Zev Love X, MF DOOM, Viktor Vaughn, King Geedorah, Metal Fingers: Daniel Dumile è conosciuto sotto vari nomi, ciascuno con le proprie caratteristiche ma legato agli altri da un gusto e una personalità onnipresenti. Per chi si interessa alla sua musica queste maschere possono fungere da pietre miliari, punti fermi che esemplificano la crescita di un artista e le varie sfaccettature di una figura complessa e riservata. La poetica di Dumile è interessantissima in quanto si colloca a metà strada tra realtà e finzione, nascondendo emozioni ed esperienze personali nelle mirabolanti avventure di Villain e compari. Da dove nasce un approccio del genere? Qual è il percorso intrapreso da Dumile, e perché il suo lavoro rappresenta una parte imprescindibile del panorama hip hop? Queste domande verranno adeguatamente sviscerate nelle – molte – righe successive, con la speranza di riuscire a produrre uno scritto che possa sia fungere da guida per i nuovi ascoltatori sia fornire contesto e approfondimento a chi possiede già familiarità con le opere di Dumile. I grandi Eroi della musica popolare ricevono attenzioni tutti i giorni: è tempo di occuparci dei grandi Cattivi.
PARTE 1: PRIMA DEL SUPERCATTIVO
Daniel Dumile nacque a Londra il 9 gennaio 1971, da madre trinidadiana e padre zimbawese. In tenera età si trasferì con la famiglia a Long Island (NY), dove crebbe col fratello più giovane Dingilizwe tra Manhattan e Long Beach, saltando sovente scuola per girovagare nei quartieri o disegnare graffiti. Il suo immaginario è quindi inevitabilmente radicato nella cultura americana, e il difficile rapporto con gli States (Daniel non ha mai preso la cittadinanza) o i frequenti ritorni nel vecchio continente non annacquano certo il suo debito nei confronti del substrato sociale che lo ha formato. Tutto nasce dallo stile di vita della Golden Age: grazie al tagging i due ebbero l’ispirazione per il nome della loro crew e futura band, un acronimo – KMD o Kausin Much Damage – che trovavano potente e bello da scrivere, nonché memorabile a leggersi su un muro. Sempre per accostamento istintivo di lettere e concetti Daniel e Dingilizwe crearono anche i loro rispettivi nomi d’arte, Zev Love X e DJ Subroc, tuffandosi a capofitto in una New York afroamericana dominata da B-Boys e Maestri di Cerimonie, cuore pulsante di un periodo di grande fermento artistico e sociale. In quegli anni produrre musica non era l’unico passatempo: i due cercavano semplicemente di sfogare la loro vena creativa, utilizzando qualunque mezzo espressivo tornasse comodo (con un occhio di riguardo per il tagging) e godendo delle amicizie sviluppate nel processo. Zev e Sub allacciarono infatti varie relazioni significative durante quel periodo, alcune grazie al loro interesse per queste forme d’arte altre tramite la partecipazione attiva in comunità islamiche giovanili. Conobbero Rodan, membro originale dei KMD che lasciò il gruppo prima di qualsiasi registrazione, e Onyx the Birthstone Kid, la persona che lo sostituì; a un talent show Daniel conobbe poi MC Serch, membro di un gruppo hip hop chiamato 3rd Bass e quindi già all’interno di un mondo che i due fratelli non avevano ancora scoperto. Fu proprio Serch a portare la voce di Zev Love X su disco per la prima volta, come featuring in una traccia nel primo lavoro della sua band, The Cactus Album; oltre a questo i 3rd Bass introdussero i due – ancora molto giovani – alla vita del musicista hip hop, facendoli assistere alle sessioni di registrazione del disco e portandoli in tour con loro. Durante questi mesi l’idea di dedicarsi seriamente alla musica si fece strada in Zev e Sub, complice anche il successo del singolo The Gas Face, che portò alcune etichette discografiche (tra cui la Def Jam) a interessarsi ai KMD; le cose procedettero velocemente e, grazie alle relazioni discografiche stabilite dai 3rd Bass, i due vennero messi in contatto con Dante Ross dell’Elektra Records, che li incluse nel roster di musicisti rap che l’etichetta stava richiedendo. Al tempo i KMD contavano DJ Subroc alle basi, Zev Love X che oltre all’MCing aiutava il fratello nella produzione dei beat e Onyx the Birthstone Kid, coinvolto esclusivamente in rapping e scrittura. Erano poco più che ragazzini, ma il loro talento e la loro facilità nel processo creativo sbalordirono sia Dante Ross che John Gamble, ingegnere del suono per l’Elektra incaricato di seguire la creazione del disco di debutto. Dopo alcuni mesi di sviluppo e registrazione nel 1991 uscì finalmente il frutto dei loro sforzi, Mr. Hood.
Sebbene la musica dei KMD suoni molto distante dai progetti successivi di Dumile, i due minuti iniziali di Mr. Hood rappresentano un punto di partenza eccellente per introdurre una delle particolarità del Villain: l’uso degli skit. Parte integrante e costante dei suoi dischi, il loro valore trascende quello di semplici intermezzi umoristici. Rivestono infatti un ruolo diverso in ogni lavoro, fungendo da voce narrante alcune volte e da componente chiarificatrice altre, aiutando l’ascoltatore a entrare nel disco quando è necessario, fornendo colore e vividezza quando è opportuno. Un approccio del genere è molto efficace ma non semplice da mettere a punto; chiarire la nascita di questa tecnica è quindi importante, così come è importante specificare la sua funzione nel contesto di ciascun disco, via via che ne parliamo. Zev e Sub ebbero il primo incontro col concetto di incastrare sample a formare una storia più o meno coerente quando erano bambini, ascoltando vecchi programmi radiofonici come Zulu Beats, dove le basi hip hop della Golden Age si univano a scratching e piccoli campioni audio di film, programmi tv e registrazioni varie, fornendo intro e outro alle canzoni del programma e accompagnando le parole del conduttore. In Mr. Hood possiamo trovare la prima rudimentale applicazione di questa idea nelle registrazioni usate come voce per il personaggio omonimo del disco, una sorta di riccone che viene in contatto con Zev Love X e gli altri musicisti incontrandoli in una gioielleria. Le origini della voce sono tanto semplici quanto divertenti: Daniel incappò in un vinile degli anni ’60 contenente tracce per imparare lo spagnolo, e le frasi inglesi scelte lì dentro erano così inusuali che spesso egli si metteva ad ascoltarlo tutto giusto per ridere. In Mr. Hood, tagliando e incollando le frasi dell’uomo prese da quel vinile, i KMD crearono una figura con cui interagire traccia dopo traccia, in contesti diversi. È un espediente forse modesto ma perfettamente adatto al tono dell’album e della band stessa, e va a completare una musica giocosa fatta di break funky, classica braggadocio hip hop, campionamenti esuberanti e atmosfere figlie di quel tipo di sottocultura americana fine anni ’80. Le influenze sono chiarissime: De La Soul e Public Enemy, i primi nel sound e nel modo di rappare, i secondi in una coscienza politica che è inevitabile sviluppare quando sei un giovane afroamericano musulmano in un periodo storico così denso. Sebbene non sia un disco memorabile o importante Mr. Hood è sicuramente divertentissimo, fatto con un gusto indice del potenziale degli artisti coinvolti, ed è perciò un ascolto che consiglierei a chiunque sia interessato a questo modo di intendere l’hip hop. Per chi scrive e per voi che leggete ha poi ulteriori punti di interesse: oltre all’idea degli skit è utile comparare lo stile di Zev Love X a quello del Villain, così da far luce sull’abilità tecnica di Dumile. Nei KMD il flow è arioso, pieno di virtuosismi e piuttosto elaborato, con cambiamenti di tempistiche e misure per rendere l’MCing più scoppiettante; nei dischi successivi al ritorno sulle scene, sebbene altrettanto raffinato ed efficace, è sicuramente meno barocco. Si intuisce che la delivery di DOOM, a volte sul filo della monotonia, non è tale per limiti espressivi di Dumile ma costituisce una componente ben calcolata che aiuta costruire ancora di più il personaggio. Nel flow di DOOM non c’è spazio per hook memorabili o escamotage atti a impreziosire le proprie rime, ma il risultato di questo approccio spartano non risulta mai noioso o anonimo; il particolare incedere asimmetrico delle battute è anzi assai personale ed è probabilmente il motivo per cui molti neofiti della musica hip hop, approcciandosi per la prima volta ai lavori del Villain, non ne capiscono istantaneamente il valore, tacciandolo in alcuni casi di incapacità o incomprensibilità. Occorre dunque realizzare la grande esperienza e versatilità di Dumile come rapper e producer, nonché la creatività che albergava in lui già a 18-19 anni.
Il periodo immediatamente successivo alla maturità è il tempo formativo per eccellenza e il secondo LP del gruppo, Black Bastards, testimonia adeguatamente la crescita dei KMD. Rappresenta la condensazione delle esperienze maturate dopo Mr. Hood, quando i due fratelli ebbero per la prima volta a che fare con l’industria discografica e l’immancabile viscidume al suo interno; fornisce inoltre ulteriore prova che la musica dei KMD è una diretta estensione della loro personalità, in quanto le componenti tematiche e socio-politiche all’interno dei primi due dischi seguono – a parte l’opera di strutturazione secondo il formalismo hip hop del tempo – una parabola che asseconda in maniera del tutto prevedibile la mentalità di un teenager che cresce e sperimenta un nuovo modo di vivere. Nel caso di Black Bastards, la disillusione e i primi accenni di maturità portarono il gruppo a sviluppare un sound dove la giocosità cede in parte il passo a tinte più scure e aggressive, e ciò arriva all’ascoltatore direttamente, tramite campionamenti espliciti e flow emotivamente trasparenti. Rimane comunque evidente la forte vena creativa, espressa anche da un’apertura a modi meno infantili di fare hip hop, con tutto ciò che ne deriva; una parte importante del lavoro di scrittura e composizione del secondo disco venne fatta durante il tour per promuovere Mr. Hood, e Daniel ha espresso in varie interviste quanto il venire a contatto con musicisti di mentalità e stili diversi sia stato utile per loro, artisticamente parlando. Le basi ruotano per la maggior parte intorno a linee di basso semplici ma contagiose; ciò è parzialmente imputabile a Rich Keller, contrabbassista jazz introdotto ai ragazzi dai 3rd Bass, che aiutò in fase di registrazione e fornì saltuariamente specifiche parti di basso e chitarra. La maggioranza delle frasi musicali, ad ogni modo, arriva da campionamenti di vinili funk o jazz trovati facendo crate digging. Un’altra influenza furono i blaxploitation movies, che Sub fece conoscere al fratello intorno a questo periodo, e che su disco si ritrovano specialmente nella scelta dei campionamenti; Daniel porterà parte di questo approccio con sé lungo tutta la sua carriera, traendone il sound rustico e televisivo nonché i temi di vendetta e grandi cattivi. In Black Bastards anche la componente politica si fa più feroce: perfetto esempio di ciò è il sample scelto come intro dell’unico singolo What a niggy now?, dove Gylan Kain dei Last Poets urla infuriato “He was a nigga yesterday, he’s a nigga today, and he’s gonna be a nigga TOMORROW!”. Data l’assenza di Onyx come vocalist aggiuntivo Subroc si trovò a rivestire un ruolo maggiore nel progetto, affiancando il fratello anche nell’MCing e prendendo confidenza con le proprie capacità tecniche; complessivamente, oltre ad essere un prodotto del tutto solido Black Bastards può essere considerato un primo passo verso il tipo di produzione caratteristica delle release di DOOM, e ciò è ulteriore prova dell’impatto che i due fratelli ebbero sui rispettivi stili. Artisticamente, il loro rapporto era simbiotico.
È però necessario definire bene gli eventi: il disco infatti non uscì subito dopo il suo completamento. Nel periodo successivo a Mr. Hood uno dei membri – Onyx the Birthstone Kid – abbandonò la band, lasciando i fratelli Dumile intenti a creare e sviluppare il nuovo album; il lavoro era quasi giunto al termine quando Dingilizwe venne investito da una macchina mentre cercava di attraversare l’autostrada di Long Island, morendo sul colpo. Zev decise di finire l’album anche per portare avanti la memoria del fratello, ma poco dopo averlo completato ricevette una chiamata dalla Elektra Records: le tensioni riguardanti la cover art avevano portato l’etichetta a voler tagliare completamente i ponti coi KMD. Il disegno in copertina, realizzato proprio da Zev, presenta il corpo di un Sambo (già simbolo della band) impiccato, e per il gruppo aveva significato di rottura con ciò che veniva prima – oltre a stabilire una chiara presa di posizione politica. Dante Ross, la persona che li aveva invitati alla Elektra, fu incaricato di consegnare a Daniel le registrazioni originali di Black Bastards e 20.000$. L’etichetta non contemplò neanche lontanamente un cambio di copertina, né offrì a Daniel la possibilità di difendere il proprio operato: una reazione del genere, eccessiva e inspiegabile sul momento, fu in realtà il risultato di una campagna reazionaria di vari influenti critici e scrittori mainstream contro l’uso della parola “nigger” e la grafica del disco, indipendentemente dai messaggi al suo interno. In questo caso, fu un ragazzo già estremamente scosso a pagare il prezzo dell’idiozia altrui.
“After Doom got his check [from Elektra], he looked at it and said, ‘Yo, I should get dropped more often. This is more money than I’ve ever gotten in the music game.’ I know he must have been devastated, but he didn’t seem like it. He was almost Zen-like. I didn’t see him much after that.”
Dante Ross
La release ufficiale di Black Bastards non sarebbe avvenuta fino al 1998. L’unica volta che Zev fece pubblicamente ascoltare il disco prima di quella data fu durante il funerale del fratello, tramite uno stereo che posizionò accanto alla bara. Poi si ritirò dalle scene, mantenendo solo contatti saltuari con le persone che l’avevano aiutato in passato. Raramente la storia concede un andamento degli eventi così cinematografico: la tragedia e il conseguente coping di Daniel Dumile possiedono l’aura dei grandi drammi, e nonostante l’essere affascinati dal dolore di una persona reale (per la quale si nutre rispetto, oltretutto) possa apparire come una mancanza di tatto un appassionato non può evitare di cogliere quanto la linea tra verità e finzione diventi sfocata nel caso di DOOM. Se il diabolico dottore dei fumetti alberga risentimento e furia per un mondo che ha ignorato il suo genio, trattandolo con indifferenza e costringendolo indirettamente a portare avanti esperimenti sempre più rischiosi, allora nel caso di Dumile il rancore è rivolto verso le logiche di mercato e l’industria discografica, colpevole di aver piegato la testa al business ostacolando l’unico modo per onorare la memoria di Subroc. Proprio come Dr. Doom, nostro antieroe deve quindi escogitare un piano per vendicare i torti che gli sono stati fatti: l’unica cosa di cui ha bisogno è tempo. Quasi cinque anni, per essere precisi. Durante quel periodo non si sa molto di lui, a parte le testimonianze di amici e conoscenti che descrivono un Daniel confuso, lacerato dal dolore ma intenzionato a supportare la famiglia – economicamente ed emotivamente – costi quel che costi; così, considerato che Black Bastards era in suo possesso, Dumile decise di provare a rilasciarlo tramite un’etichetta diversa. Purtroppo il progetto non andò a buon fine. La controversia intorno al disco era ormai troppo grande, catalizzata da varie dichiarazioni di influenti personalità nel circuito musicale che vedevano la copertina come un vero e proprio sputo in faccia alle lotte civili afroamericane. Dumile decise quindi di sparire, vivendo di espedienti per due anni, praticamente senza fissa dimora. Sarebbe ritornato come MF DOOM.
La riapparizione avvenne tramite la Fondle ‘Em Records, piccola etichetta indipendente in mano ad una vecchia conoscenza di DOOM, Bobbito Garcia; venne pubblicato un singolo contenente tre tracce: Dead Bent, Hey e Gas Drawls. Altri singoli vennero fatti uscire tra il 1996 e il 1998, in compagnia di Black Bastards e tutti gli altri pezzi mai pubblicati dei KMD: la storia di Zev Love X aveva finalmente raggiunto una degna conclusione. Molti dei singoli prodotti in solitaria da Dumile divennero poi parte di Operation Doomsday, primo LP ufficiale del Villain, che costituisce già un cambiamento significativo per quanto riguarda l’approccio al genere. Il flow è più astratto e particolare, le basi più brillanti e fumettistiche; se in passato le parti vocali di Zev Love X potevano essere descritte come un misto tra Q-Tip e Posdnous, la creazione del personaggio DOOM costituisce una profonda modifica stilistica, spingendo verso qualcosa di originale e moderno. Che tu abbia talento o meno, è tuttavia praticamente impossibile perfezionare ogni aspetto della tua arte alla prima occasione, e prevedibilmente Operation Doomsday possiede una serie di imperfezioni e difetti, a partire dalla scarsa omogeneità delle registrazioni (soprattutto per quanto riguarda la voce), passando per sonorità ancora parecchio acerbe e un MCing non completamente affinato, oltre ad alcune basi poco ispirate. Si pensi a Dead Bent e al suo sample di Isaac Hayes troppo insistente e continuo, oppure alla struttura monotona di Doomsday, con lo scratching che diventa quasi elemento di fastidio e la base eccessivamente statica. Nonostante ciò, operando delle considerazioni storicistiche è possibile riuscire a comprendere in maniera più profonda il valore di questo cambiamento, indice di una presa di coscienza nei confronti del proprio operato e di uno spirito avverso a compromessi e logiche di mercato. Mr. Hood e Black Bastards sono probabilmente album più riusciti, ma Operation Doomsday è senza ombra di dubbio piùimportante.
“On Doomsday – ever since the womb, till I’m back where my brother went // That’s what my tomb will say”
MF DOOM, Doomsday
Già dalle prime apparizioni nei locali open mic di Manhattan Dumile decide di nascondere la propria identità, inizialmente coprendosi il volto con una calza da donna e optando poi per una maschera vera e propria. Per DOOM, ciò costituisce prima di tutto un espediente atto a sminuire l’importanza attribuita dal pubblico all’identità del musicista, facendo così risaltare la sua arte e le sue abilità; egli aveva notato fin dagli anni ’90 il ruolo sempre maggiore rivestito da immagine, vestiti e stile, prima conseguenza della crescente diffusione dell’hip hop in televisione. In linea teorica un ragionamento di questo tipo è in pieno accordo col suo carattere ma, paradossalmente, la figura del rapper perennemente mascherato è finita per diventare talmente iconica da costituire essa stessa fonte di distrazione dal puro prodotto musicale. Detto ciò, ai tempi Dumile non aveva ancora rilasciato dischi acclamati universalmente, e non poteva certo prevedere la fama di cui sarebbe andato a godere, dunque possiamo concludere con un buon grado di sicurezza che la soluzione escogitata da DOOM fosse davvero portata avanti in opposizione alle logiche di mercato. I dischi rilasciati in tutti questi anni vanno a conferma di questo fatto in quanto non seguono mai ciecamente la moda o i desideri del pubblico, prendendo rischi e risultando sempre molto personali. Non è tutto: il valore della maschera trascende quello di semplice dichiarazione politica. Come visto nei paragrafi precedenti, la vena artistica di Daniel Dumile scorre potente e profonda, tanto da definire le sue azioni e la sua personalità lungo tutta la sua vita; seguendo questa linea di pensiero è logico che la maschera non sia solo un accessorio bensì parte integrante del progetto complessivo, un ingranaggio indispensabile per far funzionare il mondo in cui le varie personalità create dal rapper esistono contemporaneamente. Se la dedizione di Dumile nei confronti dei suoi alias non fosse continua e completa tutto perderebbe parte del proprio fascino, finendo per essere poco più di una stramberia. Nel corso del tempo la maschera è cambiata da una prima versione in plastica, più rudimentale, al volto in metallo presente sulla copertina di Madvillainy; a dire il vero, la prima resa era una maschera di Darth Maul dipinta d’argento e modificata da Blake Lethem, famoso graffitaro anche conosciuto come KEO. Fu sempre lui ad occuparsi della versione finale, partendo da un elmo di metallo del Gladiatore che alterò e ridipinse, sistemandolo in maniera da renderlo più comodo e indossabile in ogni occasione. Fin dall’inizio, la maschera è sempre stata molto più di un gimmick adottato al fine di distinguersi dagli altri: per quello bastano l’intelligenza e l’umorismo dei versi, uniti alla sua abilità nel recitarli; è piuttosto un simbolo carico di significati, alcuni estrapolabili mentre altri, probabilmente, conoscibili solo da Dumile, che ha deciso di percorrere la strada della celebrità in anonimato.
“He wears a mask just to cover the raw flesh // A rather ugly brother with flows that’s gorgeous”
MF DOOM, Beef Rapp
PARTE 3: DOOM PERFEZIONA IL SUO APPROCCIO
Dopo Operation Doomsday MF DOOM continuò a concentrarsi sulla sua musica, collaborando col rapper MF Grimm in due occasioni (l’EP chiamato semplicemente MF e l’LP The Downfall of Iblys: a Ghetto Opera) e iniziando a pubblicare raccolte di basi sotto lo pseudonimo Metal Fingers; i vari volumi di queste Special Herbs costituiscono un’ottima fonte di approfondimento sull’attività di beatmaker di Dumile, ed essendo uscite in maniera consistente tra il 2001 e il 2005 aiutano a tracciarne adeguatamente l’evoluzione. Quei 4 anni sono infatti i più importanti per DOOM: i capolavori che l’hanno innalzato a uno status quasi leggendario nel panorama hip hop sono stati tutti rilasciati durante questo periodo, ed avere la possibilità di ascoltare molte basi usate poi per dischi di tale levatura in maniera decontestualizzata è senz’altro interessantissimo. Spendiamo intanto due parole per The Downfall of Iblys, prodotto per metà da DOOM che infatti appare come vocalist in due tracce. La storia intorno alla creazione del disco è particolare e piuttosto poetica: MF Grimm, condannato all’ergastolo per crimini relativi alla vendita di droga, paga una cauzione di 100.000$, ma nonostante ciò l’andamento processuale gli consente di star fuori di prigione per un singolo giorno. In queste 24 ore spende tutto il suo tempo a scrivere, produrre e registrare questo lavoro, raccogliendo le idee che aveva in testa da tempo e condensandole su carta il più velocemente possibile. Viene aiutato da numerosi altri artisti, due su tutti MF DOOM e Count Bass D, e il risultato è una sorta di concept album riguardante la storia dell’angelo Iblys; Grimm narra le vicende nel disco utilizzando uno stile che si avvicina spesso e volentieri all’hip hop più alternativo, soffermandosi a parlare di relazioni interpersonali e temi classici come amore, morte e rinascita. Per quanto riguarda i beat forniti da DOOM lo stile è ampiamente riconoscibile, e a livello qualitativo loop come quelli di Voices pt.0 e I.B.’s sono tranquillamente capaci di reggere il confronto col materiale contenuto nei lavori del Villain. Nonostante ciò, DOOM non ha ancora conquistato appieno la capacità di integrare le parti che costruisce nella struttura generale del pezzo; ascoltando i dischi cronologicamente ci si accorge che dal 2003 in poi la geometria dei beat è gestita in maniera sempre più creativa e sapiente. La ripetizione dei segmenti che costituiscono ciascuna base viene continuamente nascosta e manipolata: DOOM opera piccoli cambiamenti, tramite minute variazioni dei sample o cambi di tonalità e aperture, e riesce così a tenere alta l’attenzione dell’ascoltatore mantenendo il coinvolgimento costante. In The Downfall of Iblys, invece, spesso e volentieri fornisce sì un loop solido e apprezzabile ma lo lascia suonare per troppo tempo, facendo uscire chi ascolta dal flow del disco. Questo è proprio uno dei motivi per cui è utile immergersi nelle raccolte Special Herbs: per fare un esempio, il beat di Foolish non è di qualità inferiore a quelli contenuti in Mm.. Food (il mio album preferito di DOOM, ne parleremo a tempo debito), ma la maniera in cui è inserito nella traccia è più rudimentale, più canonica e statica. Nella musica hip hop la capacità di strutturare un pezzo mantenendo l’armonia tra le varie parti e formando un prodotto creativo e coeso si acquisisce solo con l’esperienza, ed è ciò che distingue un musicista decente da un maestro; detto ciò, DOOM è solo all’inizio della sua ascesa.
Take Me to Your Leader di King Geedorah rappresenta un primo passo avanti. In questo disco Dumile si firma con lo pseudonimo nato dalla sua partecipazione nei Monsta Island Czars, crew hip hop i cui membri utilizzano nomi di mostri presi dal mondo di Godzilla; in particolare, King Geedorah è un enorme dragone a tre teste, arrivato sulla terra da un mondo alieno chiamato Planet X. La storia del personaggio è narrata nelle varie tracce, veicolata tramite i già menzionati skit, dove varie registrazioni vengono manipolate formando un collage di voci da cartone animato. Arrivati a Take Me to Your Leader l’utilizzo di questa tecnica è stato ormai ampiamente raffinato: il cut-and-paste è impeccabile, la realizzazione complessiva estremamente personale e le fonti utilizzate coerenti col tono del disco. Questo tipo di narrazione è ormai uno dei segni distintivi del Villain, ed è molto importante in quanto riesce a fornire vividezza e colore al mondo che sta venendo presentato all’ascoltatore. I suoi personaggi sono sempre grandiosi e appariscenti, pertanto le loro opere devono avere un’ampia risonanza, che non si può esinguere nelle linee di bragging pronunciate da loro stessi: entrano dunque in gioco le voci di scienziati preoccupati, politici minacciosi e cittadini terrorizzati a dar l’idea di un qualcosa che interessa il mondo intero. Dal lato strettamente musicale produzione e qualità delle registrazioni si sono senza dubbio solidificate rispetto ai primi lavori, ma il fatto che l’MCing sia lasciato ad altre persone in quasi tutto il disco fa sorgere un problema di congruenza: le basi di Dumile hanno sonorità particolari che necessitano di essere comprese a fondo, e per i rapper meno brillanti ciò può risultare un compito troppo oneroso. In vari momenti si percepisce infatti una sorta distacco tra le vocals e le parti strumentali, come se mancasse il feeling presente quando i versi vengono pronunciati dal timbro baritonale del Villain. Ironicamente, fa eccezione l’unico ospite a non essere un vero e proprio musicista, Mr. Fantastik: la sua delivery semplice ma precisa e il tono di voce quasi sardonico calzano a pennello con la base del pezzo in cui è presente (Anti-Matter). Il rapporto tra lui e DOOM è sconosciuto, così come sconosciuta è la sua identità – anche se i fan hanno fatto numerose speculazioni a riguardo; l’unica altra sua apparizione è in una traccia di Mm.. Food (dove regala una performance ancora più brillante) ma per quanto se ne sa non ha mai registrato nient’altro né ha prodotto musica propria, e quando un giornalista chiese a Dumile chi fosse questo personaggio misterioso il Villain si limitò a rispondere: “Mr. Fantastik no longer exists”. Storielle a parte, un altro difettuccio che mi sento di sottolineare risiede nella debolezza di certe linee melodiche, che tendono a rendere pezzi come I Wonder eccessivamente melensi, però parte della colpa ritorna alla questione dei featuring, considerando che anche in questo caso il rapper in questione sembra lievemente fuori posto. Considerando il prodotto complessivo Take Me to Your Leader è abbastanza solido, ma si può fare di meglio e DOOM lo sa: lo stesso anno pubblica infatti Vaudeville Villain sotto il nome Viktor Vaughn, e con questa release ci troviamo finalmente di fronte al suo primo capolavoro.
V. Vaughn, the travelin’ Vaudeville Villain. Nel disco Dumile assume le sembianze di Viktor Vaughn, quasi un DOOM in erba con tutta l’arroganza e la mancanza di esperienza che la giovane età comporta; come Geedorah, anche Vik viene da un mondo diverso, o forse una diversa dimensione, ma si trova bloccato sulla terra e decide così di saggiare un po’ l’ambiente musicale del pianeta sconosciuto cimentandosi in diverse open mic nights – portate su disco tramite alcuni skit esilaranti. Vaudeville Villain è un album particolare e incredibile: pur entrando alla perfezione nell’universo creato da Dumile certe tinte fumettistiche presenti nei beat vengono perse in funzione di un sound più eclettico, che unisce alla formula hip hop ormai consolidata un umorismo più audace e un approccio in varie occasioni simile a quello di rapper alternativi come Illogic o Eyedea. In realtà gli ultimi due sono paragoni che si esprimono per vie abbastanza traverse, ma stanno a rappresentare un tipo di coscienza diversa, fino ad ora completamente assente dallo stile del Villain. Considerato che in questo disco Dumile non mette mano sulla produzione – lasciando il lavoro ai beatmaker dell’etichetta per cui è uscito, la Sound-Ink – c’è effettivamente da aspettarsi che il sound complessivo risulti differente, e questo è l’unico motivo per cui giudico Mm.. Food un prodotto ancora più valido: gli ospiti fanno un ottimo lavoro, ma non è possibile raggiungere il livello di comfort presente quando il Villain, all’apice della sua creatività, costruisce un pezzo con già in mente i versi che lui stesso andrà a spararci sopra. Ad ogni modo ritengo questa una preferenza personale, perché il lavoro svolto da tutti i contribuenti su Vaudeville Villain è incredibile: le basi sono estremamente creative e diversificate ma risultano comunque coese, l’evoluzione delle canzoni è imprevedibile e non si adagia mai per troppo tempo su una stessa idea, e Dumile fornisce un tipo di scrittura che è spanne sopra a tutte le cose da lui pubblicate fino a quel momento in termini di intelligenza e acume. Inoltre, se in Take Me to Your Leader i featuring erano deleterei per l’omogeneità del disco, in Vaudeville Villain forniscono respiro e diversità, esaltando le tinte inedite che ho menzionato sopra. In Open Mic Nite, Part 1 ad esempio Rodan spende i suoi pochi secondi di gloria adottando il flow sbilenco di Kool Keith, mentre Louis Logic (un altro featuring) va a porsi esattamente a metà tra Eminem e il già citato Eyedea; per un beatmaker, dare una tale identità a un frammento di 30 secondi non è impresa semplice, così come non lo è per un rapper. C’è persino M. Saayid dell’Antipop Consortium a rappare di fianco a Vik in una delle tracce migliori del disco, Never Dead: i due si alternano più volte in un ping pong di versi frammentari, sollevati e assecondati dal pulsare di una base che sembra – ancora una volta – uscita direttamente da alcune delle produzioni più scure di Dr. Octagon. Vaudeville Villain è l’album simbolo della piena maturità artistica di Dumile, primo gioiello sulla metaforica corona di un uomo che, più che regnare su un genere musicale, mira ad organizzare un colpo di stato ai suoi danni, restando nell’ombra.
PARTE 4: ALL CAPS
Non commenterò ogni singola release di MF DOOM. Il motivo è semplice: il 2003/2004 fu un periodo estremamente prolifico, con ben 13 dischi a suo nome tra alias vari e raccolte di beat; prevedibilmente alcuni di questi lavori sono poco interessanti, una sorta di brutta copia scritta e registrata in fretta, mentre altri hanno magari qualche buona intuizione qua e là ma sono visibilmente incompleti. Analizzare ogni minuto di qualcosa che non fornisce niente di significativo in più per comprendere la poetica di Dumile sarebbe inutile e borioso. Dopotutto, l’artista stesso ha spiegato i motivi dietro alla mole di lavori concentrata in un periodo così breve di tempo, affermando che ciò nasce dalla possibilità di poterlo fare e dalla volontà di cogliere al balzo l’interesse e la fama ormai acquisita nell’ambiente hip hop. Non che quei lavori siano una forzatura: Dumile specifica che lui avrebbe registrato lo stesso, e parte del materiale l’avrebbe semplicemente tenuto per sé, o come riferimento o in forma di bozzetti per il futuro; ma la gente era interessata e le etichette bussavano alla sua porta, e lui non vedeva alcuno svantaggio nell’accettare ogni contratto che gli veniva presentato, se esso sottostava a determinati canoni di libertà artistica e non contemplava il legarsi a una specifica label per un lungo periodo di tempo. Dopotutto, ogni progetto porta soldi per lui e la sua famiglia. Memore delle disavventure passate, DOOM è riuscito a camminare su questo filo di rasoio in maniera senz’altro efficace: lavori come Special Blends 1+2 (dove le basi di Metal Fingers vengono mixate con vocals iconiche di altri performer hip hop) e (VV: 2) Venomous Villain (il sequel del primo disco di Viktor Vaughn) sono oggettivamente sottotono, ma la loro esistenza non ha inficiato in alcun modo la cura dedicata da DOOM ai suoi lavori più brillanti, e pertanto da appassionato posso accettare a cuor leggero l’idea che qualche release sia stata frettolosamente pubblicata solo per guadagnare un po’ di soldi. Nessuno mi obbliga a comprarle, dopotutto. È la maniera di agire più nobile del mondo? No. Ma non dimentichiamo l’aspetto fondamentale dell’intera faccenda: DOOM è un cattivo. Questo fatto va interiorizzato.
“He plots shows like robberies // In and out, one, two, three, no bodies, please
MF DOOM, One Beer
Run the cash and you won’t get a wet sweatshirt // The mic is the shotty: nobody move, nobody get hurt
Bring heat, like your boy done gone to war // He came in the door, and ‘Everybody on the floor!’
A whole string of jobs, like we on tour // Every night on the score, coming to your corner store”
Daniel Dumile non è perfetto. Non è un performer incredibile come Kendrick Lamar, non ha l’etica di lavoro ineccepibile dei Radiohead, che li spinge a rendere ogni esibizione inattaccabile. Il suo personaggio è antitetico al concetto di duro lavoro e impegno continuo; essendo un supercattivo egli si comporta come tale, e come ho scritto precedentemente una carenza di dedizione a questo ruolo potrebbe far crollare tutto il castello di carte. Giudico perciò inconcepibile e sbagliato che molte persone si lamentino una volta venute a contatto con una tattica resa celebre da DOOM, che negli anni ha più volte sollevato controversie e creato scalpore: ai suo concerti, capita spesso che Dumile mandi impostori a rappare sotto tracce preregistrate, usando l’onnipresente maschera per nascondere il falso al pubblico. Quando l’impostore non riesce a reggere il gioco le cose possono farsi pesanti, e ci sono stati casi in cui i fan si sono ribellati uscendo in massa dal concerto e distruggendo gli stand dove veniva venduto il merchandise. Una reazione del genere, forse comprensibile per un artista normale, è del tutto insensata quando si parla di DOOM. Leggendo il verso all’inizio di questo paragrafo le motivazioni della sua condotta diventano evidenti: il Villain non fa ciò che fa per il pubblico, bensì per motivi di egoismo, perché ha bisogno di dimostrare la sua abilità e perché vuole guadagnare e “conquistare il mondo” utilizzando qualsiasi mezzo egli ritenga appropriato. E se questo è il caso, se è il concetto dietro al progetto MF DOOM ad essere importante, perché dovrebbe sempre andare di persona? I soldi li ha già ricevuti. È già tanto se non lascia il palco vuoto. Comprare un biglietto per vedere questo artista vuol dire stare al suo gioco, considerare prezioso il modo creativo e inusuale con cui Dumile si rapporta al business musicale ed essere pertanto disposto a pagare denaro, supportandolo esclusivamente per questo. Poi quello che succede succede: è un po’ come accettare volontariamente di essere rapinati da un personaggio famoso. Non so se lo farei, ma ringrazio che una cosa del genere esista in quanto divertentissima, di certo non sto a lamentarmi, considerato il grado di trasparenza della faccenda; anzi, oserei dire che considero questo tipo di attitudine positiva in un periodo dove molti artisti famosi si stanno imborghesendo, allontanando sempre di più l’idea di prendere parte a un qualcosa di davvero nuovo e inusuale. Il fatto che queste logiche non tocchino per niente il Villain è ciò che un vero fan dovrebbe amare – se la musica regge il gioco. Lo regge? Andiamo a parlare un po’ dei miei due dischi preferiti in tutto il catalogo di MF DOOM, Mm.. Food e Madvillainy, entrambi rilasciati nel 2004.
Andando in ordine cronologico il primo che troviamo è Madvillainy, rilasciato a marzo. Una volta arrivato il nuovo millennio, lo stile di DOOM stava cominciando a raccogliere consensi e acquisire pubblico, come testimoniato dalla mole sempre maggiore di offerte che gli venivano proposte. Il carattere del Villain è però quello che è, e non va certo a braccetto con le responsabilità di cui uno deve caricarsi se vuole coltivare la propria fama. Pertanto egli era difficilmente rintracciabile, si muoveva continuamente da stato a stato e cambiava etichette altrettanto frequentemente; non aveva un manager vero e proprio, persino amici e famiglia non sapevano sempre dove si trovasse. In casi come questi la perseveranza paga e la Stones Throw – famosa etichetta hip hop – riuscì ad ottenere l’indirizzo di Dumile da una sua conoscenza, un vecchio amico che abitava vicino a lui. Seguì una telefonata con Peanut Butter Wolf, fondatore dell’etichetta: il producer e rapper Madlib aveva sentito i lavori passati del Villain ed era interessato a collaborare. DOOM, invece, non aveva mai ascoltato niente dell’altro né sapeva chi fosse. Solo dopo aver sentito e apprezzato i progetti del producer californiano egli accettò di volare a Los Angeles per conoscerlo, probabilmente spinto sia da curiosità sia dal profumo di un’opportunità potenzialmente molto remunerativa. I due andarono subito d’accordo. A sentire entrambe le parti c’era una forte connessione, una somiglianza di mentalità che essi condividevano, pur avendo stili molto diversi: decisero quindi di registrare il disco. Il luogo di lavoro fu l’edificio in affitto che fungeva sia da studio per Madlib sia da sede per l’intera Stones Throw, una sorta di rifugio antiatomico sulle Washington Hills. La lavorazione dell’album fu tanto serrata quanto rilassata: i due artisti fumavano molto, parlavano poco, lavoravano soli. Si vedevano solo per coordinare i vari aspetti del progetto e scambiarsi i frutti del rispettivo lavoro. Secondo DOOM comunicavano attraverso la musica, e la grande affinità permetteva loro di creare un prodotto coeso anche agendo in solitaria. Ascoltando il disco, la musica conferma le sue parole. In Madvillainy rime e basi vivono in un perfetto equilibrio di temi, stili e atmosfere, e l’album è senz’altro uno dei prodotti più solidi e creativi del catalogo di entrambi gli artisti – cosa non da poco, in entrambi i casi. Ci furono però alcune difficoltà nel portare a termine il progetto: la mancanza di fondi nell’etichetta, il perfezionismo capriccioso di DOOM, e un leak non autorizzato che portò all’involontaria pubblicazione di una versione demo del disco intero. Quasi tutte le vocals furono dunque riregistrate, in favore di una delivery più pacata e (solo in apparenza) neutra. Probabilmente è meglio così, in quanto nel prodotto finito che tutti noi ascoltiamo oggi la performance di DOOM è ineccepibile, forse il punto più alto della sua carriera a livello di originalità e creatività della scrittura. I ritornelli sono inesistenti, i pezzi assemblati in guisa di pillole che raramente superano i due minuti eppure l’album suona spontaneo e fluisce come pochi altri, forte di una produzione particolarissima e un sampling curato nei minimi dettagli. Il sound è estremamente moderno, in netta opposizione a quella produzione ingombrante (e a mio avviso volgare) che Kanye West si accingeva a portare alla ribalta in quegli anni; per quanto riguarda la scrittura delle rime l’approccio di DOOM è arguto, pieno di similitudini, citazioni e giochi di parole. È l’esempio più lampante di un modo di fare da lui spiegato in varie interviste: oltre a pensare a ciò che vuole comunicare, egli cerca sempre si strutturare le sue rime immaginandosi la reazione dell’ascoltatore, cercando un dinamismo tra le varie parole che non spinga a seguire ciecamente il flow; il ruolo di chi ascolta deve essere attivo, di ragionamento e comprensione oltre che di divertimento. Madlib segue questo intento alla perfezione fornendo basi che vanno dal quirky allo psichedelico, forti di una scelta di suoni e campionamenti così consistente da impedirmi di trovare un solo pezzo sottotono in 22 tracce. In un’intervista del 2002, a un Madlib piacevolmente ribaltato venne chiesto chi fossero i suoi idoli: lui si limitò a rispondere Sun RZA. Si sentono entrambi, in una simbiosi di vari generi musicali che permette solidità strutturale e un tiro fuori dal comune (Raid, America’s Most Blunted) senza che ciò impedisca alla musica di perdersi in digressioni cosmiche con pochi precedenti nel genere in questione (Meat Grinder, Shadows of Tomorrow). Anche se è difficile quantificare l’influenza di un disco del genere, particolarmente perché – come ho detto prima – è uscito poco prima che West cominciasse a vomitare la sua robaccia, più o meno mezzo mondo musicale ha detto a un certo punto di essere stato influenzato dal duo di supercattivi, e credo che il peso esercitato da Madvillainy si possa esercitare solo in positivo, considerato quanto il disco è rifinito e privo di tamarrate o passi falsi stilistici.
Come detto poco fa, Madvillainy è indiscutibilmente l’album più acclamato nel catalogo di MF DOOM, e in effetti la fama di cui gode è in larghissima parte meritata; ma essendo una collaborazione quasi 50/50 con un altro musicista dallo stile altrettanto personale esso non può racchiudere appieno lo spirito dell’artista al quale abbiamo dedicato così tante righe. Se si cerca una release che sia il distillato di tutte le caratteristiche del Villain occorre necessariamente guardare nella direzione di Mm.. Food, rilasciato nel novembre dello stesso anno sotto la Rhymesayers (label nel cui catalogo figurano artisti del calibro di Aesop Rock ed Eyedea). Questo è ad oggi – e presumibilmente lo resterà anche in futuro, considerata la parabola discendente delle ultime release di Dumile – il prodotto più personale di MF DOOM; contiene tutti i marchi di fabbrica già discussi in questo scritto, dagli skit – qua sapientemente fusi coi beat – alla produzione da cartone animato, dallo stile di campionamento alla delivery. I suoni di Mm.. Food sono grezzi, in perenne flirting col lo-fi pur risultando sempre bilanciati; è il coronamento di un processo creativo che parte dalla componente musicale, nascendo da un loop o da un concetto interessante. Tutto il lavoro che viene poi operato è conservativo, teso a mantenere lo spirito della fonte originale: la scelta dei campionamenti è quindi vitale, e il crackling di un vinile o il raspare televisivo di una certa registrazione può significare il mondo per quanto riguarda l’immersione dell’ascoltatore all’interno della storia. A differenza di quasi tutti gli altri album, in questa release DOOM si occupa sia della produzione che del rapping (eccezion fatta per One Beer, prodotta da Madlib, e per i vari featuring); Mm.. Food suona pertanto più familiare, e abbandonando ogni scelta artistica finalizzata esclusivamente alla sperimentazione Dumile riesce a far esplodere tutto l’estro fumettistico che in altri album (Operation Doomsday, Take Me to Your Leader) era in qualche modo frenato da componenti estranee. Un ammiratore del Villain non può che sentirsi a casa. Strutturalmente parlando, il disco è una sorta di doppio concept-album: gli skit narrano la storia dell’ennesimo piano diabolico di DOOM, che mira a controllare telepaticamente tutti i leader mondiali, e di come un gruppo di ragazzi riesca a sventarlo; le tracce e il tema generale ruotano invece attorno al cibo, utilizzando similitudini culinarie sia per il bragging che per mettere su disco opinioni in linea col carattere del Villain o sentimenti personali. Abbiamo così Beef Rapp, dove il buon rap viene preso come fonte di sostentamento, e Deep Fried Friendz, cinica riflessione sull’amicizia e sui tradimenti subiti in passato. Nonostante qualche momento più commovente ( Kon Karne, dedica al fratello Subroc) il complesso è brillante e colorato, e l’universo fantastico di DOOM più vivo che mai; è senza dubbio l’album che consiglierei a un neofita desideroso di cominciare a capire un artista non sempre accessibile, ma ciò non significa che la poetica di Dumile sia annacquata o in qualche modo semplificata. Piuttosto, definirei Mm.. Food come una perfetta sintesi dei motivi per cui DOOM gode di così tanto rispetto, oltre che una chiave di lettura efficace per capire limiti e punti di forza dei suoi altri lavori.
Non per niente, Mm.. Food è l’anagramma di M.F. DOOM.
Mm.. Food è l’ultima release di DOOM tranquillamente definibile capolavoro. I progetti successivi, spesso di fianco ad altri artisti più o meno famosi, risultano godibili ma non riescono mai a raggiungere i picchi espressivi delle sue release migliori. L’unica eccezione è Born Like This, album criminalmente sottovalutato che vede il Villain accompagnato dalla produzione di Madlib, ormai compare fisso, e persino dell’ormai defunto J Dilla. Prima di parlare di quest’ultima gemma, citiamo brevemente gli altri progetti che comunque un ascolto lo meritano: prima di tutto c’è The Mouse and the Mask, dove DOOM si unisce a Danger Mouse a formare i DANGERDOOM. L’album presenta una produzione vivace e catchy, e vede il Villain interpretare testi che hanno come tema comune le serie tv animate di Adult Swim. Nel complesso si tratta di un’opera solida e piacevole, che potrebbe andare a genio proprio agli estimatori di Mm.. Food, considerata l’atmosfera generale. C’è poi NehruvianDOOM, disco omonimo di una formazione che stavolta vede collaboratore Bishop Nehru, giovane MC americano. DOOM si occupa della produzione, confezionando un disco carino ma fondamentalmente innocuo: è un prodotto per fan, privo di sbagli clamorosi e consistente nel tono ma purtroppo altrettanto privo di pezzi memorabili. Bishop Nehru stesso è abbastanza mediocre come performer, pur sapendo quello che fa. Ascoltatelo solo se siete molto affezionati ai suoni dei bei tempi. Per il resto, le collaborazioni con Masta Ace e Janeiro Jarel sono ancora più dimenticabili, senza alcun punto di interesse, perciò le salteremo: parliamo di Born Like This.
È un disco decisamente particolare. DOOM è infuriato: le tinte sono scure, i campionamenti e le linee di basso viscerali percuotono l’ascoltatore con una scarica di cazzotti che non si interrompe neppure durante il recitativo di Charles Bukowski, da cui l’album trae il nome; questa digressione poetica, dove la registrazione originale dell’autore viene incorporata alla musica, forma un prodotto incredibilmente personale che nei momenti più scuri arriva a ricordare Black Smoke Rises dei dälek, altro poema di violenza e desolazione contenuto nel loro capolavoro From the Filthy Tongues of Gods and Griots. I punti di divergenza delle due tracce donano a ciascuna di esse la propria genialità: se i dälek presentano un qualcosa di profondamente astratto ed ermetico, il pezzo di DOOM pare invece l’attimo di introspezione del cattivo, dove tutto il livore e il disgusto per sé stesso e gli altri viene riversato fuori in un fiume di rancore nascosto dietro al calmo incedere dei versi. Il resto dell’album non è da meno, col Villain che fornisce una delivery aggressiva, stavolta abbandonando il flow monocorde in favore di un tono di voce più volte sul punto di trasformarsi in un grido; Gazzillion Ear, Rap Ambush, Microwave Mayo sono tutti esempi di questa attitudine senza precedenti. Sotto tutti i punti di vista, Born Like This è il miglior disco dai tempi di Mm.. Food; purtroppo, e non riesco a capire bene il perché, tra gli estimatori di DOOM rappresenta un punto di discordia, con ammiratori e detrattori in netta opposizione. Forse è l’atmosfera truce. Forse sono le basi, che hanno perso la comicità dei lavori precedenti. Forse è il passaggio a un’ironia più amara e cattiva. In ogni caso, nel mio modo di intendere la musica queste caratteristiche non sono certo difetti, e considerato che DOOM ha sempre condotto la sua carriera incurante di mode e gusti del pubblico non posso che considerare Born Like This come l’ultimo, temibile ruggito di una delle figure più memorabili nella storia della musica hip hop.
We are born into this sorrowful deadliness
Charles Bukowski – Dinosauria, We
There will be open and unpunished murder in the streets
It will be guns and roving mobs
Land will be useless
Food will become a diminishing return
Nuclear power will be taken over by the many
Explosions will continually shape the earth
Radiated men will eat the flesh of radiated men
The rotting bodies of men and animals stink in the dark wind
And there will be the most beautiful silence never heard
Born out of that
The sun hidden there
Awaiting the next chapter
Bibliografia
Cartacea:
- The Source #46 (Luglio 1993) & #56 (Maggio 1994)
- Check the Technique 2: More Liner Notes for Hip-Hop Junkies, di Brian Coleman
Online:
- Wikipedia
- The Mask of Doom: a Nonconformist Rapper’s Second Act, di Ta-Nehisi Coates
- Searching for Tomorrow: The Story of Madlib and DOOM’s Madvillainy, di Jeff Weiss
- RateYourMusic (varie liste sul sito, principalmente per le date d’uscita e il personale coinvolto nei dischi)
Interviste
- DOOM (RBMA Madrid 2011 Lecture)
- A Rational Conversation: The 20-Year-Old Album That’s MF DOOM’s Missing Link
- Doom Interview (Ediction UK)
- MF DOOM: in depth interview with Benji B
Poi decine di ascolti sparsi in oltre cinque anni, riflessioni, conferme e smentite.