UN SAX CHE MI HA FATTO PIANGERE: REQUIEM PER PHAROAH SANDERS

Poco più di un mese fa, mentre stavo ancora aspettando di ricevere risposte per quello che poi sarebbe diventato il report del RoBOt di quest’anno, sulla chat di redazione è spuntata la notizia della morte di Pharoah Sanders. Emanuele, che mi conosce bene, mi ha chiesto se volessi scrivere qualcosa a riguardo mentre io ero intento a tirare madonne: imprecazioni lanciate perché il tempo era poco, e la voglia tanta. Non mi sarei sentito a posto con la coscienza se avessi scritto poco più di un trafiletto, un coccodrillo come tanti altri: Pharoah Sanders è stato, almeno per me, molto più di una “semplice” leggenda del jazz. Certo, il rischio di vedere questo articolo trasformato in una sorta di tributo parasociale è altissimo: Sanders io non l’ho mai conosciuto, ho soltanto ascoltato i suoi dischi e niente più. Ma reputo personalmente innegabile il fatto che siano stati quegli stessi dischi ad aprirmi la mente e permettermi di crescere, molti anni fa, come ascoltatore: il suo sax ha essenzialmente agito da grimaldello verso quella che era una testa “chiusa” in un universo essenzialmente rock e che, se si discostava da questo canone autoimposto, lo faceva esclusivamente per pochissimi classici.

In ogni caso, a questo profondo rammarico di non poter fare in tempo a rendergli il dovuto tributo si è sommata la rabbia nel leggere, nelle ore immediatamente successive alla conferma della notizia, commenti sui vari subreddit che invitavano tutti a riscoprire Promises che guarda se non mi fai star zitto qua faccio un macello. Quindi, dopo aver fatto un profondo respiro e aver fatto finta di dimenticare che Promises sia mai stato composto (men che meno come canto del cigno), mi sono messo a pensare a cosa effettivamente potevo scrivere su Pharoah: una mia personale marmellata di fragole? Una disamina microscopica di un’intera discografia? Un ricordo affettuoso di un disco epocale? Mentre scartavo in continuazione idee che viravano su improbabili racconti afrofuturisti, impossibili interviste col defunto, indecenti allucinazioni cosmiche, mettevo su questo o quel brano della corposa discografia stupendomi ogni volta di come la semplice presenza sonora di quel sax mi facesse pensare a ricordi lontani, visioni sfocate di momenti teneramente estatici… No, dovevo farla semplice.

Per questo, il requiem che mi sono immaginato e che vi faccio leggere con costernato ritardo è un cut-up di istanti, momenti in cui Pharoah Sanders mi è esploso dentro alle orecchie e nel cuore legati a situazioni che possono essere più o meno veritiere, quando non totalmente inventate di sana pianta. Statece.


Kyrie – Hum-Allah-Hum-Allah-Hum-Allah

Non c’è dubbio che il lavoro discografico di Pharoah Sanders sia legato in maniera intrinseca e irremovibile alla ricerca di una intima e religiosa spiritualità: d’altronde cosa ci si può aspettare da uno che è stato ribattezzato “faraone” da niente meno che Sun Ra (un altro di quelli che la propria idea di dio, o cosmo che sia, l’ha cercata per tutta la vita). Ascoltare Hum-Allah, una delle due metà di un disco clamoroso come Jewels of Thought che in qualunque altra discografia sarebbe un peso massimo e che nella prima parte della carriera di Sanders pare quasi un disco minore, è un’esperienza rivelatoria: non vorrei fare sparate ma sono abbastanza convinto del fatto che sia uno dei primissimi momenti in cui la compenetrazione tra quell’islamismo liberatorio figlio della dottrina di Malcolm X si fa totalmente esplicita, dove prima era mascherata dietro al velo del panafricanismo o della vaghezza religiosa. In ogni caso, Hum-Allah mi ha sempre fornito l’immagine mentale di una crepa luminosa che si apre pian piano nel pavimento: all’inizio si ha un’idea ben precisa di cosa sia quella superficie, di cosa ci possa essere sotto di essa. È soltanto dopo, quando le mattonelle iniziano a spaccarsi come se fossero gusci d’uova e quando la luce abbagliante inizia a filtrare da sotto, che la mente smette di ragionare in modo logico, per abitudine, e inizia a cercare una spiegazione paradossale all’evento a cui si sta assistendo. Hum-Allah dice poche cose molte volte, ma si tratta esclusivamente di verità profonde, capaci di smuovere qualcosa all’altezza del torace in maniera non facilmente replicabile. E, quando l’ho ascoltato per la prima volta, mi è parso di notare che la strada sotto di me si stava spaccando.

Dies irae – You Got to Have Freedom

Penso che sia il 2018. Sono davanti allo schermo, e sto giocando a Ape’s Out: è un top-down, coloratissimo e frenetico, in cui un gorilla fugge dallo zoo e deve farsi strada tra guardie armate per trovare la libertà. Ape’s Out è un gioco corto, che potete terminare in un pomeriggio se avete un minimo di dimestichezza con quella sorta di gameplay assetato di sangue alla Hotline Miami. Io forse ci ho messo due pomeriggi perché sono particolarmente incapace, ma, insomma: nel momento in cui arrivo all’ultimo livello non ho ancora mai fatto attenzione alla colonna sonora, che fino ad allora è fatta soltanto di percussioni che si dimenano freneticamente e a cui si sommano colpi di piatti ogni volta che l’ennesimo guardiano dello zoo viene maciullato dalla furia della scimmia. E poi il gioco finisce, e quello che viene fuori è You Got to Have Freedom; non la versione in studio, ma un live registrato di recente in cui si sente chiaramente che Sanders è incazzato nero. Un live in cui Sanders ha sicuramente più di settant’anni e in cui continua a soffiare nel tenore con quelli che oramai non sono manco più sicuro di poter chiamare polmoni perché come è possibile che uno che è più vecchio di mio padre possa fare cose del genere. You Got to Have Freedom è un pezzo che, se preso nel contesto dell’album in cui compare per la prima volta, è solamente un brano (manco troppo entusiasmante, per colpa della produzione laccatissima) in mezzo a quella che è una corposa discografia di uno dei più grandi artisti free jazz di sempre; per me, è una delle cose più abbacinanti che Pharoah Sanders abbia mai deciso di suonare. Perché, oltre all’impossibilità di pensare a un distinto signore con la barba che fa urlare uno strumento per due minuti buoni senza fermarsi, mi viene da pensare alla sua vita: Sanders è di Little Rock, l’emblema del Sud nero che divenne famoso per il caso dei nove studenti di colore fatti entrare per la prima volta in una scuola non segregata, tre anni dopo la fine del caso nazionale Brown v. Board of Education. Quella libertà a cui il titolo di questo brano allude, Sanders ce l’aveva già a 17 anni? Come si fa a non essere furiosi, cattivi, distruttivi verso un Paese che ti ha sistematicamente abbandonato fino a quando non hai ottenuto la libertà con la forza? E come fa Sanders a sembrare sì incazzato nero come ho anche detto prima, ma a trasmettere prima di tutto la gioia di essere vivo e libero e nero in un mondo che, nonostante il persistente rifiuto della sua persona in ogni fibra del suo essere, continua a rivelarsi in tutta la sua bellezza? Perché dovrei limitarmi a pensare a Ape’s Out?

Sanctus – Elevation

La storia di Elevation non è particolarmente avvincente: si tratta semplicemente di un disco che ho imparato a riscoprire lentamente, di volta in volta. Non capivo perché così tanti trovassero tra i solchi di un live del 1974 la stessa freschissima e dissetante fonte dal quale oramai mi abbeveravo da anni, quella manciata di dischi davvero classici di Pharoah Sanders che sembravano essere in grado di rivelare misteri cosmologici come fossero un’antica mappa stellare. Elevation non sembrava avere niente di tutto questo: troppo pulito, troppo poco “esotico”. E invece oltre gli scalini di quella che penso sia una piramide maya sulla copertina si nasconde una piccola grandezza, un gesto di elevazione appunto, che va oltre certe incomprensibili parole. Perlomeno per la title-track, che è uno dei momenti (sul serio, ascoltate il freakout a metà del brano) più slegati di tutto quello che ho mai sentito nella carriera di Sanders e che oggi mi lascia senza parole ogni volta che lo ascolto. Elevation è anche il brano su cui ho meno da dire perché sebbene sia un grandissimo disco è anche l’inesorabile precipizio verso un baratro di dischi tutti più o meno brutti e che hanno come solo pregio l’essere testimonianza della riuscita di Sanders come artista, perché perlomeno glieli lasciavano pubblicare. Ecco, Elevation è l’ultimo passo nell’aria di Wile E. Coyote prima di sprofondare nel dirupo, l’ultimo momento in cui stiamo ancora inutilmente e genuinamente tifando per lui.

Agnus dei – Ascension

Probabilmente è il 1965. Sanders e Coltrane si incontrano per la prima volta e non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro: il giovane Sanders in quel momento è poco più di un turnista nella Arkestra di Sun Ra, Coltrane invece viene da una nomination importante ai Grammy per quello che è probabilmente il suo disco più acclamato e conosciuto, A Love Supreme. Coltrane ammira la musica di Sun Ra, ha recentemente conosciuto Albert Ayler, anche lui un titano inscalfibile della musica americana novecentesca, oltre che autore della famosissima citazione che tripartiva il Padre in Coltrane, il Figlio in Sanders, e lo Spirito Santo in se stesso. Ascension è considerato da praticamente chiunque capisca di jazz un momento fondamentale nella carriera di Trane: l’istante in cui ci si distacca fondamentalmente da una impostazione classica del genere, per quanto rivoluzionaria, verso i lidi più avanguardisti e liberi di quel tipo di musica indefinibile nella sua sacralità. Sanders è una delle tanti reti a cui Coltrane si aggrappa per questo salto nel vuoto: certo, lo sono anche Archie Shepp e Marion Brown, ma è importante considerare che tutti loro, come Sanders d’altronde, erano perlopiù degli sconosciuti nel momento in cui Ascension viene registrato.

Ascension è un disco che conosco grazie a Emanuele, che fino a qualche tempo fa lo portava trionfalmente come la miglior cosa che Coltrane avesse mai registrato (io non sono d’accordo, per la cronaca: My Favorite Things è infinito e commovente). Ascension è un disco che porta con sé un senso di superamento dei limiti, di infinite e nuove possibilità, e mentirei se dicessi che a ripensarci adesso, ascoltarlo per la prima volta anni fa grazie a un tizio che avevo conosciuto online non portava con sé un po’ di quella stessa emozione. Ma questo non è un pezzo su Ascension o su Coltrane. Eppure, ogni volta che scopro qualcosa di nuovo pescando nella sua biografia, mi rendo conto nuovamente di quanto fosse centrale per un intero mondo che stava brulicando formicolante in quegli anni ai suoi piedi: Dewey Johnson, il trombettista che su Ascension suona l’assolo a metà tra quello di Coltrane e quello di Sanders, alla morte del sassofonista ebbe un esaurimento nervoso che lo condusse alla miseria per decenni. E non è certo l’unica storia che ho sentito o letto di questo tipo quando si parla di John Coltrane. La relazione che i due avevano sviluppato era decisamente importante e intima: l’entrata nell’ultimo quintetto venne di pari passo con la consapevolezza di stare vivendo e suonando le ultime tournée di un artista che era già leggendario e che poi sarebbe diventato quasi divino. Per questo, forse, mi pare ancora più stupefacente che Sanders abbia avuto la forza di trovare nella sua musica un aggancio e un modo di superare quel trauma freudiano e irrecuperabile che è, a tutti gli effetti, una morte del Padre. E tutto parte da un paio di minuti urlati al massimo volume su Ascension: chissà cosa sarebbe stato Pharoah Sanders senza quella manciata di secondi.

Lux aeterna – The Creator Has a Master Plan / Colors

Karma è un disco che ha lo stesso effetto di accendere una lampadina molto luminosa in una stanza buia e senza finestre in cui sei immerso da ore. Karma è un disco che ha cambiato molte delle idee che avevo sul jazz, che prima doveva sempre essere complesso, costruito, cerebrale, a suo modo “ingessato” in dei parametri stilistici che altrimenti lo rendevano un avanguardismo scureggione che non serviva poi a molto. Karma è un disco che si presta a innumerevoli riletture nonostante l’unica cosa che riesca a condensare all’interno dei solchi siano due brani, di cui uno lungo giusto qualche minuto. Karma è un disco che, la prima volta che l’ho sentito, mi ha fatto cascare la mascella perché non pensavo che una persona potesse suonare un sax in quel modo per così tanto tempo; perché la voce di Leon Thomas, che forse è un gusto acquisito mio dai tempi degli AreA più disinibiti, era così scatenata e fuori di sé e capace di adattarsi e modulare quel messaggio così semplice e puro di pace universale che alla fine tutti sotto sotto desideriamo. Karma è un disco che mi dico sempre che dovrei risentire più spesso, come certi libri che dovrei rileggere o film che dovrei guardare ancora una volta, o come certi amici che dovrei chiamare per sentire come stanno. Karma è un disco che riesce a ricostruire un’integrità rotta, la tua o quella di chiunque altro perché sai di essere nel giusto anche quando è il mondo intero a darti torto. Karma è uno dei miei dischi preferiti in assoluto, e forse è anche il motivo per cui adesso che scrivo, qui che nello stereo c’è il vibrato magistrale che sta chiudendo gli ultimi minuti di The Creator Has a Master Plan prima che Colors faccia il suo profondo respiro finale, sento gli occhi che mi si bagnano. Karma è un paio di file scaricati quasi dieci anni fa, è un ragazzino poco più che maggiorenne che infila quei file nel telefono e va a farsi una passeggiata al tramonto mentre la città si colora d’oro. Karma è il motivo per cui questo requiem storto e sfilacciato esiste: e pensare che non ho avuto modo di vedere Pharoah Sanders, di stringergli la mano, di capire come potesse riuscire ad essere ancora se stesso in tutte queste differenti reiterazioni della propria anima, mi riempie il cuore di una tristezza che non penso riuscirò mai a colmare.

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala