LA FATICA DELL’ASCOLTO

Ho sempre guardato con un certo distacco e scetticismo quegli articoli autobiografici che sono passati nelle mie zine preferite nel corso degli anni ‘10 di questo secolo e che avevano un unico, principale, noioso punto. Lo possiamo riassumere in: “l’articolista è un vecchio di merda e si sta lamentando di essere un vecchio di merda”. 

Sono certe sensazioni che finché non vivi non potresti mai descrivere. D’altra parte, sono anche sensazioni che fa cagare vivere e che fa anche un po’ cagare descrivere. Mi ritrovo quindi ad assumere quella posizione sgradevole e viscida in cui ho la necessità di scrivere di un argomento e detesto essere proiettato in quello stesso argomento: è in generale un periodo di grandi cambiamenti e di grandi riflessioni. Ho bisogno di raccontarvi cosa sta succedendo nel mio rapporto con la musica, alla soglia dei trent’anni, in una quotidianità che brulica di merda e che settimana dopo settimana diventa più impegnativa vivere. Prometto, come minimo, di lasciare meno sovrapposizioni possibili con i nostri altri due grandi articoli autobiografici, Carveriana e La mia vita e Fabrizio De André

Un po’ di contesto: è da un paio di mesi che mi sono trasferito a Copenhagen per affrontare un master per me molto importante – una promettente porta per un futuro accademico, dopo anni di deviazione di percorso – e per lavorare, nel frattempo. La città è bellissima, ma è anche fortemente caratterizzata. Vengo da Bologna, e cambiare quel rosso carbonchio e quell’eau di studente con il vetro del sorte diamant e la salsedine dell’isola di Christiania è un’esperienza del tutto particolare. Le giornate si riempiono, bisogna comprare roba per la casa, catalogare tutte le ricerche di lavoro e le rejection arrivate, prepararsi per un corso di studi per cui non sono mai stato veramente granché pronto, prendersi dei momenti con Barbara e con i nuovi amici grattati a fatica dalla patina di international giorno dopo giorno. Questa settimana i musei sono gratis, facciamo un gruppo whatsapp. Questo evento si chiama This Could be Us, but you’re so hardcore. Wanna join? È stimolante imparare delle nuove regole di vita, macinando chilometri su una bici che prima non sapevo portare, studiando matematica (?) e cercando di capire dove stia il sentiero. 

Forse è il momento giusto per dirvi che queste righe le sto scrivendo ascoltando The Ruby Cord, il mio disco preferito dell’anno appena passato; potrebbe anche essere il momento giusto per la disclosure principale di questo articolo – ho problemi ad ascoltare musica, è difficile. È difficile rimanere al passo, è difficile coprire le nuove uscite ed è soprattutto difficile tornare e ritornare sui dischi che amo. Più facile abbandonarsi a quei tre pezzi che a rotazione funzionano bene in bicicletta: Ride degli Amnesia Scanner, Babies di Celestaphone, Debaser, Backwater, forse qualcosa di Kaos…? Ma poi perché Kaos nello specifico? (Perché così non ascolto Così Com’è finendo nel loop degli Articolo 31, come se avessi di nuovo 9 anni).

In questi momenti di burnout musicale torno sulla mia pagina di rateyourmusic e la coccolo un po’, me la guardo. Si va verso i sedicimila rating – la gran parte è giudizio di mediocrità, quindi è corretto che io non mi ricordi una nota della maggioranza di musica che ho ascoltato negli ultimi dieci anni. In inglese si dice Loitering, c’è un corrispettivo in italiano? Bighellonare! Insomma, mi ritrovo spesso a bighellonare tra le mie stelline con l’obiettivo di ricordarmi di quello che amo. È uno dei motivi per cui ho l’account su quel sito, in realtà è uno dei pochissimi motivi: non ho una buona memoria, e spesso ho necessità di confrontarmi con il giudizio dato anni fa, mi fido di quello che pensavo. E quando indugio con lo sguardo su certi pezzi di questo accrocchio di opinioni analizzabile in sql mi capita sempre di pensare: dove sono quei dischi, nella mia memoria? Dove sono quei dischi, oggi? Nella mia quotidianità, dove siete? Perché mi avete abbandonato qui, tra la soundtrack di Persona 5 (bella!) e la sigla di Guru Guru (entrambe)? 

Guardo strisciare sullo schermo questo misto di nomi che hanno caratterizzato i miei ascolti adolescenziali, le reazioni sono estremamente varie. AMMMusic? Mi sa che non voglio ascoltarlo mai più. First Utterance? L’ho ascoltato tipo quaranta volte, perché ancora non mi ricordo come suona? Their Satanic Majesties Request? Che ci fa a 4? Sono sicuro che abbia senso, ma non ho tempo di riascoltarlo. Metal Fingers? L’ho ascoltato un paio di volte, ma lo ricordo a memoria. Eccetera. Ma la vera tragedia è il sentimento diffuso e rumoroso che provo, guardando tanto la musica che amo quanto quella che ricordo vagamente di amare. Penso sempre che dovrei trovare del tempo per ascoltarla, fare qualche lista, ricominciare ad interrogare il mio passato e allo stesso tempo il mio futuro. Di tutta la redazione, del resto, sono quello con più correlazioni con certe best new music

La tragedia è la difficoltà che sento nel riagganciarmi con l’ascolto attivo della musica quando tutto va male, quel placido squagliarsi sulle solite 10 canzoni di cui vi abbiamo già parlato in un articolo dell’anno scorso. Di solito gli articoli scritti da colleghi di altri magazine si concentrano su quanto, alla fine, ascoltare le solite 10 canzoni sia lo stato naturale dell’essere umano arrivato alla sua età adulta, affezionato a quelli che considera i migliori dischi di sempre, che alla fine sono niente più che retaggio e bolla sociale. Più aumenta la difficoltà della vita, più è necessario faticare per rimanere meramente in piedi, più è facile che la musica acquisisca per lo più un valore strategico. Di una canzone si ha bisogno, molto spesso. Un album è un lusso di chi è ricco, quantomeno, in ore da spendere senza preoccuparsi troppo di altre grandi cose. 

SEPARATORE

Il mio background mi porta anche a pensare: il modo in cui ho vissuto la musica finora è stato un po’ un privilegio, forse? Non certo economico (darei un piede per il p2p), ma sicuramente temporale, sicuramente c’entra il tempo libero. È un privilegio che ho perso già qualche tempo fa, quando ho dovuto abbandonare il progetto bjd per due o tre anni, e che in un certo senso sono destinato a perdere nuovamente: la vita qui sarà impegnativa, e su questo non ho dubbi.

C’è una cosa che, però, fonda in maniera gigantesca questo mio rapporto ambivalente con la musica, questo mio drammatico provare e riprovare. Mai una volta, davanti a un disco che amo, davanti a quella meraviglia che sto provando adesso nella coda di The Hermit, mi è capitato di pensare: ma chi te lo fa fare? Mai una volta in vita mia ho pensato che focalizzarsi su quei pochi brani di cui ho bisogno per tirare a campare fosse una buona idea. E quindi, se mi leggete e siete nella mia condizione, il mio consiglio è diretto e semplice: non lasciatevi travolgere da tutto il tempo che passa, dallo stress e dagli impegni. Ricominciare ad ascoltare uno solo dei dischi della vita, anche se perso da secoli, è in realtà uno dei modi più sacri e devastanti per riconnettersi con le persone che siamo. E più si è distanti dal giusto spazio mentale per ascoltare con calma certa musica, più i reinnamoramenti saranno fatali e fulminanti. Soprattutto, inaspettati. L’inebetimento, la rassegnazione a indossare un unico paio di scarpe, sono probabilmente le modalità più facili per concentrarsi su certi importanti valori del quotidiano (lavoro, studio, famiglia, relazioni), ma condannano anche, letteralmente, a perdere l’amore. 

Troppo preachy? Direi che è colpa di Richard Dawson, che mi dà l’idea che esprimersi con una dolce e continua stonatura sia comunque un buon modo per trasmettere un messaggio. Facciamo un passo indietro dal guru-consiglio e torniamo su di me. Personalmente, mi sono accorto che ascoltare uno dei miei dischi della vita, magari con cui non parlo da parecchio tempo, è un’attività che mi cura e mi rassicura, molto più di quanto potrebbe fare qualche snippet di musica qui e lì mentre sgambetto verso l’università o mentre mi alleno in palestra. Forse bisognerà veramente organizzarsi per ricominciare ad ascoltare le quantità di musica che sono necessarie per tirare avanti questa baracca, ma mi sono reso conto (mi sono ricordato) che basta quella piccola gemma ogni due settimane per dare un senso alla matassa di uscite di merda che ci scofaniamo tutti i giorni. Hegel parlava di fatica del concetto e intendeva tutt’altro rispetto a quello che sto per dire (c’è bisogno di riconoscerlo), ma la vibrazione di queste tre parole si rispecchia tanto bene nella sensazione che provo per rimettermi in sella con l’ascolto complesso e seriale della musica, vecchia, nuova, conosciuta, sconosciuta, amata, odiata. Tendenzialmente, soprattutto, odiata – il nome della zine è LIVORE per un motivo. 

Più la vita ci cresce addosso, più diventa faticoso trapassare questa fatica dell’ascolto e ritornare a quello che siamo stati intorno ai sedici anni: degli appassionati. Io ho visto tantissime persone farsi belle nei circoletti dell’internet e crepare nel bitume le proprie passioni appena la vita si è messa di traverso, bloccandosi in un girone infernale di, boh, hip hop italiano? Screamo? Cosa va forte in Italia in questo momento, figliuoli? Fatemi sapere scrivendo una bella mail a redazione@livore.it (non la controlliamo da aprile penso). Non c’è nulla di male a decidere di chiudere nel cassetto una passione, decidere che magari quel racconto di se stessi non faceva per sé, crescere e capire che i music nerd e gli audiofili rimorchiano solo insulti (o al massimo rapporti vagamente pederasti con altri music nerd più navigati), robe così. La cosa importante, che io e voi dodici che mi leggete (ciao, ubik! Come sono andate le vacanze?) dovremmo ricordarci sempre, è che se la maggior parte delle persone scelgono di vivere così, questo non significa che prima o poi anche noi dovremo vivere così. Io, sinceramente, ritorno su un You Are My Everlovin / Celestial Power e mi sento come se avessi scoperto la pepita uovo d’anatra sotto al letto – e il punto è che quello lì era il motivo del mio mal di schiena cronico. Dovevo solo cacciare l’oro da sotto al letto, very principessa-sul-piselloy of you

Certo è una passione che, come tutte, va coltivata. Questa è anche una banalità, e ne farei seguire con agilità una seconda banalità: non è mai troppo tardi per riprendere in mano gli arnesi per farlo (non sapevo se usare, per chiudere la metafora, una zappa o una spatolina: la prima si usa per i campi e quindi mi sembrava troppo, la seconda assolutamente non per questo motivo, ma è una parola molto carina). Molti musicofili hanno un po’ questo monolitico Super-Io molto snob che ascolta solo una specifica versione del Quatuor pour la fin du temps (anche se ti dico chi dirige non sapresti, lascia perdere) – che impedisce di godere di qualsiasi cosa non comprendono al volo o non riescono a contestualizzare. Soprattutto se circondati da tanti input differenti, che rendono la scena ermetica ed esclusiva. 

Sinceramente, per quanto io faccia fieramente parte di questi input, non importa. Dal mio punto di vista avere (quasi) trent’anni non significa rassegnarsi e dedicarsi a quelle piccole cose che abbiamo capito essere i piaceri della nostra esistenza. (Quello, per me, è il cardamom croissant della Hart Bageri). Significa, in realtà, avere sotto mano un bel libro di istruzioni ed esperienze per ricominciare e ricominciare e ricominciare e ricominciare, ogni volta come da piccoli, stesso entusiasmo, stessa passione – tanto poi crepi. 

Mi rendo conto che anche queste sono riflessioni da signore attempato che va ai concerti (ci pensate che Alcest fa una data qui per i DIECI ANNI di Ecailles de Lune? Non è manco il primo disco che ho stroncato, di quello) (Tra l’altro era anche troppo importante che fosse una one man band quindi bisognava dire GLI ALCEST) (Adesso si dice I TAME IMPALA anche se ne è rimasto uno e sta cosa mi ha sconvolto) con la maglietta degli Shellac (vi ricordate come era cominciato questo periodo?). Se avete il dono di avere meno di 25 anni o addirittura meno di 20 anni conservate le parole di questo articolo come io ho conservato quelle degli scrittori di mezza età che sono venuti prima di me. Ci vediamo quando mi citate nel vostro articolo bellissimo uscito per il nuovo magazine di approfondimento edito nel 2030 in quel di Torino – con tutte le probabilità. Se invece vi avvicinate di più alla mia età penso che ci siano degli spunti importanti in tutta questa mole di riflessioni, credo che possiate farne buon uso.

Ritrovare la musica è un fatto di fatica, ma perché uno dovrebbe vivere senza? 

Sono arrivato al termine di The Ruby Cord, avevo cominciato a scrivere con questa grande fatica, pensando di non riuscirci per bene; è il motivo per cui questo articolo è molto libertario nell’esposizione, ma sono sempre stato un po’ così, non devo giustificarmi mica. La cavalcata finale di Horse and Rider, dopo tutto questo percorso, mi riempie i polmoni DELLE ORECCHIE (loro) di aria di montagna, il momento più difficile è palesemente alle mie spalle, e si ricomincia con una nuova vita di appassionato, con la solita immane quantità di dischi quotidiani e l’occasionale rivelazione che riempie la mia esistenza di significato. Si ricomincia, anche, con una nuova annata su questo sito maledetto. Bentornate e bentornati.

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M