CONTAINER BELLO

SAY LAURA È UN PICCOLO GRANDE GESTO D’AMORE

ERIC CHENAUX – SAY LAURA

Constellation

2022

Avant-folk

La carriera di Eric Chenaux è per la maggior parte un buco nero: il cantautore canadese ha orbitato in praticamente ogni circoletto di musicisti di Toronto tra gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo millennio, infilandosi avventurosamente in ogni tipo di progetto (compresa una band post-punk chiamata Phleg Camp) prima di firmare un sodalizio che lo lega oramai da più di dieci anni alla Constellation, l’etichetta di Montréal nota ai più per essere la distributrice di tutti i progetti dei Godspeed You! Black Emperor e acts ad essi affiliati. Chenaux era salito alla ribalta nei circoli che contano grazie al suo album Slowly Paradise, che nel 2018 era stato salutato come uno dei dischi più interessanti dell’anno da TheQuietus e aveva incuriosito molto anche la nostra redazione. Questo Say Laura, uscito a febbraio in collaborazione con la microlabel francese Murailles, è stato uno dei pochi tesori che sono riuscito a conservare lontano da sguardi indiscreti per la maggior parte dell’anno; ma, adesso che il clima si è di nuovo fatto adatto per infagottarsi sotto le coperte mentre scende il sole, sento che sia finalmente arrivato il momento di parlarne.

Partiamo dalle basi: il disco è composto di cinque ballate che Chenaux ha costruito partendo da singoli pattern ritmici realizzati grazie a una piccola drum machine, integrata all’interno della sua pedaliera di effetti. Utilizzo il termine “pattern ritmici” e non un più canonico “beat” perché la sezione ritmica di Say Laura è ridotta a meno di uno scheletro: l’unico metro è una costante, delicata pulsazione che sembra provenire da un piano elettrico suonato sotto a una montagna di cuscini. In realtà, si tratta di un suono che Chenaux stesso ha realizzato manipolando e dilatando l’output della sua chitarra elettrica, filtrata attraverso non si sa bene quali effetti: l’utilizzo di questa colonna vertebrale così rarefatta permette però la creazione di vamp infiniti grazie alla sua caratteristica armonica, su cui Chenaux stesso può poi dipingere qualsiasi colore sia in grado di evocare grazie alla propria creatività. C’è da dire che l’artista ha deciso comunque di mantenere l’approccio minimale: oltre alla propria voce, un’armonica e alla chitarra, l’unico altro strumento che compare in Say Laura è un piano Wurlitzer suonato dal collaboratore Ryan Driver, che dipinge con tocchi impressionisti un quadro armonico complesso e dalle tinte jazzy, senza però mai proporsi in salti mortali che stravolgano l’equilibrio serafico dei brani. La voce di Chenaux, invece, si infila dritta in quel filone di toni eterei che vede i propri prodromi in mostri sacri come John Martyn (da cui sicuramente il canadese riprende anche l’impostazione chitarristica nella creazione delle sezioni improvvisate) o in Arthur Russell (che salta subito all’orecchio per le atmosfere sognanti del disco). L’approccio, però, è più libertario e meno rigido dei due nomi appena citati: mentre si ascoltano i cinque brani di Say Laura, tutti con una durata superiore ai sette minuti, ci si rende conto che le composizioni di Chenaux sono pronte a disintegrarsi in favore di languide esplorazioni modali che in certi punti tendono anche ad alcune frange al confine con l’outsider music: basta ascoltare quanto sono stirati all’inverosimile i pitch bend in praticamente tutti i momenti di Say Laura per rievocare fantasmi dai contorni indefiniti (uno Jandek addomesticato? o come già citato in predecenza il John Martyn più strafatto?). Su There They Were, probabilmente il pezzo più bello del disco, l’atmosfera nebulosa precipita quasi in un minuscolo duetto psichedelico, dove la voce di Chenaux si incanta in una nenia (“The moon calls spring lovely to lie on…“) che assume essa stessa il ruolo di colonna portante su cui la chitarra e il piano possono scolpire docili esplosioni condite di wahwah e fuzz, prima di richiudersi come un delicato fiore notturno. In definitiva: Say Laura non è di certo l’album più avanguardistico che sia uscito quest’anno, anzi. I debiti di Chenaux sono reverenzialmente evidenti (nei press kit si parla anche di influenze esercitate dall’ascolto di Sun Ra e Thelonious Monk, non a torto) e in generale, come avevo scritto anche all’inizio, il disco rappresenta perlopiù un culmine di uno stilema che il cantautore ha avuto modo di esplorare nei quattro anni successivi a Slowly Paradise. Fine di un percorso, quindi: una fine che va però premiata, in quanto il risultato è quello di un abbraccio confortante, rilassante e nostalgico, capace di conquistare il cuore in maniera sorprendentemente semplice. Un’impresa mica da poco, per un anno così complicato.

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala