In tutti gli anni in cui ho ingenuamente pensato di poter diventare un bravo musicista, e magari (qui il sarcasmo è doppio) vivere facendo musica, il mio amico A. è sempre stato per me una fonte di meraviglia. A. suona tuttora la chitarra in alcuni interessanti progettini locali della città in cui sono nato, ed è autodidatta. È anche, per distacco, il musicista più stupefacente e creativo con cui abbia avuto l’onore di suonare.
La cosa, ovviamente, mi ha sempre fatto impazzire. Il mio percorso di studi, allora, era assolutamente rigoroso: la pratica quasi quotidiana allo strumento, le generose dosi di teoria musicale applicata al contesto pratico, le esperienze di jam session e gruppi formati con gli amici… A. viveva – anzi, vive – la musica allo stesso modo in cui lo facevo io, ma l’invidia scaturiva ogni qualvolta mi rendevo conto, in una pausa tra un abbozzo di pezzo e l’altro, di quanto molto spesso le sue intuizioni fossero paragonabili a un gesto istintivo, ad una art brut musicale per dilettanti. Ricordo ancora una giornata assolata in campagna, lui alla chitarra e io al piano elettrico, entrambi impantanati dentro a un riff dal quale non sapevamo uscire, persi nella circolarità di una figura armonica che sembrava destinata a risolversi ad libitum. E poi, a un tratto, A. mette le mani sulla chitarra e suona un accordo, lui stesso incapace di dire quale, mi sembra un rivolto di un qualche major 7 col basso spostato, e improvvisamente tutto suona di nuovo aperto e pronto alla scrittura. Ricordo anche che stetti lì per una buona trentina di secondi a contare i tasti sulle sue corde, cercando di decifrare cosa fosse effettivamente quell’accordo, prima di segnarlo con un misto di imbarazzo e furia e ripartire da capo.
A. e io, le poche volte che ci capitava di suonare inediti assieme, non eravamo mutualmente esclusivi: quando scrivevamo, io servivo a lui tanto quanto lui a me. Se la direzione presa dalle diteggiature improbabili di A. si faceva troppo audace, io e altri amici ugualmente impasticcati di teoria sapevamo come riportare alla base un giro che altrimenti sarebbe proseguito senza freni in direzioni impossibili da tracciare. Come fa, mi chiedevo, perché sa quello che deve fare anche quando non dovrebbe sapere cosa fare? Da dove ha imparato? Ero sempre così sorpreso dalla sua intuizione esplosiva che, quando mi venne rivelato che si faceva vedere meno perché stava provando a imparare solfeggio per entrare in conservatorio, quasi ci rimasi male: che bisogno c’era? Le cose le sapeva già, perché perdere quella mistica con la razionalizzazione e la standardizzazione?
Il vergognoso sentimento di essere invidiato, invece, lo provo ogni volta che parlo con mio padre: in uno dei suoi tipici commenti sarcasticamente sinceri, mi ripete che l’unica cosa che mi invidia è la musica. Non che mio padre sia un idiota o che non c’abbia mai provato, a rimediare a questa mancanza: anni fa comprammo addirittura una piccola batteria elettronica, il suo strumento d’elezione, per permettergli di provare a imparare i rudimenti della disciplina. Mio padre è un uomo dalle tante passioni, ma che ha anche una singolare affinità con l’incompiuto: penso di averlo visto suonare, incespicando, qualche basilare pattern in 4/4 solamente un paio di volte prima che lasciasse stare per sempre l’idea di dedicarsi a qualcosa di così “difficile da imparare per una persona come lui” (sic). Quella batteria elettronica, per molti anni, è stata l’unico modo in cui potevo provare con gli amici in casa mia. Poi ha iniziato a prendere polvere, e l’abbiamo venduta. Io, francamente, questa cosa non l’ho mai capita, visto che mio padre ha anche avuto il tempo di prendere una laurea negli scorsi anni. Il tempo per fare le cose che voleva fare l’ha sempre avuto.
Oggi il pensiero di sedermi di fronte a una tastiera quasi mi terrorizza. Lo sento nelle dita: l’agilità e la resistenza che avevo nei polsi e nei muscoli è svanita, la scioltezza con cui eseguivo i salti e i cambi di diteggiatura è come evaporata. Lo sento nella testa: se ripenso anche solo per sbaglio alla complessità di movimenti che ero abituato a eseguire ai tempi del liceo, mi sembra impossibile pensare che l’io di adesso e l’io di allora siano la stessa persona. Ci sono interi passaggi che ricordo ancora a memoria (ad esempio, la parte per la mano destra delle prime 16 battute di Peaches en Regalia); ma sono solo uno spettro pallido di quello di cui un tempo ero capace. È un pensiero deprimente, che ti mozza il fiato sul nascere quando, anche solo per qualche secondo, balugina in mente l’idea di passare un’ora a rimpratichirsi su scale, arpeggi, lick e frammenti. Temo di avere inconsciamente ereditato la stessa propensione da mio padre, nella più classica delle farse. E dire che basterebbe così poco per riprendere la pratica: ritagliarsi un momento di totale e religioso isolamento al giorno, mettere su le cuffie e iniziare pazientemente da pagina uno del Pianista virtuoso di Hanon, sciogliere quelle dita annodate poco per volta, magari ampliare il repertorio battuta dopo battuta, lavorare di fino… Più facile a dirsi che a farsi; il tempo sembra sfuggirti tra le mani per quanto lo usi male.
Nel 2017 Keith Jarrett ha smesso di suonare dal vivo, probabilmente per sempre. Soltanto un anno dopo, si è scoperto che quello che è probabilmente il più grande pianista jazz vivente aveva avuto un infarto che l’aveva lasciato paralizzato in tutta la parte sinistra del corpo. Le poche interviste che Jarrett ha rilasciato in questi anni sono annichilenti:
“[But] When I hear two-handed piano music, it’s very frustrating, in a physical way. If I even hear Schubert, or something played softly, that’s enough for me. Because I know that I couldn’t do that. And I’m not expected to recover that. The most I’m expected to recover in my left hand is possibly the ability to hold a cup in it. So it’s not a ‘shoot the piano player’ thing. It’s: I already got shot. Ah-ha-ha-ha.”
Con le dovute proporzioni (non ho mai saputo suonare Schubert, men che meno Jarrett o il suo repertorio), l’effetto di immedesimazione mentre leggo queste righe è ogni volta totale e desolante. Soprattutto alla luce del fatto che io non ho 80 anni e non ho avuto un infarto. Ma quel non essere “expected to recover”, quella sensazione di confrontarsi con se stessi e vedersi sconfitti, penso toglierebbe la voglia a chiunque.
Qualche anno fa, quando lo spettro della pausa a tempo indefinito sembrava ancora lontano e il complessino con cui mi divertivo ogni tanto a far serate stava lentamente svanendo nel nulla, mi ero imbattuto in uno strepitoso articolo del New York Times scritto da Christoph Niemann, un illustratore tedesco di mezza età che aveva approfittato dell’epidemia di COVID-19 per imparare, da adulto, a suonare il pianoforte e a leggere uno spartito. Niemann, lo diceva in apertura al pezzo, non era un totale neofita dello strumento: ma la sua conoscenza si limitava perlopiù a gesti mnemonici, riflessi istintivi che lo spingevano ad accompagnare una voce per un paio di standard jazz e nient’altro. Il suo percorso, racconta, è stato lungo e tortuoso, pieno di ostacoli che ha dovuto affrontare, l’ottusità del corpo che si oppone a un movimento che gli sembra innaturale per duemila volte prima di eseguire la sequenza di note sparute e fluttuanti correttamente per una volta sola.
Per pura coincidenza, qualche mese fa ho avuto ancora una volta l’opportunità di suonare con A. Era una serata tra amici dove si era riusciti a mettere assieme qualche amplificatore, una batteria, strumenti di fortuna e tanto vino. Dopo ore passate a sbadigliare e a mangiare tranci di pizza, ho preso il coraggio a due mani e mi sono avvicinato alla tastiera con il timore di chi si avventura in un bosco buio e pieno di trappole. E poi ho iniziato a suonare, seguendo quello che gli altri stavano improvvisando; una jam basata su due o tre accordi, un motorik minimale, sognante e serafico dove il violino, il synth, la chitarra e il basso si ricamavano spazi di luce in istanti minuscoli ma che ci avrebbero spinto ad andare avanti per quindici, venti minuti. Quando abbiamo finalmente staccato con un lungo fade-out, tutti esausti dallo sforzo di quel canone infinito, ci siamo fatti un applauso. È stato terapeutico, rivitalizzante. È stato bello.
È in momenti come questi che mi vengono in mente tanti frammenti dal passato, che sembrano lontani e che acquistano una rinnovata vitalità ogni volta che ci penso: sono momenti in cui A. ha qualcosa da farci ascoltare, un frammento suonato alla chitarra che ha registrato al telefono e che non sa come valutare, non sa se funziona oppure no. E lo fa sentire a noi, la sua cricca di amici, che battiamo il piede seguendo il ritmo dei riff e cercando di visualizzare che cosa sia effettivamente: un ritornello, una strofa, un bridge? E da lì si aprivano discussioni enormi su cosa fare, come cambiare, stravolgere, ribaltare un abbozzo di brano che stavamo sentendo alla fine di un’altra notte brava in un vicolo ventoso dall’altoparlante di un telefonino.Questo pezzo, mentre lo buttavo giù per la prima volta, aveva il titolo provvisorio Carveriana: come scordare la musica. Era un pezzo triste, sconsolato, ingiustificabile, melenso. Un articolo che più lo rileggevo e più mi dava fastidio, che con ogni parola mi faceva incazzare e sussultare “ma fai qualcosa, cristo”. Era anche un pezzo che mi sapeva di ripiego, di fuga in qualcosa di scontato. Mentre lo scrivevo, poi, c’è stata una fase di rilettura, di cesellatura, di tagli e aggiunte che ho continuato a modificare, rileggendo le frasi più e più volte fino a quando non suonavano giuste nella mia testa, di conversazioni ad alta voce con me stesso e con V., anima benedetta, per tirarmi fuori dalle putride paludi in cui mi andavo inesorabilmente a cacciare. Ora, mentre lo rileggo, sento di avere scritto qualcosa che forse è facile, forse è ovvio, ma che se lo leggo suona bene. Questo è il primo passo da fare. Penso che a questo punto mi tocchi sgranchirmi le dita e rimettermi a suonare.