CELESTAPHONE – PAPER CUT FROM THE OBIT
Sono reduce dal decimo-dodicesimo ascolto di Paper Cut From the Obit e dalla scelta di promuovere il disco ad un 8, 4 stelline, come volete chiamarlo – chi mi conosce sa perfettamente quanto questo fatto sia raro per un disco contemporaneo e non rimasticato per anni; chi mi conosce mi perdonerà la poca struttura di un testo che scelgo appositamente di scrivere senza scaletta per quello che per adesso è il mio disco preferito del 2023. Vi posso risparmiare innanzitutto il volo d’uccello sulla carriera di Celestaphone, nom de plume di Joseph Murphy: limitiamoci a dire che a fortune alterne rappresenta dal 2017 una voce molto promettente della campata più outsider e stonata dell’hip hop sperimentale. A noi è piaciuto molto il suo To Cite Fright, una volata di un’oretta perennemente in turbolenza per colpa di nuvolette psichedeliche e produzione in lo-fi: a buon diritto definibile bandcamp shit, ma pieno di buone idee, che in corni diversi sono state ben esplorate nei successivi Weevil in Disguise e A Year of Octobers (in collaborazione con YOUNGMAN, qui presente sotto moniker MC Paul Barman). Non vi ho risparmiato il volo d’uccello, mi appello alla clemenza che vi ho richiesto qualche riga più sopra.
Paper Cut From the Obit è esilarante e game-breaker come pochi album che ho sentito da quando ho cominciato a recensire. Se ci seguite sapete perfettamente con quali occhi guardiamo la maggior parte dell’hip hop che esce dagli Stati Uniti da una decina d’anni a questa parte: molto pessimisti, annoiati, delusi tanto dalla piega smooth e calorica del cosiddetto conscious, quanto dalle noiosissime prove da cameretta del cloud rap e dal gangsterismo a buon mercato di moltissima trap popolare. Tipicamente, tra un revival del boom bap e un’esplorazione di scene fuori dagli USA, stiamo lì con la bava alla bocca ad aspettare un Danny Brown, una Backxwash, qualcuno che dia la sua bella take sullo spettro del rap che si fonda su hardcore e industrial, su quelle linee tracciate con un po’ di incertezza dai vari clipping. e Death Grips. Tutto questo pistolotto neanche troppo competente (David è l’esperto, io mi fomento e basta) per darvi un’idea di come Celestaphone sia riuscito, in quella che è sicuramente la sua performance più squillante, a rompere le righe di questa situazione e a pubblicare un album che, nella sua identità esplicitamente sperimentale, riesce a esplodere un blend di idee ed esperienze che porta in cuffia la mia cosa preferita – il qualcosa di completamente diverso.
Gli ingredienti di questa mescita sono tantissimi. Si nota chiaramente come la moda di grandeur di un onnipresente Lamar abbia pesato sulla dose di creatività che Celestaphone ha scelto di inserire all’interno dell’album; il filtro di una produzione alla billy woods, dall’altro lato, arieggia e diluisce le atmosfere – e due. La cifra jazzy-funk porta faustissime memorie di Madlib, le lyrics a mezza via tra la parodia e la pompa magna fanno un carosello tra Aesop Rock, Milo, DOOM, Nas; il flow di Celestaphone, nasale, cartoonesco e per certi versi petulante può richiamare alla mente il rapping tagliente di Eminem e dei Beastie Boys in una versione blue noted, storta e fuori dalle righe. Certi tagli e scazzi alla produzione sono di purissima matrice plunderfonica e sardonica, con filamenti che si estendono fino allo stesso John Oswald passando dall’epoca indie di Low Kick and Hard Bop. Vuoi che non ci sia anche l’intervento del post-punk revival nelle linee di basso rubate ai Minutemen e al punk-funk? E gli intermezzi progressive posticci, gli acquitrini di sitar, il pastoso walking bass di una fusion morta da cinquant’anni, le sezioni P-funk e disco? Prevedibilmente, divagando e delirando, non sto riuscendo a centrare una corretta descrizione dell’album che possa farvi capire cosa sta succedendo.
Cosa sta succedendo? Andiamo ai fatti: la maggioranza di Paper Cut From the Obit è rappresentata dal rapping à la Bugs Bunny di Celestaphone che si imbroda di sprazzi e immagini post-contemporanee con riferimenti spazianti tra nerd shit e haute couture, inciampando nella metrica, frenando a piacimento e cercando di tenere la sillabazione al passo ritmico della sua produzione schizofrenica. Anche quando l’MC sceglie una via più lineare gli hook e le code scollacciano e disintegrano la continuità della musica, forzando i sintetizzatori, le chitarre in palm mute e i fretless a sbeccarsi, lasciando scivolare più volte le linee strumentali nel più spudorato cubismo. Farei anche quella cosa di citare i brani tra parentesi (Così), ma i mix sono così disuniti (e allo stesso tempo confluenti tra un pezzo e l’altro) da rendere inutile puntare il dito sul singolo episodio: l’album, nella sua anarchia passatista, ha una solida coerenza interna. A modo suo è una risposta frenetica e virtuosa ai lunghi poemi jazz-funk di Gil-Scott Heron e Isaac Hayes, che impugna la ruvida freschezza delle canzoni di Lee Moses, l’afrofuturismo ante litteram dei Parliament e l’attitudine outsider di Dr. John.
Non fatevi impressionare dalla parata di riferimenti dagli anni ‘70: Paper Cut From the Obit è così radicato nel presente che ad un primo ascolto neanche ci si accorge esattamente quanto stia andando nel futuro. La scrittura delle basi è abbastanza multiforme da incastrarsi alla perfezione nella recente tradizione di brani adatti a gente con la soglia dell’attenzione inferiore a un minuto: il flow acrobatico e allo stesso tempo zoppo di Celestaphone è circondato da questa folla iperattiva di campionamenti e strumenti che lo attacca per moduli e brevi sortite. Il rapper si divincola benissimo nel caos che ha creato con le basi, turbinando in una spirale di beat che spesso trascendono dallo spirito del campionamento a quello del collage sonoro. Se la cavano molto bene anche i featuring (abbiamo in campo Defcee, R.A.P. Ferreira, Armand Hammer, Moor Mother e il già citato Barnam), con una nota di merito per la splendida Babies, che, con il suo testo colorato ed energico, richiedeva un flow meno spento di quello di Celestaphone.
Non voglio rovinarvi l’esperienza dell’ascolto e quindi evito di asfissiare Paper Cut From the Obit con un racconto track-by-track, mi limiterò a riassumere la valutazione finale sperando di accendere qualche lampadina per chi mi legge. Celestaphone è stato sostanzialmente capace di accodarsi alla tradizione dei grandissimi dell’hip hop in una lunga storia che va dalle effettive origini (la disco di Kurtis Blow e della Sugarhill Gang) fino alla sua stessa bandcamp shit, passando per l’omaggio a tantissimi dei più grandi di sempre, da DOOM a Lamar, dai Beastie Boys ai Tribe Called Quest. Spinto fino ai limiti massimi della sua poetica, Murphy si è ritrovato a tagliare e castigare tutte le sue influenze e a dare un’effettiva take metamoderna, iperrealistica, tongue-in-cheek sul passato, sul presente e sul futuro della musica toccata dal producer. Tutte le incertezze di scrittura colano nel campo estetico della bellezza imperfetta da outsider; tutti gli sbuffi lirici si arrampicano tra un piano ragtime e un synth galattico; tutti i rallentamenti vengono graziati da un gusto e da un orecchio fuori dal comune e al termine di Babies è impossibile non cominciare a ossessionarsi con questo patchwork che triangola il cazzaro, il critico e il genio. E io non posso che correre a scrivere questo pezzo con l’unico scopo di dirvi di correre a sentire questo disco di cristo, che è ad oggi il mio album dell’anno.