CONTAINER BRUTTO

BJÖRK VAI A LAVORARE

BJÖRK – FOSSORA

One Little Independent

2022

Art Pop

Cristo!

Dai tempi di Volta ogni tot anni esce un disco di Björk che non serve assolutamente a niente, robaccia borghese che è più adatta come oggetto di design, come photoshoot che trova il suo spazio d’elezione sulle copertine patinate delle riviste di musica, molto più che nelle orecchie di chi si mette effettivamente ad ascoltare i dischi. È andata così con Biophilia, è andata così con Vulnicura, è andata così con Utopia, uscite in cui ogni volta vediamo un’incarnazione diversa e profondamente tematica del Folletto Islandese (!), della Regina Dei Ghiacci (!!), ma diciamo anche della Vecchia Di Merda. E la pochezza strutturale di idee (fisiologica: fa musica dagli anni ‘90) ad ogni release viene ricoperta da una produzione orientata diversamente (e mettiamoci gli archi, e facciamola world, e facciamo i funghi, e facciamo gli alberi), un concept esplorato con grande attenzione, un generale apprezzamento per la forma e un drammatico abbandono della sostanza. Nonostante tutte le grandi testate parlino per l’ennesima volta di una resurrezione dell’artista islandese – un’operazione facile se ci si confronta con il booklet del disco e non con il suo contenuto musicale – anche con Fossora siamo davanti alla stessa spazzatura che Björk propina all’industria musicale da una ventina d’anni. È esattamente quello che è successo nel 2015 con Vulnicura. Sinceramente, a parte la copertina, qualcuno ricorda qualcosa di Vulnicura? Ecco.

Proviamo un attimo ad andare oltre a tutte quelle baloccate matriarcali in cui il tema della femminilità viene affrontato in un atteggiamento così profondamente bianco, così profondamente privilegiato e così profondamente karen da far sembrare il Folletto Islandese una versione da MoMa del Coatto Antico In Corpo Da Bambina. (Se proprio siete interessati al tema materno potete sciropparvi la sviolinata di Pitchfork o quella del Times: per quanto mi riguarda i figli di Björk che compaiono in Fossora hanno accontentato la madre per sfinimento oppure per farle tenere i bambini nel weekend). Proviamo ad andare anche oltre al tema fungino, che nella sua profondità filosofica e nella sua metafora pseudo-rizomatica risulta sostanzialmente un mcguffin come un altro per dare una coloratura ad un disco senza idee. Andiamo a vedere il materiale, il sugo, i brani: che cosa abbiamo davanti a noi? Perché c’è un motivo se tutte le testate che promuovono questa roba si concentrano solamente sulla copertina, sui racconti che ne circondano la produzione, sui video musicali di cui queste tracce sembrano delle mere score, delle appendici. 

In un periodo storico in cui l’art pop è uno dei generi più complessi, affascinanti ed esplorati di ogni singolo panorama (troviamo roba bella nel mainstream, nel midstream, nell’underground) la musica di Fossora non può che risultare come un’ulteriore monade reazionaria di un’autrice che è stata una pioniera del genere (tra Debut e Vespertine) ma che da un ventennio sano non ha la più pallida idea di che cosa stia succedendo intorno a lei. Il rapporto di Björk con lo stato dell’arte che la circonda – e la supera – non va dipinto come un virtuoso eremitaggio di una sciamana insulare che gioca secondo regole tutte sue; è più adatta la metafora di un bambino che si tappa le orecchie e comincia a urlare “LALALALA” per scansare una realtà della quale non è all’altezza. Quindi, se anche solo quest’anno ci ha regalato una gran carrellata di dischi art super stimolanti e interessanti (The Swan, Crease, Regards to the End, mettiamoci dentro anche Ugly Season), la gestazione durata cinque anni della musicista – che dovrebbe essere la portabandiera di un determinato modo di fare pop – sputa come risultato una roba che nelle intenzioni puzza di vecchio, nelle componenti è totalmente dimenticabile e inoltre rischia di portare indietro le lancette del genere di qualche anno solo perché la nonna deve fare la copertina e conciarsi come una scema. 

Entrando nel merito dei pezzi – e seguendo un articolo dell’Atlantic il cui titolo è How to Listen to Björk, According to Björk, giusto per non perdermi niente – è chiaro che la metafora fungina e l’ossessione per la morte non vanno davvero a segno: sapendo che sarei andato a funghi pensavo che mi sarei trovato davanti agli smottamenti di stomaco dell’orrorifico Mundus Subterraneus, ma direi che come panorama sono più vicino alle noiosissime caverne di Arkhon di quell’altra furbona di Zola Jesus. Il mix di arrangiamenti cameristici e club beat di discendenza gabber forniti nei brani con Kasimyn non fanno nessuna giustizia al budget di Fossora e, quello che dovrebbe essere un espressivo gioco di ombre, all’ascolto fa la figura di un cretinismo deconstructed club, fallisce pietosamente nel comunicare il suo strazio e nella maggior parte dei casi (Atopos, Fossora) fa addirittura ridere: i beat inciampano su se stessi nella versione sonora di un corto di Stanlio e Olio, molto lontano dallo spirito cupo e duro che potrebbe emergere dai lavori di un’Arca o di una Aya. L’interplay è inesistente, la voce di Björk è petulante e filtra in ogni possibile complessità del disco, la fa da padrone in uno spettacolo che raggiunge spesso il grottesco. A conti fatti lei racconta i suoi cazzi e la traccia strumentale di turno prova a starle dietro senza successo, va in affanno in continuazione (Ancestress, Ovule, Fungal City); gli arrangiamenti dei pezzi più cameristici provano a parcellizzare la melodia ma non riescono mai nel loro obiettivo, lasciando in cuffia una batteria di micro-canzoncine banalissime puntualmente eclissate dal lirismo monomaniacale della cantante. I brani più “sperimentali” (se Medùlla può considerarsi sperimentale possiamo dare la stessa etichetta a Mycelia, Sorrowful Soil, Allow, Trölla-Gabba) sono delle baroccate ombelicali che non vanno da nessuna parte, senza grande ispirazione nelle armonie e negli arrangiamenti: inutili riempitivi che campano di rendita capitalizzando sul timbro di Björk e sul concept del disco. Ma ciò che accomuna tutte le istanze di Fossora, dalle più ariose alle più sotterranee, è un generico spacchettamento delle idee che risulta in una scuderia di tracce costruite a casaccio ed eseguite un tanto al chilo, una roba confusissima che sembra l’esito di un crunch gigantesco nei giorni della produzione dell’album: come se tutte le idee dei ghostwriter che hanno contribuito fossero state cucite insieme da Frankenstein Jr. senza alcun tipo di criterio, per gettare più fumo possibile negli occhi. Quando va bene il risultato è appena sufficiente (Victimhood e soprattutto Freefall), ma nella maggior parte dei casi il mix di inconsistenza strumentale e delivery boriosa di Björk lascia profondamente annoiati e pure piuttosto incazzati – perché si sa già come andrà a finire nella stampa mainstream e nella grande distribuzione, ste cazzate verranno applaudite. Questa sensazione diffusa di nullità lascia in burnout già a metà di Fossora, quando si scopre tragicamente che la solfa sta andando avanti da poco più di venti minuti. Mentre la seconda metà del disco scorre nelle mie orecchie senza colpo ferire penso a tutte quelle brillanti realtà art pop che verranno eclissate dal ritorno di una madrina del genere; poi penso anche a quanta gente riprenderà questa versione superficiale di questo tipo di musica a causa del collo di bottiglia che illuminerà nuovamente l’artista islandese come punto di riferimento globale. Il duetto madre-figlia di Her Mother’s House chiude un album con una nota perturbante e mi lascia una riflessione: come si sarà sentita la figlia di Björk a far parte di questa pantomima fatta di costumisti, designer, fotografi, tipografi, manicuristi e truccatori atta a far tornare la madre sotto i riflettori in un bagno di rumore che impedisce una serena elaborazione del lutto per la perdita di sua nonna? 

Alla fine dell’album questa domanda martella nel cervello, mi riguardo quelle copertine tutte colorate di Biophilia, Vulnicura, Utopia e infine quella pomposa e vittoriana di Fossora, riflettendo sull’ultimo decennio di uscite della Regina Dei Ghiacci. Le mani prudono tantissimo, e l’unico impulso che rimane è quello di prendere un biglietto aereo per Reykjavík, passare da un Leroy Merlin, bussare alla porta della casa fatta di pietre e vetro di Björk e quando la vecchia apre metterle in mano una zappa.

[In antico islandese] “Chi è lei? Stavo meditando nella Stanza Dei Boleti mentre i miei figli mi preparano il Risotto Di Porcini Di Niðavellir”

[In recente italiano] “Vai a lavorare, cretina”

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Alessandro Corona M
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