BORGUEFÜL – HORST
Una delle declinazioni più potenti e fascinose della femminilità in musica è senza dubbio la sua tonalità più dark e macabra, che sia nel campo della darkwave barbarica di Lingua Ignota, nei fischi elettroacustici dei lavori recenti di Kee Avil o Midori Takada, o nella Shadowland stregonesca di Nwando Ebizie. Seguire il percorso della musicista tormentata può sembrare un’easy win, ma spesso insistere su certe sfumature umbratili ha come risultato un prodotto pesante, noioso, una vera pezza. Se poi all’impianto strumentale non viene dedicata abbastanza attenzione (o anche solo budget) il rischio decuplica. Allora come fa un’uscita di sola voce e contrabbasso a schivare il problema?
La contrabbassista francese Mélanie Loisel, sotto moniker Borguefül, ha debuttato quest’anno come solista con un album edito per la nostra amata Pagans, label occitana che si occupa di avant-folk e che ha sbancato l’anno scorso sulle righe di Livore grazie a La Grande Folie dei San Salvador, forse il disco più acclamato del 2021 da queste parti. La formazione jazz di Loisel traspare in vari punti della sua musica, ma la scelta dell’impianto strumentale tradisce il background in misura decisamente maggiore rispetto a ogni passaggio sonoro: contrabbasso e voce, quel tête-à-tête nel buio cosmico a cui alludevo nel paragrafo precedente. Horst, il risultato inciso di questo esperimento, affronta questo vuoto con un certo coraggio, evitando di svilupparsi come monologo da camera per solo contrabbasso e tenendosi tutto sommato alla larga dalle tentazioni vocal-jazz-pop che in Italia sono state esplorate nel decennio scorso da Musica Nuda (progetto peraltro molto seguito in Francia). Se difatti i tinniti del canto alla Petra Magoni risuonano qui e lì nei brani più accessibili di questo album (Coste Belle, Bestia), l’ambizione di Borguefül si assesta su livelli molto più alti, in evidente dialogo con alcune delle voci femminili più ingombranti della storia della musica occidentale. Con le giuste cautele non è esagerato tirar via il nome della Meredith Monk di Atlas o di Key per tracciare una linea genetica che arrivi fino ai trilli di Pleuya de Tchis o all’impostazione da contralto che consegna all’ascolto i maestosi scenari gotici di Euratza Blanc e di Resident. Il tono di Loisel si tiene quasi sempre a cavallo tra questi bassi e le loro digressioni più acute e stridule, e in Monk si può trovare il punto di riferimento principale di tutti i momenti più creativi di Horst, ma va detto che il richiamo alle grandi interpreti del dark folk francese (su tutte Catherine Ribeiro, ma va bene anche la recentissima Sophia Djebel Rose) è presente e tangibile per tutta la durata del disco. La prova vocale di Loisel è perciò molto impegnativa, ma viene sorretta da un lavoro di contrabbasso quantomeno degno di nota: se infatti gli spunti cameristici non sono del tutto sopiti (l’attacco di Bestia e tutta Fio Vorace mi hanno ricordato alcuni brani del bel disco di Tarozzi/Walker uscito quest’anno), il lavoro sullo strumento è molto più spesso acquerellato alla maniera del post-minimalismo di una certa scuola jazz moderna (Colin Stetson, Keir Neuringer, Battle Trance), tanto da lasciare a volte l’impressione di star ascoltando un sassofono tenore in respiro circolare (!). Se non siete dei fan del genere potete comunque ritrovare i vostri gusti in molti brani di Horst: il tocco Pagans si fa sentire alla grande, e il contrabbasso di Loisel mette in scena un vasto campionario di trucchi e siparietti, dagli insistenti tremolo in coda alla opener agli slap secchi di Coste Belle, dai dolci pizzicato di Resident fino al sensuale filo di armonici di Tsanteu Traou. I momenti morti, nonostante la scelta di proseguire in solo, sono davvero pochi.
Dove il disco va a perdere qualche colpo è nella sua stessa programmaticità: purtroppo Horst è un lavoro che conserva una sua asprezza, soffre di qualche deficit di creatività e cuce un interplay tra le sue due anime che non è sempre riuscitissimo. L’ambizione di Borguefül, però, è chiaramente su un alto profilo, la sua espressività – sia che si tratti dello strumento che della voce – è già abbastanza per lasciare qualche brivido, perfino ad un ascolto distratto: sfido a non sentirsi sciogliere il cuore nella modulazione che ruba la scena nella prima metà di Bestia. Viene da chiedersi fin dove possa spingersi questa verve di Mélanie Loisel. Gli spazi per crescere sono larghissimi, e già questo debutto si vende come un gran bel disco: non faremo a meno di seguire le prossime evoluzioni del progetto e, più in generale, le collaborazioni di Loisel come strumentista e cantante. Vi consigliamo di fare altrettanto e di non perdervi questa piccola perla che è stata battezzata Horst.