TRIBAL, ELECTRÓNICA, GLOBAL: LA NUOVA CLUB MUSIC DALLE AMERICHE

Tracciando le mappe degli sviluppi della musica elettronica negli ultimi anni, è impossibile non notare il florilegio di stili fortemente legati a territori, comunità e tradizioni non occidentali che hanno saputo imporre la propria originalità nel panorama del clubbing a livello globale. Stiamo assistendo alla maturità di un processo iniziato decenni fa con la diffusione sempre più ampia delle attrezzature tecnologiche mediante l’ipertrofia degli scambi commerciali; con frequenza crescente il folklore locale a varie latitudini è venuto a contatto con le potenzialità delle strumentazioni elettroniche. La naturale conseguenza è stata che nel tempo sempre più artistə hanno usato le categorie musicali ormai definite nel Primo Mondo (house, techno, ambient e via dicendo) non come modello di riferimento ma come grimaldello per far evolvere l’espressione della propria tradizione musicale in una realtà globalizzata tra dancefloor e circuiti. Il fatto che molte di queste forme creative dal mondo si siano imposte oggi in prima linea sia nel discorso critico che nell’esperienza dal vivo della club music (e quindi anche nell’Occidente gentrificato) ha ampliato gli orizzonti di questo ambiente, facendo parlare a più riprese di un processo di decolonizzazione del dancefloor, ma anche semplicemente rendendo molto più eccitante e arricchente l’esperienza dell’esplorazione attraverso l’ascolto. 

In mezzo a questa trasmissione tellurica di creatività, possiamo individuare due epicentri che nello scorso decennio hanno saputo sviluppare vere e proprie scene in costante evoluzione arrivando ad incanalare la vitalità artistica sparsa su interi continenti. Del grande subbuglio elettronico che dall’Uganda sparge vibrazioni afrofuturiste per tutto il mondo abbiamo già parlato diffusamente; un’altra grande forza in gioco è l’affluire delle musiche tradizionali di Centro e Sud America in forme di club music mutanti che ridefiniscono confini stilistici e culturali. Il centro operativo di queste iniziative si può rintracciare a Città del Messico, dove si annida la base della N.A.A.F.I., etichetta discografica che da più di un decennio riunisce nell’ampiezza del proprio roster una varietà impressionante di declinazioni di questo dialogo tra patrimonio musicale e tecnica digitale. In realtà la N.A.A.F.I. travalica le caratteristiche classiche di un’etichetta per abbracciare la forma del collettivo, accogliendo artistə che abitualmente collaborano tra loro e portano avanti progetti condivisi. La fitta rete di conoscenze espande le operazioni dell’etichetta ben oltre i confini messicani e anzi consente di portare avanti una specie di talent-scouting attraverso le Americhe, riunendo molte e diverse sensibilità unite da una visione comune: evadere dalle influenze e ingerenze musicali anglofone per costruire una propria identità, tanto legata alle radici quanto disposta a plasmarsi in maniera aperta e collaborativa. Tramite la N.A.A.F.I., questa rivendicazione orgogliosa di appartenenza attraverso la contaminazione reciproca è potuta fiorire in un percorso discografico di grande coerenza per estetica e programmazione, che sta portando risonanza a tutta una generazione di giovani producer delle Americhe; non è un caso se da tempo si parla di cumbia anche in ambienti specializzati di club music contemporanea e non solo nelle balere.

Negli anni Dieci la N.A.A.F.I. si è particolarmente specializzata nel raccontare le metamorfosi più digitalizzate e hi-tech del proprio patrimonio culturale. Per inquadrare meglio il panorama sonoro di cui stiamo parlando consiglio l’ascolto del mix NON vs NAAFI, dove produzioni della label messicana vengono fuse insieme a materiale della NON Worldwide, importante progetto discografico che riunisce le voci di giovani producer della diaspora africana. Il mix risale al 2015 e mostra bene come in quegli anni l’espressione del senso di smarrimento e dislocamento in vari ambiti (rispetto alla propria terra d’origine, alle strutture di potere opprimenti ed escludenti, all’alienazione della socialità digitale) fosse veicolato attraverso un registro espressivo che coniugava club music massimalista e sound design post-industriale: il territorio di quella che viene (veniva?) definita deconstructed club. Se il termine vi sembra provenire da un’epoca lontana non è solo per la dilatazione temporale percepita in epoca pandemica. Si è creata infatti una certa saturazione riguardo alle proposte che cercano di trasfigurare determinate strutture musicali (tra cui anche quelle tradizionali, appunto) in sonotopie dense di suoni iperrealistici e computerizzati, suoni che potremmo definire violentemente algidi. Da una parte infatti queste espressioni incapsulano in maniera suggestiva l’asfissiante stimolazione neurale imperante nell’era dell’informazione ipertestuale e algoritmica; dall’altra tuttavia generano mondi sonori dalla forte connotazione artificiale che, nell’accelerazione verso forme futuribili di transumanesimo sconvolto, rischiano di scollarsi dalla carne viva delle radici comunitarie della tradizione musicale. Per questo, tra le varie forme di reazione che possiamo osservare ultimamente, si assiste nelle produzioni di artistə in orbita N.A.A.F.I. – e a dire il vero nella club music in generale – a una grande riscoperta e fascinazione verso le possibilità del ritmo: l’unità nucleare della musica come collante popolare e significante culturale. In molte produzioni di questi ultimi anni il beat è spesso affidato a poliritmi corposi, che non vengono modificati con distorsioni o cut-up ma lasciati evolvere attraverso la ricchezza dei propri pattern percussivi, con cui sostengono il beat e lo sviluppo dei pezzi; a questo si aggiunge un maggiore ricorso a strumenti a percussione suonati dal vivo e solo successivamente campionati e processati per costruire l’impianto ritmico. Il risultato è che anche pubblicazioni che si avvalgono di tecniche di sound design all’avanguardia incorporano elementi sonori dalla timbrica piena e risonante, i cui ritmi scandiscono le danze da secoli, evocando un forte richiamo ancestrale pur in contesti radicalmente elettronici. C’è la percezione diffusa che la club culture possa trarre ispirazione dalla grande eredità culturale della tradizione per i propri futuri sviluppi, da un rinnovato senso di comunità alle caratteristiche più viscerali delle vibrazioni sonore che animano i corpi e le menti danzanti.

Badate bene, con questo non si intende dire chi si allontana dalla tradizione è condannatə a perdere l’anima; ben venga, anzi, ogni visione creativa che cerca di tradurre in musica dei percorsi verso futuri possibili. Si cerca solamente, e pur nella parzialità della nostra prospettiva, di seguire le direttrici di un mondo in perenne fermento come quello della musica elettronica e sembra proprio che, dopo anni in cui il termine caldo è stato “intelligenza artificiale” (dagli Autechre a Holly Herndon), adesso ci sia invece una riscoperta della dimensione tribale fin dal suo nocciolo ritmico. Del resto, sarebbe strano se tra le strade possibili non ce ne fosse una che raccoglie la sfida di prendere i migliori insegnamenti del passato per aggiornarli al futuro e spostare ancora più in là le frontiere dell’immaginazione. Di seguito vi indichiamo tre pubblicazioni recenti che, oltre ad essere un bel sentire, definiscono in maniera più concreta le tendenze di cui abbiamo parlato.

Lila Tirando a Violeta – Desire Path
(N.A.A.F.I., 2022 – Uruguay)

La discografia di Camila Domínguez racconta molto delle tendenze che hanno percorso la musica elettronica nel decennio scorso. Si presenta sulla scena facendo roba vaporwave che riempie tutte le caselle estetiche del genere, poi inaugura collaborazioni con producer interessati a sconvolgere le forme della club music come Lighght e Nick Léon, intensificandole negli anni. Trova così un proprio stile tra la frammentarietà dell’elettronica distorta e l’algidità dei suoni sintetici, venati di una dolcezza conturbante che si riflette nell’uso dettagliato delle parti vocali; nel frattempo si dedica anche al progetto A.M.I.G.A, dove insieme alla sodale Hiela Pierrez porta avanti tematiche riguardanti i diritti della comunità LGBTQI+ dando al contempo sfogo al proprio lato più pop, con interpretazioni R&B e produzioni a tono bubblegum bass. Sulla sua prolificità e sulla sua formazione stilistica incide sicuramente anche il difficile rapporto con i saliscendi di una patologia neurologica cronica non meglio specificata; fatto sta che Domínguez affina continuamente il taglio delle sue uscite a nome Lila Tirando a Violeta fino ad arrivare a questo Desire Path, sua seconda pubblicazione per N.A.A.F.I.. Le mutazioni digiviolente che la facevano da padrone nel precedente Limerencia hanno ancora una presenza importante, sono un’espressione comunicativa con cui Domínguez dimostra di trovarsi a proprio agio e caratterizzano ad esempio un pezzo di importante carica emotiva come Aguas Violentas. Rispetto a due anni fa però i ritmi e le timbriche del folklore sudamericano fanno capolino in maniera molto più netta, soprattutto nei passaggi più club-oriented, dove infondono energia e varietà: l’incedere sincopato di un reggaeton a lenta cadenza rende sensuale anche la tec(h)nostruttura distaccata di un pezzo come Twenty Seven, mentre in Caminos del Deseo sono gli strumenti a fiato e le pelli dei tamburi a guidare la danza e a disegnare forme ibride nei richiami alle musiche mediterranee, con le parti digitali che si limitano a dare supporto alla loro potenza di fuoco. Ma c’è vita anche oltre il dancefloor, come dimostra il remix di Flores del Mal per mano dei Dengue Dengue Dengue!, che esplora la ritualità musicale di voci e percussioni e non va lontana dal meridione esoterico dell’ultimo Mai Mai Mai, con la danza spiritica della cumbia al posto dei tamburi dell’Aspromonte. Anche in un contesto prettamente sintetico e digitale, insomma, i ritmi della tradizione dimostrano di saper trasmettere grande forza comunicativa. 

Dengue Dengue Dengue! – Zenit & Nadir
(Enchufada, 2019 – Perú)

Proprio i Dengue Dengue Dengue! incarnano una delle interpretazioni di elettronica moderna più inestricabilmente legata alle radici tribali della musica delle Americhe. Approdati su N.A.A.F.I. in una fase avanzata con l’EP Fiebre del 2020, in realtà hanno collaborato a più riprese con artistə del giro nel loro percorso decennale. Il momento in cui si sono rivelati al pubblico internazionale è probabilmente il 2018, anno in cui vengono pubblicati due EP programmatici nel loro tracciare con chiarezza le anime che movimentano l’arsenale sonoro del duo peruviano: la passione per le possibilità ritmiche delle percussioni tradizionali e il legame con le espressioni musicali del folklore andino. Son de los Diablos è il nome di una danza originata dagli schiavi africani deportati in Perú dai coloni spagnoli, sviluppatasi nella tradizione popolare mescolando elementi ritmici dei tre continenti; l’EP omonimo si lega a questo patrimonio utilizzando una vasta gamma di tamburi suonati a mano come fonte quasi esclusiva per costruire i pattern percussivi, ricamandoli poi con sintetizzatori che richiamano fortemente i suoni dei flauti di Pan, la cui presenza è praticamente trasversale nella musica popolare andina. Ne risulta che, a parte l’episodio infuso di vibrazioni UK bass di Cobre, non si ascolta tanto della club music influenzata dalla tradizione musicale peruviana quanto piuttosto una reinterpretazione appassionata della musica popolare attraverso l’attualità dell’elettronica da ballo. Semillero va ancora più in là e trascende anche la dimensione del club: i pezzi abbracciano a livello stilistico le forme espressive della musica folk quechua, dai canti rurali alle danze huayno, la cui dimensione rituale è esaltata dalle possibilità evocative delle componenti elettroniche, finendo per parlare la lingua delle processioni festive e delle riunioni spirituali. Zenit & Nadir a confronto è un ascolto più convenzionale, ma inserisce tutti questi elementi in una matrice orientata al dancefloor di cui è interessante ascoltare gli sviluppi. L’impianto ritmico continua ad essere integralmente costruito su pelli battute e piatti percossi, da cui i due producer fanno fiorire una ricchissima varietà di poliritmi materici che ben rappresentano lo spirito di un paese megadiverso. La levigatura del sound design abbraccia musiche ben oltre i confini d’origine, in questo caso spiriti d’Africa tra cadenze gqom ed echi di mbira, arrivando a ricordare le movenze degli ultimi Baiuca. Procedere nell’ascolto dell’album ha il fascino di un’esplorazione tra danze tribali antiche e nuove, intrecciate a bassi profondi e nenie elettroniche che richiamano la serenità umbratile delle melodie andine. Dentro il club sorgono montagne e foreste che sono lì per restare.

Siete Catorce – Cruda
(Subreal, 2022 – Messico)

Marco Polo Gutiérrez aka Siete Catorce è stato parte fin dall’inizio del nucleo di artistə da cui è nata la N.A.A.F.I.. Ha poi fondato una sua etichetta discografica, la Subreal, insieme alla sua frequente collaboratrice Amazondotcom (che fa musica tra ambient hi-tech e UK bass); il manifesto dell’etichetta è “SUBREAL actively seeks out a diaspora of artists, sounds and rhythms that may have trouble defining/identifying themselves. The label encourages artists outside of, or on the fringes of, culture(s) to create and map their own singular musical realities.”, quindi si capisce bene la continuità del progetto con la commistione di voci pan-americane della casa madre messicana. Proprio su Subreal è uscito il suo ultimo lavoro, che rappresenta una delle affermazioni più radicali nella definizione dei possibili rapporti tra tradizione e tecnologia. Per i nove brani di Cruda, Gutiérrez sceglie una strumentazione e un’effettistica minimali che restringono di molto lo spettro sonoro rispetto alle abituali produzioni della club music odierna; lo scheletro dei pezzi è composto da nudi e crudi pattern percussivi di tamburi e ritmi digitali che si fondono in danze tribali elettrificate, la cui potenza rimbomba tra le strutture scarne. Tutto intorno è un’infestazione di basse frequenze striscianti, sintetizzatori che tracciano linee tematiche storte e spettrali, glitch che sabotano il DNA dei brani facendoli mutare. Siete Catorce fa con i ritmi di marìmbula e cajón delle Son messicane un’operazione hauntologica simile all’interpretazione glaciale del digital dancehall ad opera di Low Jack, ma in alcuni passaggi arriva a richiamare un’insospettabile affinità con certe storiche manovre hardcore techno dalle forti infiltrazioni industriali (pensate a questo con la cumbia al posto del breakbeat). È quindi chiaro che questa danza si muove tra nebbie piuttosto inquiete, ma il bello è che pur sempre di danza si tratta: c’è infatti un uso appassionato e viscerale del ritmo che lo impone su tutto il resto, dando ai pezzi un potere di contagiosità febbrile che risalta ancor di più all’interno delle algide cornici elettroniche. Così ascoltando brani come Amor e Ibuprofeno si può immaginare un cortocircuito tra la Warp degli anni d’oro e DJ messicani che sparano percussioni in terzine dagli impianti, una cerimonia tribale dove anche i fantasmi ballano tra le scorie digitali.

Questi sono solo alcuni esempi, utili però per mostrare come la nuova club music delle Americhe sia un interessantissimo case study delle possibilità all’intersezione tra evoluzione tecnologica delle forme espressive, riscoperta dei legami con la tradizione e produzione artistica collaborativa e multiculturale. Se per certi versi intorno alla realtà della N.A.A.F.I. si è costituito un contesto creativo molto peculiare, è però vero che la sempre maggior presenza dei ritmi tribali si avverte con forza nelle produzioni elettroniche di tutto il mondo: potete sentirli rimbombare glitchati nella musica del libanese Safa, mutare sotto la spinta del dub ad opera della tunisina Azu Tiwaline, muoversi tra tamburi arabi e dembow giamaicani guidati dal tedesco Toma Kami, movimentare pezzi house evocando le origini pakistane dell’inglese Ahadadream. Non resta che lasciarsi trascinare da questo ritorno al futuro.

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto