CONTAINER BRUTTO

SWANS, O DELLA TRAGICA SCARSITÀ DI OSPIZI PER ANZIANI NON AUTOSUFFICIENTI

SWANS – BIRTHING

Young God

2025

Post-rock

3

Vi risparmio la solita tirata sulla biografia degli Swans, visto che ormai li conoscono anche i muri e noi stessi li abbiamo coperti diverse volte, fin dai tempi in cui ci chiamavamo Björko Dio e potevamo trattare uno dei dischi più grossi dell’anno semplicemente incollando gli screenshot di 600 commenti presi da una conversazione privata su Facebook tra me e Alessandro (era il 2014, e parlavamo di To Be Kind). In realtà, questa volta vi voglio risparmiare anche il solito muro di testo sul contenuto dell’album degli Swans di turno – il titolo è Birthing, ma non è poi così rilevante visto che è l’unica cosa vagamente inedita rispetto ai dischi che l’hanno preceduto. 

Il motivo è che non c’è nulla in Birthing che sia diverso da ciò che gli Swans non abbiano già prodotto, e non c’è nulla che potremmo dire a riguardo che non abbiamo già formulato, pensato, detto e scritto per almeno altri quattro album prima di questo. Nel 2012, The Seer ha settato lo standard del nuovo percorso di Michael Gira, e da allora praticamente nulla, disco in studio o registrato live che sia, si è distanziato dal post-rock (wannabe) sontuoso, monolitico, e larger than life presentato su quel lavoro. Le uniche eccezioni a questo canovaccio sono rappresentate da sorvolabili cazzatine acustiche come Is There Really a Mind? e, unico esempio virtuoso, dall’album leaving meaning. del 2019, grazie soprattutto alla presenza di ospiti illustri come i Necks e Ben Frost ad arricchire le trame sonore degli Swans. (Ovviamente, leaving meaning. è stato anche l’album in studio dell’epoca post-reunion accolto più tiepidamente da critici e appassionati, e questo perché non c’è una singola persona che capisca qualcosa al mondo.)

Tutto si ripete uguale a se stesso da tempo: prima in To Be Kind, poi in The Glowing Man, un paio di anni fa nell’atroce The Beggar e ora di nuovo in Birthing. Stessa palette timbrica, stessi mezzi espressivi, stesse (non) strutture, stesse emozioni convogliate o ricercate, stessa impostazione, stesso minutaggio, pure lo stesso ventaglio cromatico delle copertine dio maledetto! Pare di guardare un’immagine compressa su Whatsapp che, scaricata e re-inviata per centinaia di volte a contatti diversi, perde sempre più qualità e definizione fino a diventare un amorfo ammasso di pixel che soltanto chi aveva già visto l’immagine iniziale può riconoscere: spero che la miseria prosaica di questa metafora possa rendere almeno una frazione del dolore e della rabbia che mi provoca vedere la condizione attuale di uno dei gruppi che più hanno plasmato la mia estetica musicale durante la mia formazione come ascoltatore. Unico lato positivo in questa faccenda è che, secondo le stesse parole di Gira, Birthing dovrebbe essere l’ultimo lavoro a indulgere negli «all-consuming sound worlds that have been my obsession for years» (zio non vorrei dire ma c’hai settant’anni, ‘sta musica l’hanno digerita pure i quindicenni, ma un briciolo di consapevolezza ce l’hai?). C’è anche da dire però questa dovrebbe essere circa la quinta volta che Gira dice che un lavoro degli Swans è l’”ultimo” in qualche senso (spoiler: non ha mai mantenuto la parola data).
Come David ai tempi di The Beggar, anche io mi ritrovo nella spiacevole situazione di sentirmi inadeguato nel descrivere nel dettaglio una musica che è da più di dieci anni un continuo ricalcare cliché che gli stessi Swans hanno introdotto. Al suo contrario, però, mi rifiuto di parlare ulteriormente degli Swans per dire qualcos’altro se non “fanno schifo”. L’impegno che Michael Gira sta mettendo nei suoi album rasenta lo zero: perché dovrei faticare io a trovare nuove parole, nuovi collegamenti estetici e poetici, nuovi argomenti e nuovi ragionamenti per parlare di una musica che di nuovo non esprime nulla da oltre dieci anni? Tutto ciò che mi rimane da dire è: che fine triste e miserabile per un gruppo che, nella sua incarnazione 1981–1997, aveva fatto innamorare proprio grazie alla sua capacità di mantenere vertiginosi livelli di creatività e un’identità riconoscibile cambiando pelle in continuazione.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia