CONTAINER BELLO

UNA CELEBRAZIONE DI BITCHES BREW, MA CON UNO SGUARDO CONTEMPORANEO

LONDON BREW – LONDON BREW

Concord Jazz

2023

Jazz Fusion

Il disco d’esordio dei London Brew è in giro ormai da qualche mese – la Concord Jazz l’ha pubblicato il 31 marzo – ma la sensazione è che qui in Italia la sua uscita non sia stata accompagnata dal clamore che solitamente circonda molte delle produzioni dell’attuale scena jazz londinese. Il che mi è sinceramente sorprendente, visto che London Brew è un album che sembra essere stato realizzato apposta per solleticare la curiosità degli appassionati in ogni suo dettaglio, a partire dalla sua stessa backstory. Il progetto parte dai produttori Martin Terefe (famoso soprattutto per aver prodotto dischi e singoli per KT Tunstall, Elisa, MIKA, James Blunt, e Jason Mraz, con cui ha vinto pure due Grammy… diciamo che c’è stata gente finita alla forca a Norimberga che poteva vantare curriculum più nobili) e Bruce Lampcov (che perlomeno tra una Barbra Streisand e un Bon Jovi ha lavorato anche con Bruce Springsteen, James Blood Ulmer e Peter Gabriel): nel 2020, i due partoriscono l’idea di celebrare i cinquant’anni di Bitches Brew radunando un ensemble di musicisti inglesi che propongano in giro per l’Europa una musica che sia ispirata alle sonorità e alla creatività del capolavoro di Miles Davis, ma anche sostanzialmente moderna e nuova. Le personalità scelte per formare i London Brew rappresentano nel complesso un who is who del panorama britannico (specialmente jazz, ma non solo) del nuovo millennio, e anche se magari certi nomi non vi diranno niente potete stare sicuri che se seguite l’ambiente anche solo superficialmente li avrete ascoltati più o meno tutti, chi da una parte e chi da un’altra. C’è la sassofonista Nubya Garcia, che oltre a diversi titoli da leader particolarmente apprezzati dalla critica ha suonato anche con Sons of Kemet, Maisha, Yazz Ahmed e pure con Makaya McCraven sullo splendido Universal Beings; c’è Theon Cross, che ha prestato la sua tuba ai Sons of Kemet (di nuovo) a anche agli Ill Considered, ai The Smile e pure a Lafawndah per non farsi mancare niente; c’è Tom Skinner, batterista pure lui per i soliti Sons of Kemet e The Smile ma anche per i Melt Yourself Down, tra gli altri; c’è Raven Bush, ora violinista degli Heliocentrics ma che ha curato gli arrangiamenti d’archi anche per Kae Tempest e per Heavy Heavy degli Young Fathers; ovviamente, manco a dirlo, c’è l’onnipresente Shabaka Hutchings. Ma nel mucchio c’è un po’ di tutto: gente che ha fatto da session man per Adele (Tom Herbert, basso, Dave Okumu, chitarra, e Nikolaj Torp, pianoforte) o per Lianne La Havas (Dan See, secondo batterista in formazione), o che ancora ha prodotto tracce a Kanye West (Benji B, ai sample). A seconda dei gusti questa sfilza di nomi può sembrare una figata o l’elenco delle piaghe d’Egitto: personalmente la presenza di certi nomi mi avvicinano, almeno pregiudizialmente, alla seconda posizione, ma immagino che nel paese reale la si pensi diversamente. 

In ogni caso, ovviamente, il COVID ha smantellato tutti i piani per le date europee previste nel 2020. I London Brew si sono quindi riuniti in studio nel dicembre dello stesso anno, subito dopo la fine del secondo lockdown nel Regno Unito: nei tre giorni di registrazione l’ensemble ha inciso in presa diretta circa dodici ore di musica, utilizzando alcuni frammenti di Bitches Brew scelti da Benji B come ispirazione per le proprie improvvisazioni; tutto il materiale è stato quindi mixato in un secondo momento da Terefe stesso, in una maniera che si presta a facili parallelismi con lo stesso modus operandi adoperato da Davis e da Teo Macero per i classici elettrici degli anni Settanta. Di quelle dodici ore, London Brew ne presenta soltanto una e mezza – e forse qualche minuto è comunque di troppo; ma a parte qualche sorvolabile lungaggine, in un certo senso inevitabile viste le modalità di realizzazione del disco, i London Brew sono effettivamente riusciti a realizzare con intelligenza e creatività gli ambiziosissimi obiettivi che si erano prefissati. Nel magma ribollente della title track, con il clarinetto di Hutchings che si contorce duettando con il sax tenore di Garcia sopra un tappeto di funk febbricitante e di elettronica ariosa, si riconosce distintamente l’energia elettrica dei numeri più out there di Bitches Brew tipo Pharoah’s Dance; così come nei ritmi propellenti e nel progressivo amalgamarsi dei timbri del clarinetto, del sax, delle tastiere e della melodica che prendono il controllo di Miles Chases New Voodoo in in the Church, omaggio esplicito a Miles Runs the Voodoo Down, si fa a fatica a non percepire una sintesi di culture black simile a quella attuata da Davis a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta; addirittura, nelle arcigne distorsioni di tastiere, elettronica e chitarre che aprono la bellissima Mor Ning Prayers, i London Brew sembrano guardare direttamente alla frangia più all’avanguardia dei gruppi influenzati da Bitches Brew tipo i Soft Machine di Third – anche se nel vamping di Nick Ramm e nel basso pastoso di Herbert riecheggia sempre il suono di Chick Corea e di Michael Henderson. Allo stesso tempo, però, London Brew suona indiscutibilmente contemporaneo, ed è esattamente questo a trasformarlo da semplice omaggio a Miles Davis in un più compiuto e importante manifesto della cultura jazz inglese. La pulsazione ritmica netta e robusta scandita da Herbert, See e Skinner, privata di conga e percussioni assortite, conserva la lezione più materica dell’hip hop e si affranca dal tappeto più liquido e proteiforme (e di derivazione inconfondibilmente africana) adottato invece su Bitches Brew; il contributo della tuba di Cross celebra la cultura afrobeat tanto cara alla scena londinese, portando decise suggestioni Sons of Kemet all’opera del gruppo; per non parlare poi delle modalità di utilizzo dell’elettronica, che per ovvie ragioni suona più pervasiva, spregiudicata e (occasionalmente) perfino rumorosa rispetto a quanto Davis non abbia mai tentato nei suoi storici dischi elettrici: il modo in cui trasfigura gli assoli di clarinetto e di chitarra su It’s One of These fa addirittura pensare a qualche beat hip hop particolarmente elaborato. E poi ci sono pezzi come Nu Sha Ni Sha Nu Oss Ra e soprattutto Raven Flies Low, in cui l’influenza di Bitches Brew appare quasi relegata sullo sfondo e i London Brew si esprimono in una formula di jazz funk/fusion moderna, gentile e vagamente spiritualeggiante, perseguendo un’inflessione tipicamente British dell’idioma davisiano. Di certo, l’assenza di una tromba a offrire facili termini di paragone tra la musica di Miles Davis e quella dei London Brew dà un contributo molto positivo alla peculiarità e al carattere del disco: non so quanto la scelta di non includere un trombettista sia stata cercata appositamente per questo motivo, ma comunque si è rivelata molto azzeccata. 

Adesso non si sa bene quali siano i progetti per i London Brew. La logica suggerisce che la loro missione sia compiuta: Bitches Brew non compie cinquant’anni ogni anno, e il moniker adottato per questa occasione sembra confermare la natura completamente estemporanea dell’ensemble. Rimane che con London Brew questi dodici musicisti hanno registrato uno dei lavori più stimolanti e interessanti di tutta la nuova produzione jazz inglese, capace di suonare catchy senza comunque optare per le strategie più scontate e semplici per omaggiare uno dei capolavori fondanti dell’estetica jazz dell’ultimo mezzo secolo. Bravi. 

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia