“COSA SIGNIFICA E QUANTO CONTA PER VOI OGGI UNA RECENSIONE?”

Articolo lungo, prendetevi una tassoni e due cracker. Se volete passare direttamente alla ciccia vi lasciamo un bell’indice qui in cima: in bocca al lupo!


Introduzione

L’attuale mondo del giornalismo, di per sé, è in crisi da anni. Vediamo decine e decine di paywall sui siti dei grandi giornali, qualcuno nasce direttamente nel web e cerca di mettere parte dei suoi servizi a pagamento, altri addirittura recuperano i fondi su piattaforme come Patreon. Il settore è devastato da una medialità totalmente diversa da quella di un giornale tradizionale, e la professione del giornalista classico, oggi “vecchia”, viene continuamente messa in discussione da algoritmi e grandi masse. La musica è probabilmente uno dei settori meno vocali nei confronti di questo problema (se gli altri settori hanno Repubblica e Il Giornale come punto di riferimento è comprensibile), ma è sicuramente uno dei più colpiti. Non solo scrivere di musica oggi sembra un lavoro automaticamente non retribuito: scrivere di musica oggi sembra pure un lavoro automaticamente non cagato. E non parlo del nostro sito, parlo proprio delle grandi piattaforme, da cui escono lavori – per carità, di qualità discutibile – che però vedono sempre la potenza di fuoco del proprio canale spegnersi in un gemito: la recensione X del disco Y dell’artista Z di solito è condivisa, commentata, apprezzata, solamente dalla mamma e dal papà di Z, dal fonico e dal grafico di Y, dalla morosa dello scrittore di X. Forse che non abbia più senso scrivere di musica, quantomeno in questo modo? Per fortuna abbiamo un modo di farci un’idea, anche bella concreta, su quale sia la situazione attuale tra pubblico e critica musicale.


Il problema

Il post di Stefano Solventi

Qualche giorno fa, sul suo profilo Facebook, Stefano Solventi, un giornalista con un curriculum di lungo corso (collaboratore del Mucchio dal 2001 al 2018, scrittore ed editore per Sentireascoltare dal 2002, sigillo di garanzia dal MEI, e così via), ha deciso di ingaggiare la sua friendlist con una domanda ingombrante che è riuscita a far scaturire centinaia di risposte e una discussione nel merito della critica e della scrittura musicale di un’estensione con cui è difficile confrontarsi in epoca social. La domanda, semplice e diretta: “Cosa significa e quanto conta per voi, oggi, una recensione?”. Il post ha ottenuto circa 200 risposte da lettori e simpatizzanti di Solventi; non è un unicum (anche Ondarock e la stessa pagina di Sentireascoltare tendono a ingaggiare il proprio pubblico più volte con domande di questo genere), ma il profilo da cui è stata lanciata, la fauna che lo popola e l’argomento della domanda rendono i dettagli dell’interazione un po’ più succosi dell’ennesimo “Migliori batteristi rock?” sparato da OR, commentato da chiunque e dalla mamma di chiunque. Mi sono reso conto immediatamente di trovarmi davanti a un sondaggio già scritto su di un tema che interessa molto a tutta la nostra redazione, e ho deciso di chiedere il permesso all’autore di usare i dati raccolti per costruire questo longform che adesso state leggendo. Prima di gettarci nelle nostre analisi, dunque, è meglio fare una breve panoramica di quali nomi abbiano commentato il post in questione.

Chi ha commentato il post?

La friendlist di Solventi è senza ombra di dubbio un network di professionisti e dilettanti nel campo dell’industria dell’intrattenimento musicale: è difficile che chi ha commentato non sia un musicista, un critico, un giornalista, un venditore di dischi, un manager o addirittura un dipendente di una major. Nomi significativi che si possono recuperare con uno scrolling veloce: Umberto Palazzo (Massimo Volume, Santo Niente), Carlo Bordone (giornalista, docente, copywriter, in generale una penna di lusso). Alessandro Besselva Averame (redattore del Mucchio, Rumore), Claudio Magnani (product manager alla Universal), e in generale un enorme bastimento di colleghi da Kalporz, TheNewNoise, ARTRIBUNE, Indieforbunnies, Soundwall, Ondarock e così via. Questa demografica è una lama a doppio taglio, ça va sans dire: da un lato gli approfondimenti di chi è del mestiere e di chi maneggia la musica e la parola per la musica nel quotidiano sono sicuramente più centrati di quelli di un pubblico esteso, dall’altro lato tutto quanto il discorso rischia di infittirsi in una gigantesca camera d’eco di personaggi che si raccontano, più o meno, cose simili tra loro. Rischiamo di perdere in capacità di analisi del medium contemporaneo per concentrarci sulle risposte dagli addetti ai lavori. Del resto il post di Solventi non è assolutamente nato con l’intento di fare una ricerca di mercato e il presente articolo, che vuole invece ricavare più delle risposte individuali, deve necessariamente confrontarsi con questi dati qui: tenete presente, dunque, che tutto ciò che leggerete è in larga maggioranza partorito da cosiddetti ascoltatori forti, e non dalla ben più ampia fascia degli ascoltatori medi o occasionali. Ah, non dimentichiamoci che quasi tutti i commentatori hanno dai 30 ai 60 anni: perché la musica, lo sappiamo, è una roba da anziani. A parte gli scherzi, purtroppo la fascia dai 15 ai 29 anni è molto poco rappresentata. Speriamo di poterla valutare con un’indagine futura di qualche tipo. 

I dati a disposizione

Ho scelto di suddividere ogni commento al post originale di Stefano Solventi in un diagramma a due dimensioni: sull’asse orizzontale ho ricavato l’atteggiamento generale del commento nei confronti dello strumento della recensione, che si può ridurre a “Positivo”, “Neutro” o “Negativo”, mentre sull’asse verticale abbiamo tutti quegli spunti specifici che esulano dal tono del commento, potremmo parlare qui di contenuto effettivo, della risposta costruttiva alla domanda originale. Ogni commento, quindi, oltre a contare per uno dei tre atteggiamenti, aumenta di 1 il numero di ognuno dei contenuti che ho messo nell’asse verticale e che è presente in più di 2-3 commenti. I risultati ottenuti, pur tenendo a mente che la maggior parte di chi risponde è un addetto ai lavori, sono decisamente interessanti. Salta subito all’occhio una certa preponderanza di alcuni dei contenuti fondamentali sull’utilità di una recensione (soprattutto per le risposte: Dipende da chi scrive e Serve a confrontarsi/filtrare) e in secondo luogo uno svantaggio dei giudizi positivi se confrontati con la somma dei giudizi neutri e negativi. Insomma, nel contesto professionistico è più facile avere un’opinione neutra o negativa della recensione musicale che averne una positiva: questa cosa fa riflettere, e probabilmente è alla base di quello stesso dubbio che ha spinto l’autore del post ad interrogare la propria friendlist. Direi che è arrivato il momento di porre fine alle presentazioni e immergerci in questi dati raccolti. Andremo a guardare direttamente nei contenuti, guardando come si interpolano con i giudizi di valore e presentando ogni tipo di contenuto con uno dei post più interessanti o azzeccati che abbiano scelto di veicolare quello specifico messaggio. I nostri commenti cominceranno ad arrivare dato dopo dato, ma è in fondo all’articolo che troverete una valutazione complessiva su tutta la vicenda.

