PERIFERIE #8

Marie de la Nuit – Transportées (Permanent Draft)

Marie Guérin è una sound artist che rilascia i propri segnali audio dallo spigolo bretone della Francia in cui è annidata Brest. Per questa pubblicazione su Permanent Draft – etichetta discografica fondata da Fanny Chiarello e dall’artista italiana più prolifica e richiesta in circolazione, ovvero Valentina Magaletti – Guérin ha scelto uno pseudonimo che richiama i “maris de nuit” (“mariti della notte”): entità spiritiche presenti nella cultura popolare di alcune aree del Burkina Faso e delle Antille, invisibili agli uomini, che possono apparire nottetempo e presentarsi alle donne soddisfacendone i desideri sessuali senza lasciare alcuna memoria dell’accaduto. È un immaginario calzante per un’artista che, nel descrivere il proprio campo d’azione, affianca alla musique concrète e all’elettronica i termini “ghost” e “hantologique”; Transportées è infatti trasposizione fedele di queste dimensioni, un intreccio tra vivida espressione documentaristica e sperimentazione tecno-musicale. Alla base dell’album ci sono registrazioni di una cantante nordafricana, Bdira, morta nel 2002 e di cui mi è impossibile recuperare qualsivoglia informazione su internet. In un’epoca di reperibilità perenne delle nostre identità su archivi digitali, la sua figura è essa stessa spiritica, una voce che ha segnato riti e cerimonie nella propria comunità ma a cui possiamo attingere solo da nastri-reliquia di cui Marie de la Nuit si fa tramandatrice. Questi sono assemblati insieme a registrazioni di musiche tradizionali sia tunisine che bretoni, in un disorientamento della dimensione geografica e temporale che rende l’ascolto magnetico; per di più, il tutto è costantemente infiltrato dalle manipolazioni elettroniche di Guérin, che restituiscono un riflesso alieno delle fonti sonore originali e vi costruiscono attorno una stanza degli specchi mediante tecniche moderne di sound design. Con queste premesse viene spontaneo attendersi la strada più battuta, ovvero un pulviscolo elettroacustico dal taglio dark ambient, come avviene in effetti su Le Refrain (di cui peraltro esistono due versioni; consiglio quella da 5 minuti rispetto a quella – ridondante – da 16). Invece per gran parte dell’album l’artista francese adotta un approccio ben poco astratto e anzi scopertamente materico: un esempio chiaro è su Rembombardes, dove alle registrazioni originali delle bombarde si alternano le stesse note modificate digitalmente, a tratti simili ad agili pad di sintetizzatore, in un passaggio di testimone armonico e festoso accentuato dalla popolazione di suoni e voci in cut-up che ne popola i margini. O ancora, la naturalezza con cui l’eccezionale Mon Fantôme accoglie tra le proprie suggestioni un pezzo di techno minimale à la Function; una cosa che se uscisse a nome Demdike Stare sarebbe probabilmente incensata dai tre quarti della critica musicale. Transportées è un’esperienza coinvolgente e spesso sorprendente, che sa porsi in maniera originale al crocevia tra dimensioni affascinanti e inflazionate quali hauntology, Fourth World music ed etno-documentarismo. Per la Permanent Draft, un altro importante tassello nel proprio percorso all’interno della musica sperimentale al femminile (dopo l’intrigante Kronblade di Irene Bianco); per Marie Guérin, un modo per insinuarsi tra i nostri ascolti e rimanerci a lungo. 

Darkness Darkness – Animation (A Visiting Link)

Gettando uno sguardo ampio sulle pubblicazioni in ambito dub techno degli ultimi anni, si trovano tante briciole che sembrano formare un sentiero verso il superamento dei riferimenti più influenti del genere. Da una parte le totemiche esplorazioni ritmiche dei Basic Channel e del roster Chain Reaction, dall’altra le avvolgenti atmosfere delle varie incarnazioni artistiche di Rod Modell (da Deepchord in giù): esperienze di grande valore che hanno modellato interi mondi sonori e suggellato un potente immaginario, ma che nel tempo hanno preso la forma di colonne d’Ercole oltre cui moltǝ artistǝ hanno tentennato ad avventurarsi. Ora invece non è difficile rintracciare nell’operato di alcune etichette discografiche (Good Morning Tapes, West Mineral Ltd.) e di una diffusa falange di producer (Topdown Dialectic, 0N4B, Florian T M Zeisig, Purelink, Mammo…) l’intenzione di aggiornare questo linguaggio accogliendo nel suo tessuto altri strumenti espressivi, come musica elettroacustica, glitch e sound collage. L’anonimǝ artista che sta dietro il moniker Darkness Darkness (precedentemente notǝ come Bees e A Visiting Link) si iscrive in questo filone e su Animation mette in mostra alcune tra le forme più compiute delle proprie potenzialità. Nell’album sono i pezzi più lunghi ad avere lo sviluppo migliore, il che è sempre un bene. La title-track prende le mosse da un panorama post-industriale fangoso e metallico, che rimestandosi nei propri echi muta ostinato senza un andamento lineare; bastano però pochi loop di fondo e la temporanea sospensione del beat ad evocare una spaziosità siderale, così che quando il ritmo riprende il proprio corso, il paesaggio sonoro ha i tratti di una landa a metà strada tra il Porter Ricks di Biokinetics e la techno trasognata delle prime uscite Likemind Records. Beauty of the World riunisce invece un vasto campionario di cellule percussive che vengono lasciate riverberare fino a diventare familiari all’ascolto, per poi man mano essere inglobate, sovrapposte, sostituite, rigenerate le une dalle/sulle altre, creando un humus ribollente in cui germinano e marciscono i semi di tanta elettronica degli ultimi tre decenni. Anche in passaggi meno ambiziosi traspare comunque la volontà di cercare vie laterali alla composizione: Bug, ad esempio, nasce da sintetizzatori subacquei che non sarebbero fuori posto a introdurre un pezzo qualsiasi nell’epica dei Fuck Buttons di Tarot Sport, ma in seguito evolve (o si rinchiude) nello studio ossessivo di un quadretto ritmico minimale. Nel complesso, utilizzando un’espressione da addetti ai lavori, si può dire che non tutto è perfettamente a fuoco; ma questa è musica che fa dell’essere fuori fuoco una cifra stilistica, che sfumando e sfrangiando i bordi cerca di aprire nuovi spiragli. E non di rado ci riesce.

DJ Tobzy Imole Giwa – Lagos City Unloaded (Nyege Nyege Tapes)

Tra le cose che non conoscevo fino a due mesi fa, c’è l’esistenza della scena “cruise beats”. Si tratta di uno stile di club music che martella dai sobborghi di Lagos in Nigeria e che consiste principalmente in remix di hit locali e internazionali (dove la traccia vocale o la melodia più riconoscibile sono la “cruise”, il gancio dopaminico) lanciati su BPM a rotta di collo, effetti sonori senza requie e salve di percussioni che accolgono gli echi dei più vari stili di elettronica danzereccia centro- e sud-africana del Terzo Millennio. Ne ha parlato pure il Guardian, ma di un articolo che propone come generi musicali “post-hyperpop” e “TikTokCore” è difficile fidarsi. Meglio lasciarsi raccontare dall’ottimo Pan African Music le dinamiche di questa scena, il doppio legame con viralità algoritmica e danza di strada e il ruolo del 23enne DJ Tobzy Imole Giwa; meglio ancor di più se poi ci si lancia sull’ottovolante di questo suo Lagos City Unloaded dopo aver accuratamente disattivato i freni. A condizione di assorbire indenni il numero pantagruelico di volte in cui il nome del producer viene declamato come un mantra, ci ritroviamo tra le mani un mix implacabile che sputa fiamme sui confini nazionali, sulle bolle culturali e sul buon gusto ingessato, mostrando supremo rispetto solo per la necessità di ballare. Su cascate di beat singeli fieri MC si alternano a voci carezzevoli, chitarre kwaito saettano dentro proiezioni digitalizzate dell’afrobeat, l’anima mellow dell’amapiano viene trasfigurata da accelerazioni irriverenti che rivoltano come un calzino l’incedere del classico log drum: è solo una parte di ciò che succede dentro a questo macello festoso, che non sembra concepire la possibilità di far cessare il ritmo neanche per un attimo. Tra i momenti di maggior straniamento per orecchie occidentali ci sono sicuramente i passaggi dove riconoscibilissime scorie di tormentoni passati si ritrovano masticate da un dancefloor a loro alieno e digerite nel flusso; è possibile allo stesso tempo rimuginare la parola “iperrealtà” e provare nostalgia per le voci pitchate altissime del primo happy hardcore. Gli zuccherini pop sono buttati dentro al frullatore e si ritrovano a schizzare estaticamente da tutte le parti, magari finendo contro l’usbergo di una gqom dall’anima scura. Dopo 50 minuti in cui non si tira il fiato, squagliate parecchie coordinate e collassato l’alto col basso, possiamo riconoscere ancora una volta alla Nyege Nyege di essere un eccezionale megafono di musiche vitali nel vasto mondo intorno a noi: applausi, replay.

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto