubo senza tempo che trova il suo doppio artificiale in pezzi più strutturati come I Too, Bury e soprattutto Devil’s Sweet Tooth. In altre epoche questo lavoro sarebbe collassato in uno dei tanti abomini post-punk che apprezziamo, ma in questo periodo storico Kee Avil ha trovato tutti gli strumenti per recuperare quelle concretissime schegge taglienti e incollarle in un macabro kintsugi inevitabilmente micro-computerizzato. Un oggetto fuori da ogni geometria che vorrà Vicky Mettler associata agli act più famosi dell’art pop, il prodotto di un’artista probabilmente disinteressata a partecipare a una cavalcata che si allontana man mano dal suo atelier sotterraneo.

Anche se la storia dovesse dar torto al nostro giudizio e Crease dovesse rimanere un unicum c’è da dire una cosa: questo qui è un ascolto così seducente e così totalmente diverso dalla maggioranza dei dischi che ci passano sotto mano che sarà inevitabile per noi tornare a cercarvi degli stimoli e magari delle risposte nei foschi anni che compilano il nostro futuro. La banale fibra sonora portata alla luce da Kee Avil ha delle proprietà troppo uniche, che eserciteranno ancora a lungo quell’attrazione incontenibile che ci condanna a tornare con un certo sadismo davanti a questo volto deforme. Un volto che sorride dietro una maschera di carta e che riesce a prendere per mano l’ascoltatore, a farlo entrare fino alle ginocchia in un pastiche di suoni che della deformità non si imbarazza. Che, della deformità, vuole fare una regola.

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M