CYBER DERDEBA: L’ESTASI DEL MAROCCO DAGLI GNAWA ALL’IDM

Scoprire musiche distanti dalla propria sensibilità è sempre un viaggio devastante, faticoso e insieme soddisfacente, romantico. Questo articolo doveva essere in origine parte della rubrica Scene che esistono, e doveva accompagnarsi con una prospettiva sul tishoumaren tra Algeria e Mauritania e sull’ondata di sperimentazioni che ha coinvolto la Tunisia in seguito alla primavera araba. Purtroppo la tana del bianconiglio era molto più profonda di quello che potessi immaginare, e quindi per amor di tempistiche e per evitare di presentare un longform troppo long e poco form ho scelto di limitarmi a raccontare la storia di un genere di cui esiste una versione specifica in ogni parte del mondo – l’elettronica – nella versione intrigante di alcune tradizioni musicali tuttora in essere nel Marocco contemporaneo. Prima di cominciare prendo le solite due righe per comunicarvi che tutto quello che leggerete è frutto di una mia ricerca in rete e dei miei ascolti: purtroppo non sono a contatto diretto con persone che abitano o hanno abitato in quelle zone e potrei aver affrontato l’argomento con tutti quei pregiudizi invisibili che rischiano di coprire la mia scrittura di una patina neocoloniale. Ho cercato di evitare questa circostanza, sono comunque aperto a modifiche per eventuali imprecisioni o prese di posizione problematiche.

Detto questo prendiamo un profondo respiro prima di immergerci in una delle ambientazioni musicali più complesse e profumate del Maghreb. Andiamo a cercare quel nodo a metà strada, quella connivenza di fondo, che unisce le esaltazioni delle liturgie dell’etnia Gnawa e le costruzioni circolari e allucinogene dell’elettronica marocchina in una contemplazione silenziosa del divino. Tutto questo partendo, come al solito, dal principio. 

Mappa del Marocco dal 1728

La storia dell’attuale Regno di Marocco è affascinante e molto stratificata, come si confà a molti degli stati che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Regione fiorente sin dai tempi del Mesolitico, la costa nord-occidentale del continente africano ha ospitato nella storia dell’umanità una serie di culture e dominazioni battezzate dall’espansione di Cartagine nel primo millennio a.C. In seguito alla caduta fenicia, la sezione di terra che oggi si ferma alle colonne d’Ercole divenne una provincia dell’Impero Romano con il nome di Mauretania Tingitana, governata de facto dalle dinastie Amazigh (berbere, uno slur che cercheremo di usare col contagocce) che formavano l’ex regno di Mauretania. Queste dinastie si trovarono a convivere (non senza sanguinose frizioni) con le realtà arabe tra il VII e l’VIII secolo d.C., in seguito alla conquista islamica del Maghreb che ricompose il nord-Africa come mosaico di province di quella che veniva chiamata Ifriqiya. Nel corso del medioevo questa provincia dell’Ifriqiya diventerà teatro di un complessissimo e densissimo patchwork di guerre, mercati, alleanze e culture che hanno fatto sì che si alternassero dinastie di discendenza araba, famiglie Amazigh, dominazioni ed exclavi europee – mentre le dissonanze del mondo arabo-berbero si espandevano fino alla penisola iberica costituendo la regione di al-Andalus. La lunghissima alternanza di governi differenti che ha portato alla costruzione di un clima culturale sincretistico e allo stesso tempo conflittuale – e che riuscì anche a tenere a bada l’espansione dell’Impero Ottomano nell’Africa nord-occidentale – terminerà con la salita della dinastia alawide, che ha governato dal XVII secolo ed è tuttora al potere. Nei primi anni del ‘900 l’Europa tornerà fragorosamente a rompere i coglioni al Maghreb, nell’epoca del colonialismo: l’allora sultano accettò di riconoscere il suo territorio come protettorato con il trattato di Fès, e il Marocco si divise in due colonie (una francese e una spagnola) e una zona internazionale nel porto di Tangeri. In seguito alla vittoria delle forze alleate nella seconda guerra mondiale, tra gli anni ‘40 e ‘60, il Regno di Marocco riconquistò tutta la sua indipendenza ad eccezione delle semi-exclavi di Ceuta e Melilla. In epoca recente il Marocco è stato governato dagli alawidi in forma di monarchia costituzionale: tra gli anni ‘60 e ‘90 ha visto al potere il regime para-dittatoriale di Hassan II e oggi il Regno è sotto il controllo di Mohammed VI, che ha aperto a un periodo di riforme, poi accelerato in seguito all’esplosione della primavera araba. Le politiche di Mohammed VI, nonostante siano un passo avanti rispetto al piombo del suo predecessore, non sono assolutamente scevre di contraddizioni e criminosità: tuttora Human Rights Watch denuncia un regime restrittivo per la libertà di espressione e associazione, una mano pesante nei confronti delle opposizioni politiche e soprattutto la criminalizzazione dell’omosessualità e del proselitismo per le religioni diverse dall’Islam. 

La Noce juive au Maroc di Delacroix è testimone delle interferenze culturali del paese

Dopo questo breve e impreciso volo d’uccello sui millenni, possiamo dire che degli stati afferenti alla fascia del Maghreb il Marocco è probabilmente uno di quelli con il più ingombrante melting pot di etnie e culture all’attivo: da bravo lembo di terreno sud-mediterraneo-atlantico unisce, complice una storia particolarmente travagliata, ascendenti di cultura Amazigh, arabo-islamica, europea-iberica ed ebraica. Ognuna di queste grandi famiglie culturali si è espansa e contratta nei secoli con un respiro che ha dato vita a mescolanze arabo-amazigh, iberico-amazigh (i Mori andalusi e siculi erano di discendenza berbera) e allo stesso tempo ha dato piccoli spazi ad alcune minoranze tuttora presenti sul territorio, come i Gnawa, deportati in massa dagli stati subsahariani nel XVII secolo dalla dinastia alawide, oppure gli Haratin, un gruppo etnico di nomadi delle oasi del Sahara di discendenza arabo-amazigh. Per amor di brevità e difficoltà nel reperimento delle fonti eviteremo inoltre di approfondire tutte le culture di cui si compone il quadro dell’etnia Amazigh, sparsa per l’intero territorio dello stato. Va da sé che la musica che emerge dai gruppi etnici marocchini risulta differenziata e mista da ben prima che il grande imbuto della tecnologia occidentale intervenisse negli interstizi culturali della terra del tramonto: c’è da perderci la testa. Potete trovare un buon approfondimento dell’argomento qui e un libro dedicato al tema qua. Per l’articolo di oggi possiamo limitarci a citare un paio di tradizioni che ci saranno utili per conoscere le implicazioni di certi dischi che anno dopo anno pullulano nell’underground marocchino, lasciandoci alle spalle il folk tradizionale Amazigh, chaabi e raï, il malhun e compagnia cantante. La base epicoria da cui è importante partire per ciò che concerne il tema di questo articolo è la musica del popolo Gnawa, che ha attraversato i secoli nel contesto del sufismo maghrebino. 

Rappresentazione di un gruppo di Gnawa d’epoca coloniale

Come raccontavo più sopra, gli Gnawa sono i componenti di un gruppo etnico originario del Sud-Sahel che fu deportato verso la città di Essaouira, in origine sfruttato per fini schiavistici da Ahmad Al-Mansur, l’allora Sultano del Marocco. Le usanze mistico-religiose portate a Nord dall’etnia Gnawa (possessione, animismo, sciamanismo e trance), abolita la loro schiavitù, si rifugiarono nel quadro del sufismo islamico presente in Marocco, la corrente più esoterica e rituale della pratica religiosa musulmana. Da allora, grazie a questo proxy, gli Gnawa hanno affascinato la popolazione a maggioranza arabo-Amazigh con le loro litanie sincretiche islamico-animiste, e non solo: Bill Laswell, Brian Jones, Robert Plant e Jimmy Page, Randy Weston sono tutti musicisti che nel corso della loro carriera hanno avuto modo di toccare con un dito l’arte Gnawa grazie alle loro collaborazioni. Potete trovare, se interessati, un’analisi storica e formale completa della musica Gnawa in Music of the Gnawa of Morocco: evolving spaces and times, una tesi magistrale in etnomusicologia redatta alla University of British Columbia. 

La musica Gnawa è una parte fondamentale per l’esperienza estatica e per l’accensione dell’esperienza di trance possessiva: l’obiettivo del Maâlem (il maestro di cerimonie) che si occupa della lila o derdeba (il rito musicale in sé) è quello di avvicinare la platea di ascoltatori con un moto circolare-verticale, con i qraqeb (delle grandi nacchere metalliche) che vanno a rimpolpare e a intensificare man mano il rito, in una sinusoide di call-and-response con i vocalizzi dell’interprete che vanno a salire nel tempo della performance mimando l’ascensione allo stato di estasi e l’avvicinamento progressivo alla sfera divina. La base strutturale della ritualità Gnawa viene coperta di un elemento atmosferico fondamentale: gli sleghi di sintir (lo strumento a corde d’elezione dell’etnia), che nei momenti più drammatici della trance tendono a superare la struttura precedente e inumidirsi in una melodia continua e incessante, che va a sovrastare anche la vocalità dell’interprete – spesso accompagnato dagli applausi ritmati della platea, che hanno preso il passo dei qraqeb. La descrizione che accompagna l’ascolto di un rito Gnawa si compone di parole chiave piuttosto significative: ciclico, periodico, minimale, differenziale. Le spirali estatiche del Maâlem, che alternano un battito fortemente percussivo ai momenti poderosi di call-and-response, così descritti da Viviana Pâques:

“[The songs of the derdeba] are never clear and explicit. Allusion is the rule. It relies on a play on words or the exclusive choice of the initial word of a verse, the other words having no importance. The effect on the listener is everything but discourse: he receives a series of small shocks that arouse his attention and provoke a symbolic puzzle that causes him to fall [into trance].”

Maleem Mahmoud Ghania

Potete trovare delle testimonianze affascinanti di queste derdeba su youtube (ci sono registrazioni molto interessanti qui, qui e qui e se volete un documentario lo trovate qui), ma potete anche ascoltare alcune dei dischi in studio che fanno brillare soprattutto il virtuosismo al sintir, come Colours of the Night del famosissimo Maleem Mahmoud Ghania (che ha anche collaborato con Pharoah Sanders per The Trance of Seven Colors) oppure Night Spirit Masters, raccolta pubblicata sotto il nume di Bill Laswell. 

Il genere ha inoltre dialogato spesso con musiche contemporanee, non solo nel già citato – bellissimo – disco di Ghania e Sanders. Nel corso della storia della musica abbiamo trovato il mix di The Gift of Gnawa, disco di Hassan Hakmoun in cui Don Cherry improvvisa la sua versione del call-and-response con un’ingombrante tromba pocket, ma anche il fascinoso spiritismo dell’algerino Guem che esaspera la componente percussiva del genere trasformandolo in un cosmo di tamburi dalla salinità tribale/new age. I Nass El Ghiwane hanno provato a cucire nel loro patrimonio di Chaabi tradizionale la verve estatica/trance dello Gnawa per primi negli anni ‘70 (il loro debutto ha avuto un successo che li ha portati ben oltre i confini di Casablanca), ma forse di tutte queste contaminazioni le lila acide ed elettrificate di Ecstatic Music of the Jemaa El Fna sono la versione più riuscita dei riti storici che hanno trovato casa nel sufismo marocchino. 

Con queste premesse, titolo dell’articolo alla mano, è molto facile intuire dove vogliamo andare a parare. Negli ultimi quarant’anni, mentre nel paese reale di Marrakech spopolavano i raï algerini, il metal, il sempreverde hip hop africano, un interessante filone di musica elettronica funerea e ripetitiva s’è compattato nel sottosuolo marocchino; forte di un impulso trance nel dna dei propri producer e grazie al contributo di alcuni mecenati occidentali è emerso in grande luccicanza nell’ultimo decennio. L’elettronica che esce dal Marocco è tosta forte, e gli stilemi musicali radicati nelle derdeba Gnawa compongono una parte impressionante del suo genoma. 

Storica foto dei Nass El Ghiwane

I primi passi del genere sono stati mossi da pat-Jabbar con la fondazione della Barraka El Farnatshi, una label tuttora in attivo che ha giovato durante gli anni ’90 del riconoscimento di Bill Laswell, jazzista americano vigorosamente afrofilo. Di Barraka El Farnatshi ci ricordiamo l’infernale giro dub di Les Riam, ma soprattutto quel massiccio di tribal house sporco che è stato Shabeesation, pezzo forte degli Aisha Kandisha’s Jarring Effects. Mentre il pop/rock e l’hip hop si affacciavano alla tentazione Gnawa, rispettivamente con il gruppo marrakech-berlinese dei Gnawa Impulse e con Hijra di U-cef, una seconda generazione di producer è emersa nel corso degli anni ’00 e ’10 a fare da camera d’eco per la musica trance dell’etnia subsahariana e a ribaltare la ripetitività ossessiva e le litanie sufiste in una forma di musica sintetica e meccanica che ne è diventato negli anni il corrispettivo solitario e più cupo. A partire dall’epopea trance dei Nass El Ghiwane fino ad arrivare al breakbeat psicotico dei MoMo (che negli anni 2000 era un nome associato al collettivo artistico de L’appartement 22), il segno distintivo dell’avanguardia marocchina si è marchiato a fuoco su quell’elettronica delle grandi città del Marocco che poi echeggerà in tutto il Mediterraneo (e oltre) grazie alla sua discendenza più maniaca espressa nei luoghi sapienziali del sufismo maghrebino. 

Accattivante setup per la console del Primitif Festival

Forse non c’è un’occorrenza più adatta a trasportarci definitivamente dall’animismo Gnawa all’elettronica di quella della Dream Crew Records, una netlabel nata a Marrakech che dal 2014 si occupa di organizzare rave fuori città e ha fondato il Primitif Festival, che raccoglie in un pugno di nottate estive la crema della scena electro-psych del Nord Africa, connettendo nell’afa lisergica artisti provenienti dal Maghreb elettronico e da tutta Europa (dalle sponde basse di Al-Andalus fino ad arrivare ai porti di mercanti della Danimarca). La psytrance dei Primitif è piuttosto dura e intensa, tende a incontrare tutti i suoi partecipanti in una traccia concettuale vagamente boschiva e fatata (il fondatore del movimento lo etichetta come forestpsy oltre che darkpsytrance) e non è facilmente digeribile in cuffia. Dream Crew Records, però, ha una lussureggiante pagina bandcamp in cui è possibile gustare i live e le compilation più disparate legate ai Primitif Festival in varie compilation in cui vengono coperti tutti gli artisti che hanno gravitato attorno alla realtà negli anni, riuscendo in questo modo a spezzare la ripetitività di una musica che raggiunge i suoi momenti più hardcore anche per ripetizione, in dei riti possessivi che toccano la naturopatia a 180 bpm. Di tutto questo bastimento di dischi i più interessanti sono senza dubbio le registrazioni del Primitif Festival (c’è un vol. 1 e un vol. 2) e Late Night Conversations di Kalamour, un EP che addolcisce la psytrance di Dream Crew sperimentando tra suoni e break e avvicinandosi a una bizzarra take Amazigh sulla techno acida. 

Prophän

Dall’altro lato dello spettro ritmico, a Rabat, forse sulle spalle di quella dark ambient parlata che negli anni ’90 ha affascinato Bill Laswell e ha dato vita a dischi enormi come Baptism of Solitude, è nata nell’ultimo lustro la realtà di Rhadâb, termine intraducibile arabo che – stando alla descrizione data dall’etichetta – sta a significare questa perifrasi:

“an unspeakable animosity defined by an intense internal turmoil and an entropic emotional state”.

