PERIFERIE #5

Esiste un rapporto consolidato nel tempo tra i paesi francofoni d’Europa e le proposizioni più dense e ibride del progressive rock. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 la Francia ha accolto una scena artistica che cercava una sintesi tra prog, jazz e classica contemporanea, nominata zeuhl e capitanata dai Magma, mentre il movimento musicale dal forte accento politico e anticapitalista noto come Rock In Opposition ha trovato terreno fertile nello stesso periodo anche in Belgio, con band come Univers Zéro e Aqsak Maboul. Sono esperienze che devono aver lasciato il segno, dato che ancora oggi molte delle proposte più interessanti del genere vengono proprio da lì: lo scorso anno abbiamo celebrato il riuscitissimo connubio tra gamelan e progressive rock europeo nell’opera prima (e forse unica) del collettivo franco-giavanese Balungan, mentre qualche mese fa è entrata positivamente nei nostri radar l’inusuale collaborazione tra i dissonanti PoiL da Lione e la musicista e cantante tradizionale giapponese Junko Ueda. A confermare la bontà di questo bacino creativo, a maggio è arrivato il primo album a nome Ramdam Fatal, formazione che vede arricchirsi con la presenza di archi e ottoni i tre musicisti già attivi con il progetto a tinte fortemente psichedeliche degli Ultra Zook. Di psichedelico sul disco omonimo del gruppo non c’è nulla, siamo invece saldamente dalle parti di avant-prog e avant-jazz; con tutte queste avant-cose viene naturale immaginarsi una musica intricata e angolare, ma ci sono vari elementi che rendono la formula dei Ramdam Fatal più digeribile e anche più distintiva rispetto alla media. Il primo è un uso dei violini molto lontano da rumorismi d’avanguardia e radicato invece nella tradizione folk dell’Alvernia, una regione montuosa appartenente alla cultura occitana abbastanza isolata rispetto al resto della Francia. È un patrimonio che alle melodie delle canzoni popolari unisce un’anima ombrosa e riflessiva, di cui si può trovare un altro buon esempio in chiave moderna nell’album De Mòrt Viva dei corregionali Sourdure. Anche la componente ritmica non calca terreni particolarmente accidentati, preferendo giocare la propria dinamicità su accenni poliritmici e accenti propulsivi, come un motore costantemente pronto ad animare i brani nei propri climax. Il risultato è una musica ariosa e vivace, che persino nei momenti più sfilacciati conserva la promessa di un’energia contagiosa ancora da sfogare. A questi aspetti si aggiunge un uso delle tastiere eccentrico e giocoso veramente difficile da incontrare su questi lidi: un richiamo allo stile degli Aqsak Maboul (anche nella loro ultima fase più vicina al pop) con guizzi verso le colonne sonore dei videogiochi arcade e la prima IDM, convogliato su cascate di colore elettronico che danno un piacevole straniamento ed esaltano le trame degli altri strumenti. Ascoltate La Craquante de Polminhac per avere un assaggio del possibile effetto d’insieme. Al netto di qualche verbosità da limare, magari sulle parti vocali non sempre ben integrate nei pezzi, si tratta di un’altra strana e affascinante creatura uscita da uno degli ecosistemi musicali più floridi del continente.

Intanto, arrivano buone nuove da Oriente; sul versante musicale, almeno. È tornato con una nuova pubblicazione Mohamad Zatari, talentuoso suonatore di oud che nel 2017 aveva inciso un disco incantevole, Quieter Than Silence, intrecciandosi con il vellutato ney di Mehdi Aminian: un rendez-vous tra cultura persiana e sufi dalla grande carica evocativa, nutrito dal gusto melodico raffinatissimo dei due strumentisti e amplificato da una notevole confidenza con gli spazi ombrosi del silenzio. Ora Zatari suona in una formazione in trio con Sara Eslami e Avadhut Kasinadhuni, rispettivamente a tar e tabla, e sull’ultimo Istehlal ci offre la versione più virtuosistica della propria ispirazione, stimolato dal bordone ritmico delle percussioni e dal raffronto timbrico tra i due cordofoni. Le note si arrampicano vibranti come radici, tra pezzi originali e rifacimenti dal canzoniere nordafricano e mediorientale; la mano del trio si avverte nella semina di cambi di passo e improvvisazioni fluide che donano anche ai temi più desertici e meditabondi la possibilità di fiorire in un inedito dinamismo espressivo. Impegnate in un doppio dialogo, uno personale con la tradizione del proprio strumento e uno collettivo con l’eredità musicale delle rispettive regioni di provenienza (Siria, Iran, India), le sensibilità di Zatari, Eslami e Kasinadhuni si uniscono in un fraseggio florido che irrora continuamente un suono così asciutto; se volete sbirciare, lasciatevi ammaliare dalle sfumature di un pezzo solare come Black Tea. Così una musica dal fascino secolare si colora di nuova luce.

In chiusura, la meritata celebrazione di un’etichetta discografica. Parliamo della Kalahari Oyster Cult, punto d’incontro e cassa di risonanza di tanti progetti artistici al crocevia tra le evoluzioni moderne della cosiddetta intelligent dance music e le più varie sonorizzazioni del mondo del clubbing. In sei anni la casa discografica di Amsterdam è cresciuta fino a diventare un caleidoscopio di interpretazioni della materia house, techno ed electro con grande apertura ad ibridazioni e contaminazioni stilistiche. In generale le pubblicazioni della Kalahari Oyster Cult sono sinesteticamente coloratissime, con un impianto solido e un occhio sempre puntato al dancefloor, ma allo stesso tempo ricche di intuizioni fantasiose che ripagano l’ascolto attento. Un esempio particolarmente riuscito sta nel singolo Synesthesia di Nathan Melja, un pezzo obliquo dove le migliori influenze ritmiche tech-house si mescolano ad una versione nebulizzata della trance, con una produzione ricca e dettagliata a cui fanno compagnia due remix di livello da parte di Anthony Naples e Pariah. Altro gioiellino della casa è il Tri-Phase EP, una raccolta di produzioni firmate da Dominic Glynn sotto vari alias che mette in comunicazione differenti declinazioni techno versante acid, dalle pubblicazioni anni ’90 influenzate persino dal trip-hop fino ai lavori più recenti che vivono di uno scintillante suono scolpito tra ambient e house cerebrale. Ma meritano una menzione anche la breakbeat psichedelica di Roza Terenzi in Mwah, le mutazioni electro su Phasic Reflex di Reptant, la club music progressiva sviluppata da Fantastic Man in Alltogethernow… Insomma, il Culto dell’Ostrica ha in serbo molte gemme per chi vuole scavare. È uno di quei casi in cui il roster di un’etichetta non si risolve semplicemente in una lista di nomi, ma assomiglia più ad un laboratorio condiviso. Questa comunanza nella diversità ha tracciato nel tempo un percorso coerente e stimolante, che allo scoccare della cinquantesima uscita viene festeggiato nel migliore dei modi con una raccolta che suona come una enorme festa di tantə artistə passatə per questi solchi. Sono quasi interamente pezzi inediti realizzati per l’occasione, a comporre un mosaico estatico dove gli scorci sognanti d’impronta balearic ballano fianco a fianco con le eco spigolose di un Roland TB-303, le carezze downtempo si allacciano agli scatti technoidi come passaggi contigui dello stesso piacevolissimo trip. Su tutto, una favolosa sensazione di rigoglio. Inutile segnalarvi una traccia piuttosto che un’altra, perché tutte ampliano la visuale su ciò che è lo statement artistico della Kalahari Oyster Cult: basti dire che nelle mani giuste il materiale contenuto qui dentro sarebbe sufficiente per realizzare un mix stellare. In buona sostanza, potete soddisfare pienamente la nostalgia per i migliori aspetti dell’elettronica più melodica e spaziale degli anni ’90 e allo stesso tempo godere di una creatività moderna ed esuberante nelle ritmiche e nel sound design: se l’idea vi intriga, unitevi alla festa.

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto