CONTAINER BELLO

SHACKLETON È RIENTRATO NELLA ZONA

THE THREE HANDS OF DOOM – THE THREE HANDS OF DOOM

Nyege Nyege

2024

Tribal Ambient, Ambient Dub

Shackleton rappresenta una figura decisiva per gli sviluppi della musica elettronica nel terzo millennio: dal crogiolo della dubstep ha saputo forgiare uno scenario dove un vasto campionario di timbriche percussive si fonde a un sound design sbalorditivo per fantasia e livello di dettaglio, creando una comunicazione diretta tra le ritmiche del folklore globale e le evoluzioni più astratte della UK bass. Ascoltare i suoi primi tre album e il mix per Fabric fa sperimentare chiaramente questa alchimia e il tipo di influenza seminale che ha avuto (si lega, ad esempio, alla sempre maggior importanza delle percussioni campionate e dei poliritmi in molta club music non occidentale). 

Nonostante questa statura, c’era da qualche tempo la sensazione che l’espressività di Shackleton stesse impallidendo. Il producer inglese ha speso tutta la seconda metà degli anni Dieci all’insegna di collaborazioni assortite su long play, che però ad un certo punto hanno iniziato a sembrare non tanto delle esplorazioni di altre sensibilità artistiche, quanto dei semplici pretesti per continuare a fare musica. È riuscito a mantenere una competenza inattaccabile nel suo dominio, il suo tocco si mantiene inconfondibile in ogni passaggio della sua discografia; eppure è come se la sua musica avesse man mano perso forza propulsiva, non riuscendo più a costruire una narrazione e limitandosi alla descrizione. Anche il ritorno alla pubblicazione in proprio tre anni fa con Departing Like Rivers sembrava confermare con malcelata stanchezza l’idea di uno Shackleton giustamente rispettato e sempre capace di fare il suo ma, semplicemente, non di comunicare qualcosa di nuovo o rilevante. Ponderavo già con tristezza l’idea che potesse scivolare nella condizione di certi artisti dallo status già storicizzato, le cui nuove uscite servono più per scandire il tempo che per stimolare gli ascolti. Invece, nel 2023 succede questo: 

  • A marzo esce il frutto di una collaborazione da acquolina in bocca: a Shackleton si affianca un agitatore sonoro come Scotch Rolex, capace di mettere insieme “scorie provenienti da trap, industrial, gqom, illbient, post-club, perfino death metal e grindcore” (come scriveva Emanuele qui). Su Death by Tickling il suo impatto sembra però molto limitato e l’album, seppur di buona fattura, non si discosta dall’ormai abituale canovaccio di rimuginazioni ritualistico-percussive che Shackleton sembra in grado di produrre anche bendato con una mano sola.   
  • A maggio, sotto il nome The Purge of Tomorrow fa uscire su EP una interessante nebulosa di lasciti psybient e minimali impressioni d’Asia, tra gamelan e dhrupad: è una delle incarnazioni più dilatate e meditative dell’ultimo Shackleton, con una forte dimensione evocativa che si estende oltre il ritmo. Un lavoro passato sottotraccia, ma significativo. 
  • A giugno fa coppia con Heather Leigh sotto il moniker Flesh & the Dream per Choose Mortality, un lavoro dalla notevole carica psicoacustica. Delle varie voci innestate sulla musica di Shackleton, quella di Leigh sembra calzare alla perfezione: la sensazione è che nel percorso verso una musica sempre più ritualeggiante Shackleton abbia trovato una potente sacerdotessa capace di convogliarne il senso di trance o, ribaltando l’assunto, che un’intrigante artista art pop sia stata ipnotizzata dal producer più sciamanicamente immaginifico in circolazione. L’uso della ripetizione è sapiente nel porsi al confine tra l’esoterico e l’estatico, per di più compaiono ritmi di una vitalità feroce che sembravano essere stati gradualmente accantonati finora.   
  • A settembre viene pubblicato In the Cell of Dreams, dove al rinnovo del sodalizio tra Shackleton e Wacław Zimpel si aggiunge l’importante presenza del cantante di musica classica hindustana Siddharta Belmannu. L’album percorre un filo sottile: da una parte la ricerca di una forma multiculturale che abbracci e trascenda i talenti di tutti e tre, dall’altra il rischio di diluire le peculiarità di ognuno in un’indeterminatezza anemica. Non mancano fluttuazioni in entrambi i sensi. 
  • A novembre c’è ancora spazio per un disco nominalmente solista di Shackleton (pur con la presenza della cantante Anna Gerth in metà delle tracce): The Scandal of Time è l’occasione in cui viene più posto l’accento sulla componente dub della sua musica, con composizioni spaziose ed avvolgenti che si dipanano in varie direzioni e le percussioni a covare sotto le ceneri. È forse l’album più enigmatico tra questi, in mutazione continua tra passaggi illuminanti e altri che sembrano procedere per inerzia. 

È stato insomma un anno in cui Shackleton non ha mai smesso di provare e, mettendo in conto qualche oscillazione nei risultati, sorprende la curiosità e malleabilità con cui gran parte di queste produzioni approcciano la materia musicale. Alla faccia delle impressioni precedenti, ne esce l’immagine di un artista ancora desideroso di esplorare tutte le possibilità del proprio suono e di ampliarne gli orizzonti. Così, quando viene annunciata la prima uscita di Shackleton per Nyege Nyege Tapes, insieme ancora una volta a Scotch Rolex e con la collaborazione del percussionista ugandese Omutaba, era proprio il caso di aspettarsi che il fuoco fosse mantenuto vivo: ma l’esordio del trio a nome The Three Hands of Doom fa di più, alza le fiamme.  

Il progetto ha per fondamenta le poderose registrazioni alle percussioni di Omutaba, che gode qui di molta più libertà rispetto ai trascorsi con la Kampala Unit e la sfrutta inanellando salve di poliritmi con un intrigante equilibrio tra le pelli e le parti metalliche degli strumenti. Queste vanno a costituire il materiale principale da cui vengono modellate composizioni eminentemente non-verticali, le cui parti cioè non sono orientate verso uno svolgimento progressivo ma si concedono di esplorare più direzioni allo stesso tempo, sfumandole o riprendendole secondo un andamento umorale. La potenza materica delle percussioni è rafforzata e ampliata da un uso subliminale dell’elettronica: tecniche dub intervengono continuamente dietro le quinte del tessuto ritmico, riverberandolo in una dimensione dove il fascino grezzo delle registrazioni si amalgama alle manipolazioni del suono, mentre bassi serpentini si insinuano tra i battiti possenti. Si sente in questi elementi il richiamo all’esperienza pioneristica degli African Head Charge, dai cui solchi sono germinate fino ad oggi tante fusioni tra danze tribali e circuiti elettronici (rimanendo in Uganda, pensiamo ad esempio ai Nihiloxica o alla collaborazione tra Gabber Modus Operandi, Wahono e Nakibembe Embair Group); ma i tre qui all’opera sembrano agire con una prospettiva ampia ed originale, a partire dalla fusione tra patrimoni ritmici africani e centro-/sud-americani ricreata tra le mani di Omutaba, che mantiene la visceralità dell’assalto percussivo in un terreno transcontinentale e ricco di suggestioni. I pezzi sono poi parassitati da particelle effettate di synth, abbastanza minimali da non togliere spazio ai tamburi ma efficacissime nel dipingere di volta in volta scenari minacciosi, richiami a club music locali e atmosfere misteriose nello spazio di poche note. In questo, rispetto a Death by Tickling, stavolta risalta molto di più il talento di Scotch Rolex nel disseminare il terreno dell’album con un campionario di mine sonore ad alto impatto. Per Shackleton è un toccasana avere dei collaboratori così influenti, che gli permettono di concentrarsi sugli aspetti più intangibili e preziosi della propria musica: dare dimensionalità al ritmo e disegnare atmosfere profonde nell’arazzo elettronico. 

Così, modellata in maniera sinergica dalle menti dei tre artisti, la musica di The Three Hands of Doom mantiene sempre la caratteristica di materia viva. Anche in un pezzo relativamente conciso come l’iniziale Ring Dirt si sente come convivono felicemente diverse anime: le radici e la modernità, il furore danzante e lo spirito contemplativo, la trance della ripetizione e la tensione evolutiva. Quando si presenta un cambio di ritmo o appare un nuovo elemento tematico, non si ha la sensazione che avvenga per esaurimento delle dinamiche precedenti ma per una forma spontanea di serendipità. Insect Vibration trasporta questo gioco di contrasti in uno svolgimento più stratificato ma non cervellotico, convogliando l’immediatezza dei pattern ritmici in rimuginazioni fascinose dove si incontrano inflessioni gqom, field recording e ambient house in stile DJ Python. La fusione tra oggetti vibranti e manipolazioni elettroniche raggiunge però la massima profondità nei dieci minuti di Burnt Earth: un brano che muta continuamente rinascendo dalle proprie ceneri, e nelle varie combinazioni che offre non manca mai di far deflagrare l’energia prodotta dall’incrocio dei tre contributi sonori. La dimensione rituale, di cui abbiamo evidenziato il ruolo centrale nell’attuale percorso artistico di Shackleton, si trova sottotraccia in tutto il corso dell’album ma emerge con forza sulla title-track in chiusura: una litania per percussioni rimbombanti e synth che si levano torvi come fumi lavici, con un’atmosfera abbastanza opprimente da costituire un ottimo canovaccio per un (eventualmente clamoroso) pezzo drone metal.  

Per farla breve: The Three Hands of Doom è uno di quei rari dischi che sanno colpire alla pancia, stimolare il cervello e far muovere il culo. Shackleton sembra nella sua versione migliore da anni a questa parte, Scotch Rolex e Omutaba ci danno ulteriori ragioni per seguirli da vicino, la Nyege Nyege aggiunge un altro gioiello al proprio sfavillante catalogo e noi ci becchiamo mezz’ora di musica esaltante tra danza e ricerca sonora: serve altro? 

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto