CHAT PILE – GOD’S COUNTRY

The Flenser

2022

Noise Rock, Sludge Metal

Sono venuti alla ribalta nel 2019, i Chat Pile. Formatisi a Oklahoma City, erano già forti di una coppia di EP ben prodotti e belli carichi che sono stati rimbalzati dalla sponsorizzazione di Fantano nei best EPs of 2019 e da qualche zine meno seguita. Hanno inciso uno split nel 2021 con i Portrayal of Guilt, gruppo screamo di Austin, e nello stesso anno hanno consegnato ai fan una cover di Roots Bloody Roots dei Sepultura.

Perfetto, questi erano i convenevoli. God’s Country è stato rilasciato a fine luglio, e, in un’estate in cui non c’era molto da raccontarsi, moltissimi riflettori si sono spostati verso l’Oklahoma a celebrare l’uscita di uno di quei dischi che sembra avere la volontà di potenza di cambiare tutto senza cambiare niente, uno di quegli album che la-parola-d’ordine-è-“qualità e tanto basta. I Chat Pile, strappati dalle valli dell’autoproduzione da The Flenser, consegnano in effetti un prodotto ascoltabile, piacevole, nostalgico: molto comodo. Il contenuto non è neanche troppo difficile da riassumere, nove brani per quaranta minuti di pura venerazione del sound grave e gagliardo del noise rock degli anni ’80 e ’90, un po’ in tutte le sue declinazioni. Troviamo, in ordine sparso: le urla da mattatoio di Jared Warren nell’impostazione vocale delle psicosi cantate da Raygun Busch; il mixing cavernoso e echeggiante del drumkit, un riferimento diretto di tanti lavori albiniani; i brani a cappella con dei baritoni saccheggiati al Gira degli Angels of Light; addirittura gli armonici distorti di ascendenza Atomizer fanno la propria comparsa in alcuni degli hook di metà disco. E poi tantissimi ricordi di Unsane, Godflesh, Helmet, Eyehategod, tutti quanti rimescolati e sputati negli angoli più aggressivi del disco, una vera sagra del palm mute che, se per certi versi sazia quella fame di una musica corposa e bella materica, per altri lascia con un’insoddisfazione di fondo piuttosto diffusa. Durante l’ascolto dell’album è inevitabile trovare qualche briciola, qualche momento particolarmente interessante, da segnare sul cronometro – ma durante gli ultimi minuti di Grimace_smoking_weed.jpg la domanda esistenziale ci crolla addosso lasciandoci in una certa inquietudine: “Bello. Ebbene?”

Ebbene God’s Country non è un brutto disco. Si regge quasi esclusivamente sulla performance di Raygun Busch, incredibilmente espressiva e mai esagerata, è piacevole all’ascolto soprattutto per chi è abituato a certe sonorità e per chi cerca nella musica contemporanea delle timbriche che stanno in panchina, purtroppo, da molti anni. Oserei anche dire che è un debutto che lascia delle buone speranze: c’è tantissimo margine di miglioramento, lo spirito alla base dei Chat Pile funziona e i ragazzi hanno un gran talento nella delivery. Si potrebbe anche chiudere la valutazione del disco in levare, fiduciosi di un futuro quantomeno interessante. Ma la grossa popolarità di questo lavoro, il fioccare di variazioni di best new music e strong 8 impongono un’analisi leggermente più approfondita dei brani, condotta a partire dalla convinzione che non è possibile che basti così poco per arrivare alle vette dell’anno domini 2022. Incoccando nuovamente due o tre volte le cuffie e segnandosi con attenzione i passaggi dei brani, i Chat Pile fanno una figura molto più impietosa che ad un primo ascolto: i difetti cominciano a farsi strada petto in fuori nel corso della release, e i problemi diventano assordanti. La banalità della scrittura comincia a pesare sullo stomaco e impedisce di prendere aria tra un passaggio e l’altro, i refrain trasmutano la loro intensità in monotonia, ci si accorge anche che quelle poche, coraggiose colorature della chitarra di Luther Manhole perdono la loro strada in quella produzione da macelleria limacciosa e grottesca. Laddove i testi e la performance di Busch dimostrano un certo genio, tutto il comparto musicale di God’s Country pecca brutalmente in fantasia e originalità. L’angelo insiste: “Senti quanto cazzo macinano, ‘sti Chat Pile! Drun, drun, drun -gnaoaaaa“, ma il diavolo ha troppi più argomenti: “A sto punto non era meglio un altro disco degli Unsane? Uh, guarda, hanno riciclato di nuovo il riff dell’intro!” Mistica da Looney Tunes a parte: sono le domande che ci poniamo a traboccare in una catastrofe di perplessità. 

Il Kraken del nostro dubbio estende tutti i suoi tentacoli, immergendoli in delle profondità ben più angoscianti da sondare di quell’”ebbene?” da cui era partito tutto. In primo luogo: ma dio cane, perché la critica spara tutti sti fuochi d’artificio quando un gruppo prova in tutti i modi a far tornare indietro le lancette del tempo senza aggiungere altro? Perché il mondo intero si genuflette a un lavoro così smaccatamente di maniera, se il noise rock stesso ha avuto peraltro un revival di tutto rispetto nel decennio precedente? Sapevamo già che la creatività della band di Oklahoma City era frenata dal copiare pedissequamente gli strumenti di scrittura dei Jesus Lizard. Ma com’è possibile che una realtà spinta da The Flenser ignori tutti i progressi fatti da Armed, Pop 1280, Show Me the Body, Daughters e arrivi non solo in ritardo, ma senza nemmeno un’idea del contesto? Consideriamo poi la compattezza del disco: potremmo ipotizzare che quell’incursione post-punk di Pamela – che piace tanto… – sia stata scritta dai fan di Dan Barrett di casa Flenser, visto quanto quella ganache di chitarra in reverb stona con il resto della produzione. È questo che serve per fare il salto di qualità, per raccontarsi evoluti? Ancora: una buona produzione e un’ottima verve nell’interpretazione vocale sono abbastanza elementi per nascondere la pochezza e la mediocrità della composizione e l’assenza di qualsivoglia complessità o dinamismo all’interno dei singoli brani? In ultimo, tornando ab ovo: basta veramente così poco perché chi ascolta e scrive di musica in questo periodo si ecciti come una cucciolata di beagle alla fatidica apertura delle scatolette di eukanuba? 

Ai Chat Pile auguro di sfruttare tutte le loro potenzialità per portare a casa un album che sia veramente un punto di riferimento nell’evoluzione del rock contemporaneo. Se riusciranno a ignorare gli applausi e proseguire a testa bassa ne avranno sicuramente facoltà.
A chi invece si accontenta di un final mix dei propri dischi preferiti uscito con trent’anni di ritardo non posso che dire: mi dispiace. Ci facciamo un burraco?

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M