JERSKIN FENDRIX – ONCE UPON A TIME… IN SHROPSHIRE
Ho molto a cuore la musica di Jerskin Fendrix per un motivo molto semplice: è un outsider che ce l’ha fatta. O, se vogliamo, un outsider che ha avuto la fortuna di sfogare la sua creatività grazie a un misto di educazione (è un laureato di Cambridge in musica classica), geografia (Brixton, il Windmill), e una incredibile opportunità che l’ha innalzato a fenomeno musicale mondiale: la convocazione da Lanthimos per la colonna sonora di Poor Things. Una success story, insomma, che però incarta un rapporto con la musica che non è in alcun modo derivabile da nessuno di questi puntelli.
Quando Fendrix compone ed esegue, infatti, sembra semplicemente di ascoltare un musicista di pop da cameretta neanche particolarmente focalizzato: un estratto di bandcamp shit che non ha nulla a che vedere con il contesto in cui è inserito. Winterreise, il suo debutto, è una merda scintillante, uno di quei dischi che si possono apprezzare solamente allineando perfettamente il proprio gusto alla vibrazione dell’autore con l’angoscia di cadere nel cringe più totale ad ogni stonatura e ad ogni passaggio over the top. Non mi riferisco qui all’over the top maschiaccio e vulcanico dei black midi, bensì a quella stessa emotività schiacciante che vena i dischi di un Daniel Johnston o di una Lucia Pamela – più recentemente, i primi lavori di Richard Dawson.
Tuttavia, la musica di Fendrix è sempre stata tutt’altro che low-fidelity. La maggior parte degli sdruccioli imbarazzanti e luminosi di questo pop vive e viveva nell’alveo delle peggiori porcherie di scrittura che ci possono capitare in un disco “sperimentale”: loudness gratuita, crescendocore linearissimo, guizzi da comedy rock che fanno arricciare il naso. Basta ascoltare pezzi come Onigiri, Swamp e Manhattan per farsi rapire da una narrazione incomprensibile, ombelicale, ma allo stesso tempo profondamente, irrimediabilmente pop. Una scheggia di umanità divergente che è stata poi occupata e militarizzata da Lanthimos per una colonna sonora che doveva essere allo stesso tempo quirky e unica – contraltare della storia che è riuscito a raccontare in Poor Things, spaziando tra la sbavatura sghemba e dolce (tutto ciò che ruota attorno al tema di Bella, “Goodbye Later Love”…) e l’attacco frontale iper-dinamico (Portuguese Dance II, “I Just Hope She’s Alright”). Punto cardine di questa discografia fresca e contenuta è una certa incomprensibilità di dove Fendrix voglia andare a parare – una caratteristica che in Poor Things viene imbrigliata ai fini narrativi di Lanthimos, ma che nel suo debutto ha il suo carattere più pieno. Winterreise è infatti difficile da descrivere, come il gusto di un frutto che non si può paragonare ad altri sapori: semplicemente sa di sé stesso.
Arriviamo quindi a Once Upon A Time… In Shropshire, che si colloca perfettamente in questa narrativa, rimanendo di fatto un disco che si fa ascoltare e riascoltare, ma che ad ogni iterazione rimane di fatto inaccessibile, colorato e misterioso. Bello e sentimentoso, ma anche stanco e mediocre. È indiscutibile che ci siano delle pulsioni sintetiche che accorpano Once Upon a Time… ai lavori precedenti di Fendrix, dagli arrangiamenti minimali (per Poor Things) ad alcune aperture assolutamente spiazzanti (per Winterreise). Detto questo, è anche tutto diverso. Il primo, evidente cambiamento è una nuova attenzione alla delicatezza e alla scrittura di un pop che sia un po’ più piccolino, una cifra subito dichiarata dalla opener Beth’s Farm e dal suo fraseggio, ma che si ripete nel piano di Mum & Dad, nella voce trascinata di King’s Lear e nella tenerezza cosmica di Last Night in Shropshire. Di conseguenza, la dimensione folle e scatenata di Winterreise si ritrova solo in alcune incursioni del disco, ma stavolta appare ben più episodica e misurata. Penso ad esempio ai sintetizzatori violenti di Sk1, alle urla disperate di Sk2, al pazzesco Jerskin Hendrix Freestyle musicato con Geordie Greep e ai pochi agganci hyperpop pizzicati sul disco.
A concertare questa domesticazione c’è una visione della musica che è molto più vicina al chamber pop degli anni ‘00 e ‘10 di questo secolo. Un Fendrix che quindi è molto più palatabile e confezionato di quello che sono stato abituato ad amare. La conseguenza di questo cambio di passo, di solito, è una perdita di genuinità, una svendita e apertura a un pubblico oramai troppo grande per tollerare il bizzarro di Winterreise. Però questa lettura non fa giustizia a Once Upon a Time… In Shropshire. Quello che emerge ruminando e pensando a questa musica è che, in fin dei conti, Fendrix rimane ancora irrimediabilmente misterioso, anche quando gioca a fare il chamber popper. È un tipo di mistero che stavolta si insinua in pieghe molto più piccole, un misticismo di se stessi che è solo vagamente abbozzato, sullo sfondo, nella skybox di un album che sembra – sembra? – avere molto più di quanto inciso dietro di sé. Possiamo dare un volto sonoro a questo enigma: che senso ha l’attacco del Jerskin Hendrix Freestyle a metà del disco, è solo uno skit comico? La maggior parte dei pezzi, da Beth’s Farm e Princess a The Universe e Together Again hanno una totale carenza di dinamismo e una predilezione per lo staccato che fanno risultare la scrittura dell’album incredibilmente goffa e imbarazzata, cosa ci racconta questo? Cosa si nasconde tra le scelte di abbandonare i fuochi d’artificio occasionali in favore di un approccio così meccanico e misurato? Su cosa indugia Jerskin Fendrix, quando compone e performa in questa maniera più trattenuta – e perché proprio in Once Upon a Time… In Shropshire il musicista ha scelto di scriversi addosso tutte queste catene? È in queste domande e in un pop che rimane strutturalmente molto strano che si agita il segreto di Fendrix, un animo outsider sommerso in una musica che sta ancora cercando il suo posto nell’universo.
Il quarto precetto del Dokkōdō, l’ultimo scritto di Myamoto Musashi, invita a pensare lievemente di se stessi e profondamente del mondo. Mi trovo a chiudere la recensione con questo colpo di reni di letteratura comparata, perché è un passaggio che mi è tornato in mente più volte ascoltando quest’album: è come se Jerskin Fendrix, che è incredibilmente talentuoso nel pensare di se stesso, abbia gettato il suo sguardo oltre la sua pancia e abbia tentato in tutti i modi di guardare profondamente allo Shropshire. Il risultato è appannato dall’eco della sua identità prorompente (è il suo Shropshire), e quindi in qualche modo non è così profondo come dovrebbe essere. Ma è in questo continuo tirare i remi in barca verso se stesso, in questa radiazione di fondo che permea il paesaggio, che l’intraducibilità della persona Jerskin Fendrix torna a sovrapporsi alla musica. Quindi è un buon disco, siamo contenti? O è un disco pieno di limiti, e siamo presi male? La risposta è che non lo so, ma le domande, forse, non sono nemmeno quelle corrette.




