LA MIA VITA E FABRIZIO DE ANDRÉ

Come molte altre persone sono figlio di genitori poco istruiti, figli a loro volta di genitori ancor meno istruiti. La mia famiglia è nata nella povertà, da cui è uscita con fatica ritagliandosi poco a poco un angoletto di abbienza durata a malapena un decennio – vari problemi ci hanno infine spinto in quella parte bassa del ceto medio dove ti senti in colpa a lamentarti, anche se le ragioni ci sarebbero. Comprendere la natura della povertà significa riconoscere la sua capacità di depositarsi sopra ogni azione e pensiero come polvere finissima, che si accumula formando nel tempo una patina sempre più difficoltosa da grattar via. A differenza di mia madre e mio padre io non ho mai conosciuto la miseria, ma proprio per questo ho grande familiarità con la paura della miseria, il terrore di tornare in uno stato dove ogni cosa data ormai per scontata diventa di nuovo difficile. Questo limbo ansiogeno in cui ho vissuto buona parte della mia vita, e che non si è ancora del tutto dissipato, viene descritto magistralmente ne La Canzone del Padre di Fabrizio De André, uno dei brani migliori di uno dei suoi dischi migliori, e di conseguenza uno dei brani migliori della canzone d’autore tutta. Capire i problemi di classi sociali a te estranee può sembrare facile, ma ciò è vero solo per un livello superficiale di comprensione: ci sono tanti piccoli riti, tante azioni e situazioni il cui valore naturalmente sfugge a chi non le ha vissute. Il tuo posto nella società determina le tue aspirazioni, i tuoi ideali, i tuoi sentimenti e il modo in cui li razionalizzi; è troppo pretendere di riconoscerti profondamente nell’esperienza di una persona la cui normalità è diversa dalla tua. I grandi artisti sono però capaci di descrivere la condizione umana con un linguaggio che trascende barriere ordinariamente invalicabili, utilizzando le loro opere come conduttori tramite i quali far viaggiare un senso di identificazione verso squarci di vita diversi dai nostri. Nella parabola di fervore, disillusione, rabbia e redenzione che è Storia di un impiegato, Faber parla della sua contemporaneità veicolando tramite le esperienze e i pensieri di un singolo individuo una grande quantità di tematiche: c’è la sua coscienza sociale e politica in bella mostra (sicuramente turbata dal clima degli anni di piombo), ma dietro si vedono le luci neanche troppo soffuse di una giostra che danza tra cinica rassegnazione e indomita speranza, due emozioni che è impossibile non provare quando si tenta di sondare lo spirito del popolo italiano. Il cantautore genovese si disse deluso della riuscita di Storia di un impiegato, affermando in un’intervista rilasciata alla Domenica del Corriere qualche mese dopo la pubblicazione: 

«La “Storia di un impiegato” l’abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi. »  

Se il suo obiettivo era davvero principalmente comunicativo, è legittimo o almeno comprensibile che un disco così denso di figure retoriche, a metà tra il sogno e la veglia, possa essergli apparso un prodotto imperfetto; per l’idea di De André che mi sono fatto negli anni – idea tutt’altro che immutabile, sia ben chiaro – mi sembra però che nella paura di accorgersi un giorno di aver tradito o rinnegato la classe popolare, egli abbia finito spesso per romanticizzare eccessivamente la condizione in cui versa la povera gente. Privilegio significa tante cose: privilegio di essere istruito, di non dover sprecare tempo a escogitare strategie per arrivare alla fine del mese, di poter attendere migliori opportunità e conseguentemente di utilizzare il tempo risparmiato e le conoscenze acquisite per godere, tra le altre cose, di espressioni artistiche più raffinate. Pertanto, se si vogliono massimizzare comunicabilità e chiarezza bisogna molto spesso fare compromessi importanti sulla profondità e la tridimensionalità del materiale – sono quindi contento che De André abbia “fallito” sotto questo punto di vista. Guardando l’intero corpus artistico di Faber si capisce che arrivare a un corretto bilanciamento nella rappresentazione della classe popolare è un’impresa delicatissima: da un lato celebrarla trascurandone i difetti, specie in opere che non sono indirizzate a quella stessa classe, rischia di portare a una strana declinazione del mito del buon selvaggio davvero disdicevole; dall’altro, avere rispetto per il popolo è fondamentale, e pertanto a volte risulta necessario mettere da parte tutta una serie di crude verità. Soppesando quanto profondamente Storia di un impiegato sia riuscito a permeare la coscienza popolare italiana e quante poche approssimazioni si sia permesso nel mettere a nudo emozioni scomode e complesse, direi che De André è stato troppo severo con sé stesso. 

Al netto di queste considerazioni, in un momento vitale in cui percepisco la mia classe sociale di appartenenza quasi come una casta inferiore, voglio spendere una manciata di parole per cercare di descrivere quanto sublime sia la scrittura di Fabrizio De André. Noi italiani ci fregiamo della nostra canzone d’autore, ma ai miei occhi tra tutti i parolieri del nostro paese soltanto Faber riesce a raggiungere le vette assolute di lirismo che all’estero posso trovare in Leonard Cohen o Bob Dylan. Descrivere puntualmente il motivo di questa mia grande considerazione è forse impossibile, poiché abbandonerei ben presto ogni pretesa di oggettività scadendo in una semplice eulogia; la via più efficace che riesco a pensare è quindi portare un esempio ricollegandomi con la problematica esposta in precedenza, ossia la descrizione efficace del ceto medio-basso a cui appartengo. La sopracitata Canzone del Padre è una digressione a tinte oniriche in cui l’impiegato protagonista viene imprigionato: la sua insoddisfazione per il proprio stile di vita era già stata espressa in precedenza (La Bomba in Testa), ma quelle erano rimuginazioni lucide, per quanto ossessive. La guerra dell’impiegato è ancora combattuta dentro i confini della sua psiche – ecco che egli, colpevole delle sue pulsioni ai danni del sistema, viene condannato dalla sua stessa coscienza. La pena non è altro che l’arrendersi alla perpetuazione del sistema stesso, scontata vivendo la vita di suo padre, o meglio, la vita che l’impiegato ha visto suo padre vivere. Questa distinzione è importante: se le azioni sono le stesse, i sentimenti e le ragioni dietro tali azioni sottintendono una consapevolezza diversa, che illumina tutto il patetismo di quella condizione. Nel narrarlo De André procede per immagini potentissime, cristallizzando le sorti delle persone attorno all’impiegato, quasi fossero figure di un enorme affresco raffigurante un popolo di sconfitti. All’interno di questo splendido testo, un passaggio in particolare mi è sempre rimasto marchiato a fuoco in mente:

E i miei alibi prendono fuoco
Il Guttuso ancora da autenticare
Ora le fiamme mi avvolgono il letto
Questi i sogni che non fanno svegliare

Questi quattro versi contengono un mondo. I meno abbienti, per quanto la retorica populista cerchi a volte di nasconderlo, sono nient’altro che i perdenti della società capitalista, e pagano ogni giorno per questa sconfitta. Il senso di colpa che l’impiegato prova nel guardare al futuro incerto dei propri figli crea una pesantezza che diventa solo più schiacciante col passare del tempo, arrivando a un punto critico davanti al quale ogni giustificazione viene meno; eppure, per una persona costretta in una quotidianità senza via d’uscita, obbligata a occupare una posizione inadeguata, troppo stanca per inseguire miglioramenti che potrebbero magari portare a una via di fuga da una vita di privazioni, il gioco è truccato fin dal principio. Adesso, come cinquant’anni fa, la mia e innumerevoli altre famiglie si aggrappano quindi alla fortuna, a un deus ex machina che possa rompere la logica opprimente di ogni giorno, secondo la quale i perdenti continueranno eternamente a perdere. In camera di mia madre è ancora oggi appeso un vecchio quadretto di una natura morta; mio padre diceva che era stato fatto da un amico di famiglia dei suoi genitori, e io in vari momenti di tristezza ho fantasticato sul portarlo da un critico d’arte per scoprire che valeva una fortuna. La sensazione di struggente familiarità che accompagna questo passaggio e le sue naturali conseguenze vengono perfettamente inquadrate dal cantautore genovese nei brani successivi: il disperato tentativo di rottura dalla quotidianità tramite un gesto dissennato e ridicolo (Il Bombarolo) poi la costruzione di un paradiso artificiale (Nella Mia Ora di Libertà), dove la coscienza di classe e la fiducia nella collettività si dimostrano gli unici mezzi per sovvertire le regole del gioco. 

Al contrario della stragrande maggioranza dei cantautori, che si limitano spesso a scegliere se parlare della realtà o raccontare una storia, Fabrizio De André si dimostra capace di intersercare questi due approcci per formare testi al contempo personalissimi e universali, che a distanza di decenni rimangono dolorosa testimonianza dell’immutabilità di alcune ingiustizie e insieme preziosi compagni insieme ai quali attendere un dovuto riscatto. Alla soglia dei miei trent’anni, con un senso di terrore per il futuro alimentato da ogni possibile mezzo di comunicazione, l’epilogo corale di Storia di un Impiegato risuona dentro di me con una potenza indescrivibile:

Venite adesso alla prigione
State a sentire sulla porta
La nostra ultima canzone
Che vi ripete un’altra volta
Per quanto voi vi crediate assolti
Siete per sempre coinvolti
Per quanto voi vi crediate assolti
Siete per sempre coinvolti

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David Cappuccini
David Cappuccini