CONTAINER BELLO

GLI AVALANCHE KAITO CI HANNO TRAVOLTI

AVALANCHE KAITO – TALITAKUM

Glitterbeat

2024

Experimental rock, Griot Music

Un burkinabè, un francese e un belga entrano in un bar; l’epilogo felice è un disco da raccontare su Livore. Il risultato era tutto sommato prevedibile, vista la nostra passione per le terze cose, per quella musica che si muove tra i mezzi ormai assodati di una globalizzazione inarrestabile e le tradizioni secolari che cercano, con una certa fatica, di non essere spazzate via. Ogni anno spuntano come funghi lavori di questo genere, lo saprete bene se ci leggete da un po’, ed è inutile ripetere quello che Alessandro racconta nel link poco sopra. Facciamo un passo indietro.

Ora, non so se sia successo veramente in un bar, ma gli Avalanche Kaito nascono più o meno così, per caso. Nel 2018, il griot Kaito Winse arriva a Bruxelles dopo un felice incontro avvenuto in Benin con una non meglio descritta ragazza, la quale lo introdurrà alla scena musicale della capitale belga. L’intesa immediata col batterista e producer Benjamin Chaval e il chitarrista Nico Gitto, ai tempi in duo sotto il nome Le Jour du Seigneur, dà subito vita ad un piccolo tour introduttivo al definitivo consolidamento del trio, che avverrà quattro anni più tardi. I presupposti per tirare fuori un coniglietto dal cappello c’erano già tutti, e lo si vede facilmente scavando nella discografia dei tre: tra i dischi che Chaval ha alle spalle come batterista figura la discontinua ma interessante amalgama tra elettronica e Ma’luf tunisino di Targ, con i Bargou 08, mentre Winse rilascia nel 2020 un esperimento solista scarno, ma molto personale – una sorta di sparso miscuglio in cui strumenti come il kalangu, l’arco musicale africano e i flauti toutoun’bambou e Fulani si agganciano (a fatica) all’intensità della sua voce, con risultati altalenanti; Gitto viene invece da panorami più sbilenchi legati all’avant-prog (Zoft, Facteur Cheval), e nel 2016 si era reso partecipe di un’interessante prova technotribalistica con i Why The Eye ?. L’incontro con Michael Wolteche, che già aveva curato il progetto degli haitiani Chouk Bwa & The Ångströmers, è la spinta definitiva per dare il via alle danze, e chi meglio della Glitterbeat per ospitare un quadretto del genere? L’etichetta tedesca d’altronde è una garanzia (dovreste ricordarlo), e Chaval ci aveva già avuto a che fare ai tempi di Targ. I giochi possono iniziare.

Per ora tutto bello, ma in questa piccola retrospettiva non possiamo continuare ad ignorare un fatto: i primi veri lavori degli Avalanche Kaito convincono solo fino a un certo punto. L’EP Dabalomuni era un’amorfa commistione di improvvisazione rock, elettronica stralunata e declamazione griot, quasi come se il trio fosse attaccato posticciamente con il Patafix. Pochi mesi dopo segue l’album omonimo, in cui la band prende meglio le misure, ma ancora senza trovare veramente una quadra, tra passaggi strumentali a vuoto e strutture dei brani incerte. La potenzialità è evidente, si capisce che può nascere qualcosa, ma forse sono gli stessi musicisti a non avere ancora le idee chiare. Ciò non impedisce comunque al gruppo di farsi un nome, iniziare a suonare dal vivo, conoscersi meglio.

Talitakum sboccia così due anni più tardi, come frutto sofferto di un’intesa profonda, il risultato di una costante stratificazione di influenze e ispirazioni. Vi diranno che il titolo è in lingua more, mentendo spudoratamente, visto che è in aramaico: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”, diceva Cristo resuscitando la figlia di Giairo nel vangelo di Marco (noi facciamo finta di crederci), il miracolo del ritorno alla vita contenuto in un’espressione che aveva già affascinato Dostoevskij – “ţlīthā qūm”, o qualcosa del genere. Winse dice di aver sentito la parola durante una cerimonia religiosa nel suo villaggio in Burkina Faso, rimanendo affascinato dalla combinazione dei due concetti contrapposti di morte e vita. Il disco viene così concepito dal cantore come “distillato di come vedo il mondo, il passato e le mie speranze per il futuro”, intenzioni che si riflettono nel balzo in avanti compiuto dagli Avalanche Kaito nella cura di questo lavoro.

Talitakum è denso, un prodotto da studio che sfrutta tutte le possibilità di sovraincisione, effettistica ed elettronica, riuscendo a combinarle con poliritmi, canti tradizionali campionati, texture aliene e chitarre angolari senza che nessun accostamento suoni artificioso. L’apertura di Borgo affida a un assalto in 4/4 l’accoglienza nelle lande sconosciute dell’album; un inizio energetico e d’impatto, che ricorda quanto dall’altra parte del continente africano hanno già fatto i Nihiloxica, ma che si limita a fornire una vaga idea di tutto ciò che ci aspetta. Il vero seme che porta alla luce le bizzarrie ritmiche arriva solo in Shoya, con la sua batteria sincopata, il suo organo stralunato e una chitarra che dopo qualche iniziale ghiribizzo rinuncia infine a farsi notare, seguendo religiosamente il canto del burkinabè. Da qui in poi il lavoro entra veramente nel vivo, incalzando specialmente laddove il trio abbandona il semplice accumulo di materiale sonoro per stupire piuttosto sulla contrapposizione tra voci ed elettronica, ritmi e atmosfere, riti secolari e contemporaneità: la canzone tradizionale di benvenuto cantata dalla cognata di Winse che diventa un mantra robotico a delineare il solenne incedere di Donle, una fiaba narrata dalla mamma del griot trasfigurata nelle ossessioni di Tanvusse, le dissonanze chitarristiche della title track che si arrendono all’ipnosi del groove fuori fase di batteria e flauti. Nonostante la frenesia a tratti infernale, esemplificata dall’intermezzo Ghostdrum exp3, un penetrante senso di umanità permea sempre e comunque questo disco, spillando da gemme come Viima e Lago, rispettivamente un paragone tra la frutta di due continenti lontanissimi e un inno all’amore e alla seduzione, più prosaicamente due tracce da conservare con cura nel cassetto di questo 2024. L’umanità appena citata è soprattutto quella di Kaito Winse, vive nel sentimento ardente che si cela dietro ad ogni sua parola, ogni suo canto, ogni suo urlo, guida i due europei lungo un labirinto sonoro che solo lui sembra poter conoscere fino in fondo, avendone mappato ogni angolo. Il griot splende ovunque metta piede, a momenti rubando la scena, e facendosi da parte solo a spettacolo quasi ultimato. Machine (The Mill) termina le danze ritornando alla trance indotta da Borgo, un cerchio che sembra lì lì per chiudersi prima della dissoluzione innescata da Chaval, che non ci sta a spegnere le luci pacificamente: l’album viene sigillato prima facendo collassare il brano in un interplay impazzito tra gli strumentisti, poi sciogliendo ogni parvenza musicale in un synth che ricorda un modem dei vecchi tempi in avaria, l’ultimo lamento elettronico prima della fine. 

Talitakum è un ascolto entusiasmante, in cui gran parte delle promesse che gli Avalanche Kaito ci avevano implicitamente fatto sembrano finalmente essere state mantenute. Non è un disco perfetto, esita nei punti in cui il trio ricade in un più prevedibile processo additivo di costruzione dei pezzi, ma questo non gli impedisce di brillare, riuscendo ad accecare. La personalità di questo gruppo è finalmente venuta alla luce, e noi non potremmo essere più contenti. Grazie ragazzi, continuate così.

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Lorenzo Dell'Anna
Lorenzo Dell'Anna