Cominciamo.


Le risposte

"Preferisco altro"

Apriamo con il lunghissimo post di Carlo Bordone, che in sé unisce molti dei contenuti che vedremo ancora più avanti, ma che più di tutti si concentra su una tematica che non è particolarmente affrontata: Bordone, allo strumento della recensione, preferisce altro. Vediamo che è uno spunto presente in pochi dei commenti al post originale, prevedibilmente di segno negativo o neutro, ma il parere scafato di chi commenta è netto, sugli scudi: le recensioni sono le cose che lo annoiano e affaticano di più in assoluto, senza grandi differenze, non si salvano né quelle da 4 righe del cartaceo né i midform di Pitchfork. Però Bordone lascia uno spunto fondamentale: il giornalismo musicale può ancora essere interessante; lui mette la firma sullo specifico strumento dell’intervista, il confronto diretto con la band, ma fa anche un accenno al longform di qualità, all’analisi più tirata e alla monografia. Tutti quanti vogliono una recensione qualitativa, ma ho scelto di prendere questo post come esempio di chi vorrebbe che il giornalismo musicale si concentrasse su altre forme: interviste, podcast, reportage e così via.

Come dargli torto? Ciò che stranisce più di questi numeri è la sporadicità dei commenti a riguardo: da tempo la maggior parte dei social e dei media di consumo quotidiano non sono più legati allo strumento della singola recensione. A braccio, andando a guardare le piattaforme in cui si fa critica, possiamo individuare due categorie principali: da un lato i grandi aggregatori di dati (Metacritic, Steam, RYM/IMDB, Tripadvisor, Amazon) che tendono a rimandare al richiedente i risultati medi che il prodotto analizzato ha generato e tutte le query del caso; dall’altro le zine e i canali specializzati (che siano su Youtube, su un giornale, in un podcast) che tendono a dedicarsi ad approfondimenti, reaction, reportage, interviste e compagnia cantante. La recensione musicale vive in questo strano spazio liminale che si conserva nella sua piccolezza tra un video-essay di 1h30 e una stellinata veloce su google tra il 4 e il 5/5: ci torneremo sicuramente. Va da sé che chiunque abbia ristrutturato i propri processi cognitivi in questo genere di medialità si trova piuttosto confuso davanti a una recensione vecchio stampo: che bisogna fare? Guardiamo il voto? Approfondiamo il punto di vista dell’autore? Cerchiamo di districarci tra mille aggettivi che da soli non fanno una descrizione? C’è un mondo al di là della forma-recensione, e lo sappiamo tutti bene. Su Livore ci concentriamo molto sui nostri longform, che reputiamo il fiore all’occhiello del lavoro della redazione. Però in questa ricerca di approfondimento, in questa scrittura informativa con spunti di secondo e terz’ordine per ogni pezzo musicale si perde un fattore di giornalismo che fa dei nostri testi delle scritture croccanti e filtranti: ossia la critica in sé e per sé, la capacità di discernere cos’è buono da cosa non lo è (dal punto di vista dell’autore) - e ancora di più, l’equivalente in musica di quella branca enorme del pensiero che è la critica letteraria. Il panorama è ampio, ma può ampliarsi ancora di più. Ma vale la pena dimenticarsi di quello che può portare a casa una bella recensione? Non lo so.

"Dipende dal voto"

Questa è a mani basse la più strana delle opinioni - o meglio, posso anche comprenderla a naso, ma è difficile contestualizzarla in un discorso più ampio sulla critica e sul giornalismo musicale. Leggere le recensioni solo quando si tratta di stroncature poderose o best new music: è chiaro che questi sono i pezzi che tirano di più, e ci mancherebbe altro, più forte è un giudizio più tende a essere succosa la sua esposizione. Però è una risposta che ha senso, nei confronti del post originale di Solventi? Evidentemente sì, perché Stefano Ottavio non è l’unico a fare un discorso di questo tipo: del paio di centinaia di commentatori ce ne sono quattro o cinque che si concentrano sul voto al disco, lo considerano solo se è molto di fuori la deviazione standard e il loro atteggiamento generale nei confronti dello strumento-recensione è neutro o negativo.

Sono combattuto su quest’argomento: sembra una scemata, ma sarei intellettualmente disonesto a cassare totalmente la pratica. Anche io in tante riviste, soprattutto in quelle di cui mi fido di meno, tendo a filtrare direttamente sui dischi che sono promossi a pieni voti (e a farmi due domande sui pochi dischi bocciati): fa parte del processo di filtraggio che in molti citeranno più avanti, ma vale la pena fare una riflessione su di un punto di vista così tranchant. Al netto dei grandissimi siti e degli aggregatori, chi scrive e pubblica una recensione sta già filtrando decine e decine di ascolti: anche se la recensione dà una sufficienza stitica, anche se sembra che non ci sia niente da dire a riguardo. Anzi, spesse volte i dischi promossi con voti più alti sono semplicemente uscite di cristo che è necessario passare dai megafoni, mentre i dischi con voti mediani sono album su cui si ha qualcosa di particolare da dire, ci sono delle nuance da esporre, un concetto da portare a casa. Probabilmente chi legge solo recensioni di voti altissimi o bassissimi non ha questi interessi e, comprensibilmente, ricercano in maniera più impulsiva ed efficiente. Ma se il pubblico è abituato ad acchiappare solo gli 8 e i 4 e la maggior parte dei dischi di cui una zine parla sono tra il 6 e il 7 sapete come va a finire?

"Non si stronca più"

Se la precedente era la take più stramba (forse la più schietta) questa è indubbiamente una delle lamentele più condivise nel contesto della critica contemporanea: la facciamo passare a tutti quanti, siamo tutti compagnucci e dei compagnucci non bisogna parlar male. Per alcuni commentatori l’equivalente attuale della stroncatura è il non parlare di un disco, addirittura, come per il succitato Nicola Gervasini (Roots Highway, Tomtomrock). Chiaramente sulla critica alla critica tutti gli atteggiamenti e i toni rientrano nello spettro del negativo, e il concetto della stroncatura mancata è, sin da almeno gli anni ‘00, il o tempora o mores più rilanciato nel campo del web. I giornali e le zine continuano a non stroncare, in effetti, e chi viene invitato a mettere lo strumento-recensione sul banco degli imputati continua a chiedere la cosa più basilare del mondo: che la critica sia anche critica

Uno dei discorsi più affascinanti e azzeccati sulla critica non deriva da un tomo di Adorno ma da un film della Pixar: è il monologo di Anton Ego, sul finale di Ratatouille. 

In many ways, the work of a critic is easy. We risk very little, yet enjoy a position over those who offer up their work and their selves to our judgment. We thrive on negative criticism, which is fun to write and to read. But the bitter truth we critics must face is that, in the grand scheme of things, the average piece of junk is probably more meaningful than our criticism designating it so. But there are times when a critic truly risks something, and that is in the discovery and defense of the new. The world is often unkind to new talent, new creations. The new needs friends.

La scena in cui è recitato è commovente, ma a soffermarci su di un piccolo elemento è impossibile non notare un’incongruenza con lo stato dell’arte della critica italiana e anglofona. We thrive on negative criticism, which is fun to write and to read. Questa riga, che non sfigura nella Parigi degli anni ‘60, oggi sembra particolarmente fuori fuoco. Le stroncature sono sicuramente divertenti da scrivere, ma la critica non prospera più su di esse (a guardare le vicende di Dissapore con Bottura si direbbe che la regola non si applichi neanche alla stessa critica culinaria) e in qualche modo le stroncature non sono neanche più divertenti da leggere. O, almeno, questo è quello che ci dicono i fatti: ci sono luoghi dell’industria del giornalismo musicale totalmente simbiotici nei confronti dell’industria di produzione e promozione, così incatenati da rendere impossibile esprimere determinati punti di vista senza perdere ricavi. E, siccome si sta parlando di grande industria dell’intrattenimento, va da sé che in un drammatico effetto trickle-down questa maniera di trattare la musica a cui siamo vicini diventa egemonica: per avere successo e non avere problemi i giornali e i critici di media fascia tendono a vedere il lato positivo, per proseguire nelle collaborazioni i piccoli giornali devono evolversi su dei toni in larga parte entusiastici e solari. Ma il pubblico si costruisce e si mantiene con toni sgargianti e con un costante apprezzamento: a nessuno piace vedere la merda sui propri beniamini. Nel dubbio vanno promossi tutti, e la selezione naturale premia tutte le testate più generiche e promozionali, lasciando nello scantinato quei pochi che scelgono scientemente un approccio più negativo e per certi versi destruens. Il problema diventa rapidamente irrisolvibile: per arrivare a certi numeri bisogna scendere a certi altri compromessi, e chi lavora nel settore lo sa. Ma se è da più di 15-20 anni che le cose vanno così, se persino un sito che si chiama Dissapore diventa l’ennesimo Gambero Rosso, c’è spazio per chi sceglie il negativo? O è meglio concentrarsi su un’ottima scrittura positiva e condividere l’entusiasmo con i lettori, a costo di perdere in differenziazione? Questo è un dilemma. 

"Serve agli artisti emergenti"

Dall’altro lato dello spettro rispetto al non si stronca più, un’opinione sbandierata solamente da chi ha rispetto e apprezzamento per lo strumento-recensione è questa: la recensione serve agli artisti emergenti, serve per promuovere, per far conoscere una musica che altrimenti rimarrebbe nelle demo - le recensioni sono aria fresca per i ragazzi e per il clima culturale del nostro paese, in cui la musica necessita di più megafoni possibile. La versione qui riportata di Andrea Scarso (DJ) è probabilmente la più solida e meno marchettara della decina di commenti emersi sotto al post di Solventi: recensire un gruppo, soprattutto se il pezzo è di buona scrittura e non si limita al copypaste del presskit, è un profondo atto di rispetto e un investimento del proprio tempo che va a sua volta rispettato. La recensione serve a oliare i meccanismi della promozione musicale, delle venue, del merch e in generale della scena italiana (nel nostro caso). Bene avere questo punto di vista se, come Scarso, lo accompagniamo all’accettazione delle eventuali critiche o addirittura stroncature. Ma chi pretende che la recensione serva all’emergente la pensa sempre così?

Personalmente, negli anni in cui scrivevamo per lo più di musica emergente, ci siamo resi conto di aver fatto dei bei pastrocchi a star dietro a chi elemosinava recensioni a buon mercato. Abbiamo fatto stare male persone che volevano solo un po’ di promozione - spesso ragazze e ragazzi molto giovani; abbiamo convinto alcuni uffici stampa che eravamo un megafono assicurato (e di conseguenza ci siamo sorbiti litrate di merda); infine abbiamo legato con personaggi che non erano poi così tanto sulla nostra stessa lunghezza d’onda. È ovvio che una recensione positiva sulla piattaforma giusta può fare tanto, ma penso che la promozione al basso livello funzioni su tutti altri canali: altrimenti non si spiegherebbe il successo strepitoso di band che non hanno mai avuto chissà che seguito all’interno dei circuiti critici e non promozionali. Adesso tendiamo a evitare di trattare emergenti se non sono all’altezza di tutto il resto della musica che recensiamo (o se ha senso farlo per altri motivi), al massimo li trovate in giro in dei promo in area news o sui nostri canali social. Quello può servire davvero a chi si sta avventurando nel mondo della musica, non una critica consapevole sparata in prima pagina. Va bene che il primo caricatore è sempre per la croce rossa, ma si rischia spesso di far esplodere nel nido qualcuno che tra qualche anno può dare un bel contributo al settore culturale del nostro paese.

"Serve ad informarsi sulle nuove uscite"

“Come si fa a scoprire musica nuova?” è una domanda a cui abbiamo risposto qualche mese fa. Una delle risposte, se andate a rileggere l’articolo, consisteva nel consigliare ai nostri lettori di costruire una lista di siti affidabili su cui informarsi non tanto per saggiare la qualità dei loro testi o per formare le proprie opinioni e i propri futuri giudizi di valore, ma proprio per avere i radar accesi nel contesto della musica contemporanea, quella che sta uscendo in questo momento. Chiaramente per arrivare alla fonte effettiva della musica nuova è più facile passare per altri canali (le etichette, le pagine social delle band, bandcamp e soundcloud…), ma consultare siti di recensioni è un buon compromesso per farsi un’infarinatura a metà strada - oppure recuperare dischi che per qualche motivo non sono arrivati al nostro orecchio. Un gioco che vale la candela anche se il sito che stiamo leggendo ha recensioni veramente brutte nello stile (in Italia penso a Ondarock) oppure veramente telegrafiche e poco approfondite (in Italia penso a Sentireascoltare). La percentuale di persone che usa le riviste e le zine per informarsi sullo stato dell’arte della musica contemporanea è, sorprendentemente, piuttosto bassa: si tratta di una quindicina di persone (per lo più atteggiate positivamente o neutralmente nei confronti delle recensioni) su duecento. Il dato potrebbe derivare dalla demografica di addetti ai lavori, quindi più abituati a scavare più a fondo tra le uscite. In effetti, la parola chiave che lampeggia di più in questo tipo di risposta non è più informarsi, ma filtrare. Vedremo più avanti come cambiano le percentuali prendendo questo tipo di attività in esame, ma era d’uopo citare il commento di Max Trisotto (Sick Tamburo) che, da solo, anticipa la motivazione per cui la funzione meramente informativa delle recensioni è in piena decadenza.

Sempre nello stesso articolo sullo scoprire musica nuova, però, abbiamo un paragrafo intero dedicato all’evitare le playlist automatiche di Spotify e di Youtube. Su Livore cerchiamo sempre di portare uscite fresche, spingere roba non sempre all’attenzione del grande pubblico e tendiamo a favoreggiare il valore informativo della recensione - non solo nel contesto dei nomi dei dischi, ma anche nel riguardo di cosa viene detto all’interno dello scritto: nomi, date, confronti con altri giornali, interviste, situazioni. La politica redazionale è quella di portare uno specchio su realtà poco conosciute ogni volta che ci mettiamo alla penna, sia nei longform su scene inculate che nelle critiche ai dischi più chiacchierati. Quello che allora era un’enumerazione delle nuove uscite oggi è stato trasformato dalle zine più competenti in un approfondimento costante su nuove scene, nuovi concetti, nuovi problemi. Non siamo certo gli unici: è da almeno un paio d’anni che Pitchfork lavora così; ma anche ResidentAdvisor, Fact, The Wire… In Italia la missione di informare e intrattenere solitamente si appiattisce sulla seconda parte, e i contenuti degradano di 500 parole in 500 parole. Questo ci lascia un bellissimo margine di miglioramento da esplorare, no? Saremmo tutti quanti dei pionieri, se tutti vedessero quali dorate prospettive concede il giornalismo musicale contemporaneo a livello di possibilità di indagine. Ma le cose non stanno così, e molti scrittori si incastrano nel reame della forma, rimanendo soffocati e - quel che è peggio - vuoti.

"Conta se è un bel prodotto letterario"

Il commento di Averame è, da sé, a mio avviso, un buon esempio di questa regola richiesta alla recensione. Si legge con affetto e curiosità, lascia attaccati allo schermo: cosa vuole raccontarci? Vuole raccontarci che una recensione conta anche nel momento in cui il testo è capace di esprimere la personalità dell’autore, di non essere banale, in generale di essere un buon prodotto letterario, un bel saggio: qualcosa che possa anelare a un posto di grazia in area Pulitzer. Averame si spinge addirittura oltre: le informazioni e l’entusiasmo sono meno interessanti di una recensione messa in bella forma, di un’argomentazione con un filo logico spesso e ben visibile. Qui il commento va abbastanza controcorrente (molti accusano la scrittura musicale di una certa tronfiezza e in generale di troppe parole spese in senso descrittivo), ma il fulcro a fondamento della richiesta è quello: la recensione deve essere bella, ben scritta, per certi versi perfino artistica! In giro per il post c’è chi “le legge come racconti”, chi crede che facciano un genere letterario a sé, chi le vede come “un minuto di buona lettura”: una truppa di esteti ed estimatori della critica musicale nero su bianco, che raggiungono l’8% dei commentatori di Solventi. Un risultato che, dal nostro punto di vista, è già sorprendente.

Sorprendente poiché, come è facile immaginare dal tono dell’ultimo paragrafo, nessuno di noi è particolarmente fan della scrittura narrativa o imbellettata nel contesto della critica e del giornalismo. Sicuramente c’è chi può e chi non può, ma il problema è che chi può sa che se può non deve, e chi non può non sa che non può. Da queste righe avrete capito sicuramente che io non può. (“Conosco la metà di voi soltanto a metà…”). Secondo me bisognerebbe fare pace con il fatto che la critica musicale è una branca del giornalismo, che sia online o cartaceo: lo stesso giornalismo che fa cadere le braccia quando è velleitario e poetico, lo stesso giornalismo che vale la pena leggere quando è accurato e brillante. Se si è capaci di costruire un discorso con una bella identità, un testo piacevole da leggere e scorrevole, senza allo stesso tempo perdere in acutezza, ragionamento o esplicatività, ben venga. Ma mi sembra che i dati ci dicano altro e che la maggior parte delle recensioni italiane rifuggano senza sosta quei discorsi capaci di arricchire per riflessività o fattività, nascondendosi in florilegi e racconti che provano semplicemente a mettere il disco nero su bianco, provando a spalmarne le melodie e i timbri sulla pagina, come se fosse possibile passare a parole l’immateriale musicalità dell’opera descritta. A volte è l’unico modo di portare a casa quelle 500 parole: forse a quel punto è meglio lasciarle cadere, far parlare qualcun altro oppure evitare di fare contenuto finché non si ha qualcosa da dire.

"Serve per approfondimenti sui temi: servirebbero recensioni più qualitative"

Il primo gradino del podio è occupato da un punto di vista che si allinea per certi versi con una delle opinioni che stavamo vedendo all’inizio: quella di chi allo strumento-recensione preferisce altro. I commenti che vorrebbero che le recensioni fossero più approfondite e qualitative di solito stanno pensando a un altro genere di giornalismo musicale, che non può consolidarsi unicamente nel format della recensione. Un conto è dedicarsi a una scrittura qualitativa, attenta alle fonti, informata sulle interviste e sulla storia della band, consapevole dei dettagli e del macrocosmo dentro al quale il disco può o potrebbe venire collocato. Tutt’altro conto è arrivare ad approfondire così tanto la recensione da farla diventare una monografia, un longform, un reportage, un libro. Per carità: noi siamo i primi a slargare le recensioni e a usarle come strumento per parlare di tutt’altro (a volte addirittura di altri dischi), però siamo ampiamente nell’eterodosso, e penso che chi richieda approfondimenti sui temi sia leggermente fuori tema confrontandosi con la domanda di Solventi. La sete per approfondimenti e per una scrittura più sostanziosa, corposa, con più informazioni a carico, è comunque ben presente in tanti dei commenti che abbiamo scorso, con una notevole rappresentanza anche in quelle risposte che sono atteggiate positivamente verso lo strumento-recensione. Il commento di Andrea Pazienza coglie nel segno con grandissima lucidità: per fare un lavoro del genere serve tempo, serve spazio. E forse non stiamo neanche più parlando di recensioni. Allora? 

È difficile non concordare quando si chiede un prodotto più qualitativo. Grazie al cazzo: vogliamo una vita più bella. Sappiamo anche che la quantità di scrittori di musica che vengono ripagati dal loro lavoro è risicata, spesso in freelance e sicuramente non come prima occupazione. Il tempo è quello che è, le risorse sono quelle che sono: chiunque lavora in questo campo potrà empatizzare con queste parole. Forse che le recensioni debbano veramente svanire nel nulla, lasciando spazio a tascabili di soli longform e saggi brevi come potrebbero essere TheVision o Not? In fondo il format tira, la gente non aspetta altro che perdere una decina di minuti ad ascoltare i rant di qualcuno su internet che si è impegnato davvero tanto a scrivere di un argomento. E i dischi a chi li lasciamo? Che ne facciamo dei dischi? Ma poi ci sono più, i dischi, in questo mare di mixtape, singoli, EP, collab, video, sound art, concerti, ospitate? Punto dopo punto, accompagnandoci ai pareri dei commentatori di Solventi, ci stiamo avvicinando al nocciolo della questione sollevata dalla domanda originaria: forse che sia necessario adeguarsi alla contemporaneità e spogliarci delle zavorre dello strumento-recensione? Controlliamo gli ultimi punti. 

"Serve a conoscere le valutazioni, confrontarsi con lo scrittore e/o filtrare"

Siamo arrivati alla risposta più scontata di tutto il database, un po’ perché racchiude diversi punti di vista piuttosto vaghi, un po’ perché rappresenta il grado 0 della funzione della recensione in epoca contemporanea: conoscere i giudizi di valori dati dalle testate a un disco, confrontare i propri pareri su di un disco già sentito con quelli di chi recensisce, oppure filtrare quel mare magnum di uscite con cui è difficile avere a che fare persino da ascoltatori forti, figuriamoci da semplici appassionati. È molto facile empatizzare con chi ha scelto di evidenziare questo trittico di attività ed è palese che quel quinto dei commentatori che hanno risposto in questo modo a Solventi siano quasi tutti atteggiati positivamente verso lo strumento-recensione: è perché tutti loro sono effettivamente a contatto costante e diretto con quello strumento. Al contrario di chi magari si lamenta che non si stronca più o di chi dalla recensione richiede un press-kit in seconda, chi usa le recensioni per confrontare i propri giudizi con i critici o filtrare le nuove uscite è solitamente un consumatore abituale del format, i cui contenuti sono - di fatto - scritti su misura proprio per questo tipo di utente.

Noi tendiamo a fruire le recensioni altrui in questo modo. Fanno parte del nostro siteroll da un lato, dall’altro ci piace sfottere chi ha scritto in modo scemo di dischi che abbiamo ascoltato attentamente. A volte, perfino, troviamo una penna che scrive cose sensate, tracciate in dei periodi ariosi da una mente vivace. Però chi si confronta con una recensione deve avere già la sua idea, la sua recensione in nuce sul disco in questione. Il suo pregiudizio, la sua voglia che si dica questo piuttosto che quest’altro. Chi vuole apprendere le valutazioni su di un’opera, generalmente, o ne sta costruendo una personale o ce l’ha già: stiamo parlando di una gigantesca minoranza dei lettori di una piattaforma di giornalismo. Non vado ad aprire la pagina della pallanuoto sulla Gazzetta, se non seguo la pallanuoto, d’altro canto. Ci avviciniamo a una domanda ancora più orrenda, tappiamoci il naso e buttiamoci: chi è che effettivamente segue la musica

Abbiamo citato Claudio Lancia qua sopra, probabilmente il commentatore che più di tutti descrive con chiarezza quali sono i processi mentali che affronta nel confrontarsi con una recensione di un collega. Un collega, difatti: dalle statistiche emerse da questa analisi la maggior parte di chi commenta in questo modo afferisce alla fascia degli ascoltatori forti o ancora più spesso alla fascia degli scrittori di musica, fascia che in questo caso ha una fazione decisamente maggioritaria in chi scrive di musica su internet. Che cosa traiamo da questa sommaria conclusione?

"Dipende da chi scrive"

La risposta più frequente tra gli addetti ai lavori può sembrare scontata, soprattutto per chi della lettura delle recensioni ne fa un hobby o uno strumento di lavoro. Ma in questo dataset il risultato è, almeno dal mio punto di vista, inatteso. L’osservazione più frequente tra tutte, presente in un quarto intero di tutte le interazioni che il post di Solventi ha ottenuto, è tanto semplice da raccontare quanto complessa da sviluppare: Dipende da chi scrive. Il dipende richiama un atteggiamento per lo più neutro o comunque bilanciato in favore dello strumento-recensione, che, a questo punto, mi sembra perdere del suo valore intrinseco. Alla fine la maggior parte degli scrittori e degli ascoltatori forti non sembra propendere per la lettura della recensione come format specifico o come strumento con secondi e terzi fini: si tratta di ricercare le opinioni di quelle persone che sappiamo essere fidate. Probabilmente chi cerca la penna dello Stefano Solventi di turno leggerebbe più facilmente un suo libro di cucina che la recensione di qualcun altro. Uno dei commenti più interessanti del post paragona i critici agli attuali influencer, e secondo me colpisce nel segno: un buon critico, fidato, è un amico che ti sta raccontando qualcosa. Se poi quello che ti racconta è la descrizione di un disco, qualcosa del suo campo, un pezzo su cui per qualche motivo è autorevole, hai più di un motivo per ascoltare le sue ciance. Tenendo sempre bene a mente che la demografica di questo insieme di dati si forma per lo più di addetti ai lavori, dovremmo comunque provare a ricercare la risposta a una domanda dovuta: quali sono le conseguenze di questo atteggiamento così diffuso nei confronti della critica musicale? 

Credo che la recensione perda la sua strumentalità, quello di cui si sta parlando dall’inizio dell’articolo, nel momento stesso in cui la consideriamo solamente a partire dal nome che firma. Vuol dire, all’atto pratico, che la recensione in sé come strumento d’indagine non vale più niente, siamo nella fase del suggerimento puro, del critico come influencer che potrebbe tranquillamente indicare un prodotto e farci finire tutti i suoi seguaci senza neanche approfondire o entrare nel merito. Certo, a volte si tratta di ricercare quelle recensioni che sappiamo essere stimolanti o formalmente accettabili (quella persona - di cui mi fido - scrive molto bene), ma a volte è molto più banale: so che quel critico ha i gusti simili ai miei, promuove un disco, mi fido e vado. Una dinamica che si avvicina molto di più al passaparola che alla condivisione di opinioni informate, analisi critiche, pezzi di letteratura. “L*i è un* grande” ha un significato molto più vicino a “L*i ha i gusti giusti” piuttosto che a “L*i sa scrivere”. Il disco a quel punto ha l’equivalente di una stella sulla Rossa, niente di più: questa, di nuovo, è promozione, non critica. È ascendente, non giornalismo. È un consiglio, non una recensione. Quindi questo è l’ultimo cul-de-sac in cui si finisce, quando si cerca di avere un buon influsso di letture sulla musica? Lo strumento-recensione, alla fine della fiera, è effettivamente dipendente in misura massiccia dal nome di chi la scrive e dall’impegno che ci mette chi la legge? Senza questi elementi non si può reggere a galla?

Pareri generici

C’è anche, semplicemente, una buona quantità di pareri generici sullo strumento-recensione che non siano composti in contenuti specifici. La maggior parte di questi sono rappresentati da risposte caustiche alla domanda di Solventi, come è facile vedere nel rassicurante commento di Magnani (che, ricordiamo, è import manager alla Universal); ma ci sono anche alcuni commenti genericamente positivi e varie opinioni che non era possibile riassumere in nessuno degli altri punti della lista che è emersa dai dati. Abbiamo deciso di citare alcuni commenti interessanti “fuori elenco” poco più sotto, per darvi degli spunti assolutamente divergenti dalla maggioranza e, a volte, portatori di intuizioni niente male. Le percentuali totali del post sono quelle che avete potuto vedere in apertura: il 45% dei commentatori ha un giudizio positivo dello strumento recensione. Il 31% ha un giudizio neutro o bilanciato, mentre il 22% ha un giudizio marcatamente negativo. Questi numeri, sempre, facendo riferimento a una platea di ascoltatori medio-forti e di addetti ai lavori. Che valutazioni possiamo trarre da questi numeri, considerato anche il volo d’uccello ricreato più sopra sui casi specifici? Sono numeri buoni, sono numeri cattivi?

Sono numeri tristi, ma considerando il percorso fatto fin qui sono anche numeri strani: ci si aspetterebbe un numero di giudizi positivi ben inferiore, se lo strumento-recensione fosse davvero così obsoleto e vincolato ad altre variabili come abbiamo analizzato sopra. Possiamo leggere il generico scetticismo verso le recensioni (quel 55% tra neutro e negativo) come un rigetto di alcune dinamiche contemporanee: per la SEO e per i social sarà anche positivo fare determinate manovre, ma all’end user reale (quello che apre il link) farà schifo trovarsi tempestato di recensioni troppo brevi, pezzi poco informati, quasi solo dischi dal 7 al 9 (per chi segna i voti), palesi marchette, sponsorizzazioni di emergenti di poco conto e così via. I conti in questo caso tornano, l’equilibrio qualitativo del giornalismo italiano e anglofono è molto traballante, quando non pietosamente collassato: è la maledizione del contenuto di qualità, che in epoca social deve essere filtrato, inciso e ricucito nel laboratorio del media management, dove tutti possono sognare di fare successo se si adeguano alla massa, anche le testate che in altre ere sarebbero stati bastioni di controcultura. Il dato fuori misura, dicevamo, non è tanto il 55% di scettici, ma il 45% di positivi. Forse possiamo concludere questa nostra analisi con una nota positiva: c’è qualcosa che la recensione, da sola, ha da offrire. A prescindere da chi scrive, a prescindere da chi legge. Proviamo ad accampare la nostra risposta nella conclusione di questo articolo, ma prima di fiondarci nelle valutazioni personali vale la pena farvi vedere alcuni commenti interessanti che volevamo menzionare anche se non si associano a nessuna delle tipologie di contenuti che abbiamo visto più sopra.

Menzioni onorevoli

Del mirabolante commento di Claudio Milano ci piace in primo luogo l'apprezzamento delle bestemmie altrui e l'evidente sportività e affetto con cui prende le stroncature che riceve.
Del commento di Luigi Porto ci piace tantissimo la metafora della scena degli addetti ai lavori come unico grande gruppo d'ascolto che contribuisce ad un unico grande ufficio stampa. Per le uscite italiane ho raramente letto una similitudine più azzeccata.
Del commento di Simona Sammicheli ci piace il concetto di linea editoriale, che se associato con il concetto di critica militante può dare vita a dei think tank che possono cambiare la storia della musica.
Del commento di Dario Margeli ci piace che l'ha presa bene.

Conclusioni

Cosa significa e quanto conta per il pubblico, oggi, una recensione?

Al netto delle risposte particolari che abbiamo appena scorso sembrerebbe che il pubblico di Solventi sia orientato verso un prodotto ben specifico: una recensione di qualità, informativa, scritta da una penna fidata e stimolante nelle sue riflessioni. Qui il grande tallone d’achille di questa pseudo-ricerca comincia a pulsare dolorosamente: la composizione di questa recensione ideale soffre tanto della demografica del post, composta per lo più da chi maneggia gli argomenti quotidianamente o settimanalmente. 

Per quanto concerne il rapporto tra il grande pubblico e lo strumento-recensione, più in generale lo strumento-critica, possiamo partire citando parola per parola un paio di passi di un ottimo articolo di Francesco Farabegoli su quella che viene definita critica militante, quella “che opera nel presente e reclama un posto nel dibattito sull’estetica”. I dubbi che lascia Farabegoli risuonano con una grande potenza all’interno dell’immaginario di chi li legge: 

“Rotten Tomatoes mi permette, seduto sul mio divano e senza spendere un euro, di leggere 98 recensioni di Shining, pubblicate all’epoca del film o negli anni seguenti, alcune delle quali scritte da top critics (gente di reputazione inossidabile, Roger Ebert e simili per capirci, che viene indicizzata nel sito in una categoria a parte). Ci avete mai provato? È bellissimo. [...] [Q]uesto sublime aspetto di RT non importa a molte persone. La fortuna di RT si deve totalmente al tomatometer, quel numerino in alto a sinistra, che garantisce [...] la possibilità di dare un voto che sia quanto più “oggettivo”, o comunque che abbia la maggior struttura di oggettività possibile, a un certo film.”

“[Su Tripadvisor] È più facile che si becchi un buon punteggio il classico ristorante medio-medio, strutturatissimo, con un menu sterminato e la capacità di servire 450 coperti e tanta flessibilità e poco bisogno di imporre la propria filosofia culinaria e prezzi non eccessivi, cioè -a grandissime linee- lo stesso ristorante che 25 anni fa avreste trovato su tutte le guide. A me questi posti (i cosiddetti carnai) non piacciono. Coi film succede più o meno la stessa cosa: un film che piace a tutti è, quasi per definizione, un film che non offende nessuno. [...] Secondo voi è meglio un film che piace un po’ a tutti quanti o un film che piace tantissimo a tre persone su dieci?”

Lo spunto è originale e brillante, ma per chi scrive o legge di musica si nota subito una stonatura, che non è possibile applicare al proprio campo. La metto molto facile: non bisogna essere un cinefilo per controllare una recensione su RT o su IMDB - tutti quanti si sparano un film o una serie tv, a un certo punto. Ancora meglio: non serve essere un sous-chef o un critico culinario per usare TripAdvisor: tutti quanti magnano. Ma, secondo voi, tra l’utenza degli aggregatori corrispettivi in musica (RYM, Debaser…) è possibile trovare anche solo un individuo che non si possa identificare come “musicofilo”, come ascoltatore medio-forte? 

A questo punto il valore della critica militante in campo musicale emerge con un discreto fulgore: reclamare un posto nel dibattito sull’estetica vuol dire esondare dai grandi aggregatori, uscire dalla bolla di chi legge e scrive musica solo perché qualcuno deve pur farlo. Non è un caso se i pezzi con più successo degli ultimi anni glissano molto sui fatti musicali con cui si allacciano e si concentrano invece sulla creazione di nuovi mondi e avventure a cui possa legarsi anche un ascoltatore debole che ha interesse ad esplorare un determinato genere di campo estetico. Il pubblico (in tutte le sue accezioni) vuole Exmachina, non 100 Dischi Rock, e ci mancherebbe altro: anche chi non è appassionato di musica può darsi un punto di riferimento senza districarsi tra diecimila riferimenti che non coglie - e chi è appassionato apprezza il pensiero divergente, l’esplorazione di temi nuovi, la bella forma e l’entusiasmo. Però siamo tornati al campo base: se le linee editoriali di una redazione sono giustamente larghe e ogni penna tira acqua al suo mulino, come è possibile militare e creare spunti all’interno del format-recensione? Quando hai un libro è tutto facile, ma stroncare, promuovere, stellinare, sono attività che prese singolarmente - su di una zine, un blog, una cartacea - non fanno altro che replicare in piccolo il lavoro di un normale utente di Rateyourmusic. E, anche quando un appassionato di musica ha bisogno di trovare dei punti di riferimento, si trova sempre con le mani in pasta a una ragnatela di siti e aggregatori che deve filtrare egli stesso con decine di variabili. In questo mare magnum di seconda fascia è chiaro che la singola recensione perderà sempre il suo possibile valore, ed è altrettanto chiaro che gli appassionati di musica continueranno a invecchiare o a disinteressarsi, fino ad un inevitabile Fimbulvetr in cui tutte le pagine dei siti che avevamo tra i preferiti daranno 404. Ma allora perché tutti quanti si ostinano a scrivere recensioni?

Cosa significa e quanto conta per noi, oggi, una recensione?

Credo che tutti quanti gli scrittori di musica comincino la loro carriera con un obiettivo: fare la differenza. Convogliare giudizi, sostenere scene. Allontanare il mediocre, lanciare megafoni all’ottimo. Credo anche che questi obiettivi comincino a scricchiolare più o meno intorno alla novantesima recensione, in cui ci si rende conto di star riprendendo gli stessi lessemi di sempre, di aver sparato a palla il proprio entusiasmo per la decimavoltaquest’anno. E si comincia in quel momento, in linea di massima, a lasciarsi un po’ andare, ad ammorbidirsi - perché ci si rende conto che il reach dei nostri giudizi è quello che è, e si va in modalità tanto è per i greci. Si innescano gli automatismi, si fa spallucce e si fa quel che si può: dire bene di quello che ci piace (perché vogliamo che venga ascoltato) e non dire male di quello che non ci piace (perché il collega vuole recensirlo bene - vuole che venga ascoltato). Ogni tanto l’obiettivo echeggia e con un eroico colpo di reni lo scrittore riesce a cacciare una recensione passabile. Fa male fare i conti in questo modo, e fa anche male concludere queste indagini con una chiusura aporetica, quindi, sperando che possa servire a qualche lettore, è arrivato il momento di dare la mia personalissima risposta alla domanda originale di Solventi: “Cosa significa e quanto conta per voi, oggi, una recensione?”

Io sono consapevole del fatto che il pubblico non legge le recensioni: io sono un ascoltatore molto forte, scrivo di musica, e raramente investo il mio tempo in questo modo; perché dovrebbe farlo qualcuno di meno coinvolto di me? 

A partire da questa consapevolezza, la recensione per me viene affrontata con tre obiettivi ben presenti, evidenziati di giallo livore e lampeggianti.

  1. La recensione che scrivo/leggo deve arricchire innanzitutto me stesso. Se ho la certezza che verrà letta da pochissime persone devo fare in modo di allontanarmi dalla tastiera con più elementi di quelli di prima: devo fare in modo di dare un valore all’esperienza di scrittura anche a prescindere dalla reazione di chi ci segue.
  2. La recensione che scrivo/leggo deve militare per una musica e per un mondo migliore. Qualsiasi cosa questo significhi, se ho una goccia di inchiostro da spendere, la spenderò sempre in funzione militante, stroncando i nemici, promuovendo chi non ha altri mezzi, lasciando anche delle impronte politiche all’interno della mia scrittura. A parità di costi è sempre meglio indirizzarsi verso le proprie utopie. Ovviamente: nessun compromesso.
  3. La recensione che scrivo/leggo deve appassionare il lettore e potenziare e strutturare meglio il suo rapporto con la musica. Se sei un occasionale è arrivato il momento di allargare i tuoi orizzonti, magari scoprendo un nuovo hobby. Se sei un ascoltatore medio è arrivato il momento di approfondire. Se sei un ascoltatore forte è arrivato il momento di pretendere di più dalle tue letture. 

Ovviamente questi tre obiettivi a volte vengono centrati, quasi sempre vengono mancati per miei limiti tecnici e creativi. Ma costruire una recensione che riesca a comporsi di queste tre direzioni vuol dire valorizzare questo strumento abbastanza da fargli avere delle conseguenze nel mondo reale: l’obiettivo primario di qualsiasi tipo di azione dell’individuo. La recensione, se queste premesse sono attuate, rappresenta, per me, una delle armi più veloci da usare (perché standardizzata) e con il più basso rapporto caratteri/effetto per il fine numero uno di chiunque sia appassionato oggi di musica: far sì che il grande pubblico si accorga che la musica esiste - e che ci sono multiversi in espansione al di là della lofi hip hop radio di Youtube. Nel quotidiano, all’atto pratico, arrivare a certi obiettivi è difficilissimo. Però per noi è necessario riferirsi sempre a questa stella polare, quando siamo in scrittura: la differenza di approccio nasce quando si guarda al vuoto siderale della critica contemporanea, al disinteresse generale del pubblico medio e grande, e si inquadra questo vuoto come gigantesco margine di miglioramento più che come disperato abisso della morte

Che fare?

Le conclusioni principali di questo post sono veramente misere per chi scrive di musica: una persona su due di chi fruisce del mezzo di comunicazione reputa che le recensioni non servano a granché, di quelli con un atteggiamento positivo una metà legge solo i nomi di cui si fida, in generale siamo in un mondo in cui gli ascoltatori occasionali e medi sono pochissimi, soprattutto in confronto ad altre forme d’arte più diffuse e comunque più o meno tutti vorrebbero che il lavoro fatto fosse più qualitativo, a prescindere dal segno della loro risposta. Va da sé come il lavoro che si fa già non sia particolarmente qualitativo. Sul valore della recensione e su come abbiamo deciso di muoverci in questo campo ho già risposto per Livore nel paragrafo precedente, proviamo a dare qualche spunto anche a chi non fa parte della nostra redazione per militare, appassionare e arricchirsi meglio di come non si stia già facendo.

Per chi scrive su di un magazine molto diffuso: ragaz, siete il top della gamma, l’apex predator, probabilmente di scrittura e redazione ci campate. Potrebbe anche essere il momento di smetterla di scendere a compromessi, di prendersi qualche libertà, di stroncare di più e mettere più ciccia nei propri contenuti. Sti cazzi se calate nel quarter: tanto gli ascoltatori occasionali leggono solo i titoli di quello che pubblicate e agli ascoltatori medio-forti state sul cazzo per tutti i motivi che sono emersi dal post di Solventi. Se proprio non siete disposti a scendere a compromessi, allora è il momento di cambiare totalmente linea editoriale, diventare un patinato come Factmag e lasciare lo strumento delle recensioni a chi vuole veramente criticare. Anche perché, per citare Boezio e Bongiorno, la fortuna è una ruota: più sali negli astri al primo semiciclo, più scendi nella merda al secondo.

Per chi scrive su di un magazine mediamente diffuso: state attenti a chi firma i vostri articoli, direi. I dati ci dicono che tantissimi lettori si fidano dei nomi che seguono e dal mio punto di vista un cattivo recensore può danneggiare atomicamente l’immagine della zine che lo ospita, che va sempre al passo del più lento e non certo del più veloce. Anche a costo di fare meno pezzi a settimana vale davvero la pena di tenere la qualità verso l’alto: tanto gli ascoltatori forti non si informano solo sulla vostra zine ma hanno tutta una serie di pesi e contrappesi e gli ascoltatori occasionali non li raggiungete comunque. A questi livelli sembrerebbe pesare molto di più un giudizio negativo che un giudizio positivo, quindi è meglio evitare di fare da pseudo-aggregatore di recensioni e concentrarsi su un lavoro di fino, con una redazione concentrata. Chi scrive male possiamo metterlo a gestire i social o a guardare il backend, chissenefrega. 

Per chi scrive su di un magazine piccolo e sconosciuto: fate come noi. Anzi, fate esplodere i vostri server e venite a lavorare gratis per Livore (oppure datevi all’ippica, insomma, sgomberateci la strada).

Per gli ascoltatori forti: sfruttate le vostre conoscenze, i vostri legami e la vostra competenza per fare da camere d’eco per la musica contemporanea e, se volete, per la critica che la circonda. Siete già una versione alpha di un piccolo magazine e se usate qualche aggregatore online ve ne sarete accorti: qualcuno vi segue. Non lasciate che queste potenzialità vengano bruciate in un accumulo ortodosso ma arido di tutte le cose che vi piacciono: condividete, parlate, approfondite, espandete. The new needs friends, e voi siete uno dei nodi con più potenziale di tutta la baraccopoli di appassionati di musica: abbandonate i vostri circoletti e mostrate al prossimo cosa sta succedendo all’ombra dei commentoni alla terza serata di Sanremo. Servite anche voi: buttate il gatekeeping nel cesso, divulgate quello che amate. 

Per gli ascoltatori medi: se non avete tempo o risorse mentali per fare la drammatica fine da ascoltatori forti nerd terribili puzzolenti cercate almeno di premiare quelle fonti che vi danno valore: perdersi nei meandri di decine e decine di recensioni dei grandi siti può essere angosciante, ma avere due o tre fonti su cui informarsi e, perché no, costruirsi un'estetica da ascoltatore verticale può essere una soluzione conveniente, divertente, economica. Tanto c’è sempre tempo per tirarsi indietro e aver passato un bel periodo della propria vita seguendo dei nomi apprezzati (o addirittura facendo parte di una sottocultura); c’è anche sempre tempo per addentrarsi di più nella tana del bianconiglio ed entrare nel battaglione degli ascoltatori forti. In quel caso, cercate di non perdere comunque la buona abitudine dello shampoo.

Per gli ascoltatori occasionali: se per qualche motivo state leggendo questo sito e siete arrivati anche qui in fondo: date una chance alla musica. So che è difficile da seguire perché non ha una trama da commentare, so che è facile cadere nelle abitudini e apprezzare sempre le solite 200 canzoni con cui abbiamo un legame affettivo e so anche quanto sia intimidatorio e molesto il mondo degli ascoltatori medio-forti. Ma alla fine nessuno vi chiede di essere esperti di niente, e ascoltare un disco non è quasi mai una perdita di tempo (e si adatta molto al multitasking). Provate a prendere l’abitudine di ascoltare pian piano i dischi più chiacchierati e quelli che sono considerati capolavori della storia, leggendo una recensione ogni tanto (va bene qualsiasi magazine). Magari qualcosa potrebbe affascinarvi abbastanza da portarvi ad un livello d’interesse superiore - e le vostre esperienze di vita potrebbero intessersi di una grana molto più gradevole. Date il beneficio del dubbio, non vi angosciate, sappiate che siamo tutti sulla stessa barca - fino a nuovo ordine.  

Arricchirsi, militare, appassionare. Queste sono le risposte che sono riuscito a dare a una domanda così gravosa come quella di Solventi. Non lo nascondo: sono conclusioni che sono emerse pian piano, durante la scrittura di questo articolo - potete vedere chiaramente i dubbi che nascono, che raggiungono un punto critico e che vengono sciolti con delle dichiarazioni di intenti. Spero che questo fiume di parole possa essere servito a qualcosa a chi mi legge, che possa aver dato le nostre risposte e sollevato i suoi dubbi. Non siamo pari, però. Io ho speso qualche giorno a costruire la mia risposta, propongo a chi mi legge di spendere qualche secondo a costruire la sua, e a commentare di conseguenza su uno dei nostri canali social, per aggiungersi a tutti quei dati che, avrete notato, captiamo con particolare attenzione.

Cosa significa e quanto conta per voi, oggi, una recensione?

A presto.

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M