Nata attorno alla realtà di Prophän, un producer di Rabat che è entrato nello spotlight internazionale a cazzotti passando dalle etichette europee, Rhadâb vuole specializzarsi in una dark ambient sperimentale che si ispira ad un’estetica particolarmente desolata e oscura, aggiornata con quel kick marocchino ipnotico e animista, base ideologica di ogni grande esperimento del Regno. Un manifesto eccellente della label è uscito nel settembre del 2020, si chiama Al-Ibtihal e raccoglie le due anime principali del ritualismo di Rabat: il primo lato del disco è dedicato alle distorsioni dimensionali e dronanti dell’ambient techno, il secondo lato è più roboante, pesantemente percussivo. Il disco è molto bello e nonostante sia una chiamata all’adunanza del roster Rhadâb riesce a sviluppare un’eccellente coerenza legata ad un chiaro dinamismo: dalla opener Lust, un demotivante soundscape di violino arabo, si transita in un’addizione atmosferica che passa dal power noise e arriva fino alla techno putrida e metallica di Talashat Azzuhur Al Bayda’e Fi Naysan. Un viaggio imponente che ha uno dei suoi picchi in Stop worshipping di Prophän, il pupillo di Rabat. Pupillo che nel 2021 si cimenterà con il suo primo LP: Those Who Fight In God´s Way, che si può acquistare su bandcamp alla giusta cifra di 666 €. L’antimusica di Prophän gioca a pari merito con i dischi di dark/tribal ambient più vitali del Regno Unito degli ultimi 10 anni (penso ai soliti Demdike Stare o al più recente Deep England) con l’ovvio caveat del radicamento nella psichedelia marocchina, che qui degrada totalmente dalla sua versione ciclica di stampo sufista e connota le tessiture ambient del disco con una nube di rumorismi alieni tutti votati alla composizione di una fotografia che possa essere contemporaneamente desertica, fredda, sciamanica e sintetica. Non un lavoro facile, Prophän ci riesce. Non possiamo congedarci dalla scena dark di Rabat senza una breve citazione di Blind-Ox, un producer che fa una mistura un po’ populista della techno industriale di matrice Rhadâb e di quella stessa psytrance che avevamo visto con Dream Crew: nonostante l’ordine superiore di complessità non c’è molto di Blind-Ox che colpisca se non il suo spirito hardcore che però nei club europei è stata la regola per decenni. Potete cercare da voi i talenti nascosti del dj di Rabat direttamente sulla sua pagina di bandcamp

Un pezzo della Cosmo Records in bella posa

Spostandoci un po’ più a sud sull’autostrada costiera che lambisce la costa atlantica del Regno arriviamo in un’oretta di macchina a Casablanca, il più grande polo finanziario di tutto il continente africano e probabilmente la città con l’interscambio culturale più intenso con l’Occidente di tutto il Marocco. Questa è la patria dei Nass El Ghiwane, una band di trance-star il cui nome è già uscito più sopra, che è riuscita negli anni a portare alla ribalta lo stile musicale Gnawa e contemporaneamente a farsi identificare come i “Rolling Stones dell’Africa”. La loro discografia è grossa e non abbiamo tempo per approfondirli, ma vi consiglio di ascoltare come minimo il loro già citato debutto self-titled, Hommage à Boudjemaa e il più recente Chants Gnawa du Maroc. In questo humus culturale non poteva non maturare una scena elettronica di fusione che oggi è probabilmente la più grande di tutta la terra del tramonto. È pacifico aprire il capoverso di Casablanca con la Cosmo Records, un’etichetta attiva dal 2009 che ad oggi ha filiali di distribuzione anche in Francia e Germania e che da sempre si occupa di trovare dei punti di contatto tra la musica occidentale, le scene dell’Africa nord-occidentale e le suggestioni più magiche del Medio Oriente. Sebbene Cosmo promuova musica proveniente da ben quattro continenti, la sua nascita è avvenuta sulle sponde di Casablanca, hanno partecipato ai festival di musica Gnawa di Essaouira e nel roster ha contato svariati dj del Marocco: è possibile constatarne l’evoluzione tanto sul loro sito quanto sulla loro pagina bandcamp. La raccolta 5 years of Cosmo racconta dell’esperimento della label, che ha avuto in programma dal 2009 al 2015 di fondere la tech house sperimentale con la musica tradizionale africana di ispirazione Gnawa. Il disco è estremamente interessante e alterna megahit da dancefloor di grande classe (BlueDeceptiveCember, Twin Pigs) a spaccati di campionamenti percussivi minimali e allusivi (El Boumaari, Caminante Cosmico) a riflessioni nate nell’house ma con le mani in pasta tanto nelle trance sufiste quanto nel folk Amazigh (Chaud Colin, Umut). La raccolta è un manifesto dell’IDM marocchina, radicata tanto nei primi EP techno della label (gli EP di Rabat, Medina e Casablanca) quanto nella deep house più bianca. Cosmo è tutt’ora in attività e anche gli ultimi lavori della pagina (3 Years Ago di Traumer e 2 Monkeys in the Oud di Monkey Nenufar) sono roba da considerare: non perdeteveli. Dai primi anni della Cosmo Casablanca è chiaramente diventato un centro d’elezione per l’IDM e oggi il panorama è variegato ed esaltante: dall’elettronica futurista e cibernetica di Kosh (al massimo nel suo debutto Endless Quest) alla drum&bass sozza di P3RY fino anche alla lo-fi atmosferica à la Nujabes di Saib. Ma oltre agli epigoni della Cosmo c’è anche del materiale totalmente nuovo e altro nato in questo clima fusion: l’eccezionale folktronica di Med Be, la cui prova più importante è senza dubbio il disco di quest’anno (Emotional Entanglements), che sorpassa in corsia tanto del panorama Cosmo e inventa una forma di tribal ambient cadenzata e mistica, di ispirazione new age/popolare. La ricerca dell’estasi che il producer di Casablanca attua in Emotional Entanglements non ha molto a che vedere con il resto della sua produzione, che spazia dall’hyper-vapor lucidissimo di Absurd Sagacity agli esperimenti jazz-rock tipo The Rest is Interference. Un musicista che riesce a dire la sua in tutte queste stanze è sicuramente da tenere d’occhio, anche senza soffermarsi troppo sul suo lavoro migliore – che è comunque una delle nostre segnalazioni di quest’anno. Tra tutti questi nomi di nicchia forse avrete sentito parlare di Guedra Guedra, un alfiere dell’afrofuturismo che tra il 2020 e il 2021 ha fatto scalpore con i suoi dischi juke usciti per On the Corner, che hanno trovato un successo fuori dalle proporzioni degli altri artisti della sua città d’origine. In effetti Vexillology ha l’indubbio valore di aver aperto gli occhi a molti ricercatori (me compreso) sulla quantità di elettronica che si addensa nelle grandi città del Marocco, e da solo è riuscito a sponsorizzare tanta della grande musica del Regno, a partire dalle derdeba Gnawa fino ad arrivare a lui stesso: trovate la sua intervista sulla storia dell’elettronica marocchina qui. Vexillology è uno dei dischi più palatabili per chi si avvicina all’elettronica marocchina, e vi consiglio – nel caso – di partire da qui: la mista di juke e house tribale raccoglie lo spirito collagistico che è possibile vedere nella cover del disco e si espande scompostamente in ogni direzione, finalizzando un album super divertente da ascoltare. 

Nel contesto della techno fortemente percussiva, a ricordare il ruolo dei qraqeb nell’estasi delle lila, non è possibile non citare la parabola di Bergsonist, una producer di origine marocchina oggi espatriata e New York, che recentemente è stata coperta anche da Residentadvisor. Dopo un lungo percorso di techno industriale sintetica e rotonda, al limite della EBM, perfettamente riassunto nei suoi EP Mutation, Heat e From Dualism to Monoism, il cambio di passo gigantesco è avvenuto nel 2020, con l’uscita di Middle Ouest. Il disco è un clusterfuck di campionamenti percussivi che le concedono di sollevarsi con grazia dalla pesantezza della sua musica da body club, consacrandola così come artista a tutto tondo, una “free sonic voyageur” che sposa il call-and-response dei suoi sample affastellati con dei glitch devianti e delle spaventose escursioni termiche che decadono nella dark trance più cruda e scostumata. Se ad ascoltare i sussurri di Faith Game ci sembra di ritornare a nostro gusto occidentale in un personale collasso in stato di trance animista la responsabilità sta proprio nella genetica nordafricana della dj. 

Altro indizio di continuità nella copertina di Sqala, in cui il soldatino meccanico ha in mano dei mini-qraqeb

La realtà più interessante nata nell’arco di Casablanca, però, non è il globalpopolare Guedra Guedra né la Cosmo Recs, non è né la prolificissima Bergsonist né il 3XOJ che si è fatto spingere da Hakuna Kulala. Non c’è dubbio sul fatto che questo onore vada alla Tikita Records, una netlabel localizzata nella capitale finanziaria del Marocco, ma che si concentra sulla chiamata alle armi di producer di tutt’altra natalità. Fondata da Karim Bennis nella Casablanca del 2014, Tikita porta ai suoi limiti invalicabili l’IDM, spingendo pezzi di deep techno che possano mimare l’eccitata ritualità sacrale della tradizione marocchina e allo stesso tempo evolversi e sclerotizzarsi con un apparato cibernetico e sabotatore tipico delle elettroniche europee. Nel febbraio del 2021 è uscito Sqala, un disco che esamina al microscopio un pezzo di techno tribale del fondatore Karim e lo tortura con rifacimenti e remix firmati Dorisburg, Donato Dozzy, Forest Drive e natural/electronic.system. Ascoltare Sqala e immergervisi a pieni polmoni, a mio avviso, è quanto di più vicino si possa ottenere con le cuffie al respiro di una trance religiosa vera e insostenibile, nell’evoluzione centrifuga di una marcia inesorabile interviene a pieno titolo un fenomeno simile alla possessione, che si avvicina alle nostre sensibilità e con il suo richiamo seducente ci calamita in una versione cancerosa di un’allucinazione così distante nel tempo e nello spazio.

Se l’elettronica proveniente dal Marocco sta trovando una sua primavera è anche grazie alle commistioni che i grandi centri del Regno hanno con le realtà fuori continente: è una cosa che diventa palese in Screaming With No Mouth di UNKNOWN STEREOTYPES, un musicista di elettronica sperimentale che manipola una strana mistura di vaporwave, techno e deconstructed club (arrivando a campionare Arca e i Death Grips, per citare un paio di nomi à la page). Diventa ancora più palese nei Mameen 3, che con la loro disco music da biblioteca possono a tutto diritto trascendere il loro contesto quotidiano e farsi carico dell’ambizioso motto: No borders, no genres.

In questo clima di grande scambio culturale concesso da internet e lubrificato da un’epoca così tipicamente migratoria come la nostra non è da illusi sperare che tanti altri attori verranno stregati delle litanie delle derdeba così come è successo alle dinastie islamiche che hanno soggiornato nella terra del tramonto. Guedra Guedra forse è l’esempio più fulgido di questa volontà di trasmissione innata che chi viene dal Marocco infonde nei suoi campionamenti, ma come abbiamo visto è agevole trovare le eco di quegli applausi e di quelle qraqeb nelle fenditure di tanti dei volti dell’elettronica del luogo, dalla dark ambient di Prophän fino alle cerimonie misteriche di Med Be, dai Primitif Festival che raccolgono giovani da tutto il Nord Africa fino ai ragionamenti di alto borgo della Cosmo Records. Vediamo quindi cosa c’è dall’altro lato dello spettro della globalizzazione: stavolta è il racconto dell’elettronica del Marocco, che affonda le sue radici nell’esodo dei Gnawa del XVII secolo e si ramifica fino ad arrivare ai remix svedesi di Sqala, vera response inconsapevole di una preghiera collettiva cominciata dal suo primo creatore. Una storia, questa, che ci spiega col petto in fuori che gli strumenti più poderosi dell’arte sono la contaminazione, l’internazionalismo, l’incontro e la sovrapposizione delle culture – ricordandosi sempre di preservare ogni specificità, incrociare ogni virtù. E il gioco del dialogo tra realtà che sembravano ermetiche fino al minuto precedente fa ancora la sua porca figura. Custodire con cura i patrimoni dell’umanità significa anche poterne giovare per fecondarsi a vicenda e lasciare germinare nuove culture, nuove usanze, il classico qualcosa di completamente diverso. Un po’ come a dire: “La storia è irripetibile, ma noi siamo ancora all’inizio”. 

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M