SPRAIN – THE LAMB AS EFFIGY
Quando nel 2020 gli Sprain hanno pubblicato il loro primo album non sono stati calcolati praticamente da nessuno, né in Italia né all’estero. E tutto sommato è stato giusto così: As Lost Through Collision sfodera un tipo di post-hardcore smaccatamente novantiano, per stile e suoni adottati, che come spesso accade in casa The Flenser sembra troppo occupato a sciorinare i riferimenti giusti per preoccuparsi anche di amalgamarli in una maniera interessante. Non cerchiamo per forza qualcosa che faccia scomodare formule ingombranti come innovativo, rivoluzionario, di rottura; anche perché abbiamo trent’anni e sufficiente esperienza di ascolti alle spalle da capire che certe espressioni tanto abusate dicono più di chi parla che non dell’opera in questione. Ci basta molto meno per riconoscere il valore della musica – magari un amalgama peculiare delle proprie influenze, o una personale prospettiva melodica o espressiva, oppure una scelta dei timbri particolare; basta davvero qualsiasi cosa.
Eppure, gli Sprain hanno mancato clamorosamente pure questi obiettivi minimi. As Lost Through Collision è praticamente una sfilata, annoiata e indolente, di imitazioni (o, nei casi peggiori, parodie) di tutte le band con cui erano in fissa gli Sprain al momento del concepimento dell’album. Non c’è stato alcun tentativo concreto di rielaborare questa rete di riferimenti in un sound coeso e omogeneo: i brani sembrano articolarsi in segmenti a tema, ognuno dei quali dedicato a un loro artista del cuore diverso. Ora si svolazza tra il suono angolare e astratto del post-hardcore in stile Unwound (di cui viene saccheggiata praticamente tutta la discografia) e quello invece più dimesso di matrice slowcore (un po’ Codeine, un po’ Duster, ma soprattutto tanti Lowercase); poi ci si concede un attimo di riposo con momenti più dilatati alla maniera del post-rock (Godspeed You! Black Emperor e Swans dei periodi immediatamente pre- e post-reunion i nomi più ovvi); infine, su Constant Hum, gli Sprain si fanno pure più ominosi, rallentando i tempi e avvicinandosi al drone metal in stile Earth o Thrones. Ma l’unico piacere che si può trarre dall’ascolto di As Lost Through Collision è l’eccitazione infantile di trovarsi a giocare a un Where’s Wally? con alcuni dei nostri più grandi amori del rock alternativo anni Novanta e Duemila, perché nessuna di queste sezioni comunica coerentemente con qualsiasi altra. Vi posso garantire che se scandagliate il roster Sub Pop, Touch and Go e Kill Rock Stars, e compilate una vostra playlist di tre quarti d’ora, otterrete un risultato non troppo diverso da quello ottenuto dagli Sprain.
Fermarsi un attimo a inquadrare i motivi per cui un album come As Lost Through Collision, che pure vanta un’esecuzione competente e una resa sonora professionale, possa risultare comunque sterile e quasi dilettantesco a livello di scrittura ed estetica è un passaggio chiave per spiegare ciò che non va nel suo successore The Lamb as Effigy. Perché, a uno sguardo superficiale, questa seconda prova degli Sprain parrebbe avere tutte le carte in regola per divenire uno degli album generazionali del rock sperimentale contemporaneo (leggasi: per essere considerato “generazionale” da duecento persone al mondo che però fanno tanto fracasso sulle board di internet). E, in effetti è stato effettivamente salutato come tale da molti ascoltatori e anche da un discreto numero di testate, soprattutto italiane.
Nella musica degli Sprain tutto ora è più grandioso, più esagerato, più massiccio: The Lamb as Effigy dura letteralmente il doppio rispetto all’esordio, eccedendo l’ora e mezza di minutaggio; ha quattro brani di durata superiore ai 10 minuti (e due di questi eccedono pure 20); amplia il ventaglio stilistico da cui attingere, aggiungendo al loro già nutrito palmarès di post-hardcore e alternative rock gli arcigni estremismi delle avanguardie accademiche del Novecento. E l’operazione, all’inizio, parrebbe anche funzionare, perché su Man Proposes, God Disposes e su Repetitions gli Sprain sembrano addirittura aver capito cosa non aveva funzionato su As Lost Through Collision. Anche questa volta sono ben riconoscibili i vari richiami che si susseguono lungo le due tracce: i groove del post-punk, le storture degli Unwound di Fake Train e dei Nation of Ulysses, le elegie letargiche degli Slint, il noise rock angolare dei Sonic Youth che muta in quello minaccioso dei Bodychoke, i Lowercase sempre pervasivi nei momenti più sofferti, eccetera eccetera; adesso, però, gli Sprain hanno l’ardire di mescolare soluzioni differenti, di creare un po’ di dissonanza tra umori e sonorità non ovviamente compatibili, di far confluire un po’ di Duster e Xiu Xiu dentro il suono di Oxbow e Swans. C’è comunque un problema, perché in ogni caso continuo a parlare della musica degli Sprain appellandomi esclusivamente ad altri artisti; ma perlomeno non è più così grave come su As Lost Through Collision.
Poi però arriva un drastico cambio di rotta segnalato da Privilege of Being, con il suo arpeggio acustico sabotato ben presto da crepitii elettroacustici, brulicanti stridii di archi che sembrano campionare la Trenodia per le vittime di Hiroshima di Penderecki, cluster dissonanti di tastiere e sibili di flauto dolce. Da questo pezzo in avanti, The Lamb as Effigy approfondisce le sue velleità più colte, con rimandi sempre più frequenti e ingombranti al sonorismo, alla musica elettroacustica di estrazione accademica, ma anche all’idioma minimalista americano di Steve Reich, Terry Riley e La Monte Young. Per l’occasione gli Sprain si fanno aiutare da Ulrich Krieger, chiamato ad assolvere al ruolo di arrangiatore e direttore: un musicista dal curriculum incredibile, che oltre a poter vantare una lunga attività come compositore e improvvisatore (culminata nella collaborazione con Lou Reed del 2008, con cui ha suonato musica ispirata da Metal Machine Music) ha anche impiegato il suo sassofono per registrazioni con gente come Imperial Triumphant, Art Zoyd e Faust – senza contare ovviamente tutte le sue incisioni nell’ambito della classica contemporanea (comprese alcune opere di Harry Partch e John Cage).
Tuttavia, la visione degli Sprain è a un tale livello di mediocrità che non può essere redenta nemmeno dalle doti di un professionista come Krieger. Prendete Margin for Error, la loro ridicola interpretazione del cantautorato crepuscolare del tardo Scott Walker: l’ostinato bordone di organo che fa da unico controcanto alla prova vocale enfatica di Alexander Kent per quasi dieci dei 24 minuti e mezzo di durata del brano offre davvero troppi pochi appigli che possano legittimare un minutaggio tanto diluito. Contando inoltre che la seconda metà del pezzo è una lunga progressione catartica nel segno del totalismo di Glenn Branca in cui – di nuovo – per circa 14 minuti non cambia alcun parametro della musica salvo il volume, si arriva alla fine di Margin for Error tirando un sospiro di sollievo più per la noia suscitata che non per l’intensità dell’interpretazione. Su The Commercial Nude invece il riferimento colto più evidente è Xenakis, di cui viene tributata sia la sua produzione elettronica (anche se gli Sprain, poverini, non sanno esprimerne l’eredità in altro modo se non in sfarfallii di glitch e bleep, oppure in subliminali tappeti ambientali) sia quella acustica (la parte disarticolata di pianoforte in apertura pare citare esplicitamente Eonta). Quando nella seconda metà il brano torna su binari rock, ovviamente, il riferimento è comunque quello degli Swans – perfino l’utilizzo delle campane sembra fare il verso alla musica di Michael Gira da The Seer in avanti. E, ovviamente, le cose non cambiano nemmeno con i 37 (trentasette! dio bastardo) minuti complessivi di The Reclining Nude e God, or Whatever You Call It: vi risparmio la lista puntuale di tutti i momenti in cui gli Sprain omaggiano la poetica degli Swans, di Scott Walker, degli Unwound di Leaves Turn Inside You. Inutile sottolineare che, in mezzo a queste mastodontiche rotture di coglioni, pure un brano più elementare (ma anche più riuscito) come We Think So Ill of You, nella vena dei primi due pezzi del disco, suona aggravato da tutto il peso del mondo.
Il punto è che, anche se questa volta gli Sprain hanno volto lo sguardo dal post-hardcore e dallo slowcore verso il post-rock e la classica contemporanea, The Lamb as Effigy non ha segnato minimamente una maturazione della prospettiva artistica del gruppo. Sembra quasi che la scrittura di nuova musica, secondo gli Sprain, passi per forza dal riproporre esattamente ciò che si ascolta, senza applicare variazioni espressive o esecutive di alcun tipo. Cosa ancor più terribile, gli Sprain non sembrano nemmeno i musicisti più acuti sulla piazza, per cui il processo di trascrizione che porta i loro ascolti dalle orecchie agli strumenti è accidentato da una serie imperdonabile di incomprensioni, malinterpretazioni, semplificazioni, banalizzazioni: perché soltanto così si può spiegare come mai, nei solchi di The Lamb as Effigy, di lavori tanto intensi quali Tilt, Soundtracks for the Blind o Persepolis rimangano soltanto soundscape brulli e sparsi, ripetizioni ostinate, droni, climax catartici (o supposti tali) che sono concepiti come unico possibile obiettivo e punto di arrivo di composizioni dal minutaggio esasperato. In altre parole, gli Sprain sono scemi – e ci tengo a precisare che questa non è una mia accusa diffamatoria, bensì un’evidenza scientifica che gli Sprain stessi confermano con le loro dichiarazioni. In un’intervista del 2020, quando Kent è invitato a parlare della sua passione per la musica classica, risponde con questo manifesto di ignoranza crassa in cui appare evidente tanto la rozza comprensione della musica classica precedente al XX secolo, quanto una visione estremamente parziale dell’unicità e profondità dell’idioma di compositori come Schoenberg, Ligeti e Xenakis. Cito testualmente:
I’m really fascinated by 20th-century classical music—some of the weirder stuff like Schoenberg, Penderecki, Ligeti, Xenakis. Those kind of composers were taking these approaches of writing music to their most abstract extremes and making music based only upon texture, rather than the classical cliches of motif or chord progressions. I always found that really fascinating because especially in the classical world—where pretty much everyone has to be at a certain level trained—they were able to create this music that was entirely based upon sound, as opposed to anything that was derived…It’s just kind of bizarre and inspiring.
Che dire: complimenti a chiunque li abbia presi sul serio.