CONTAINER BELLO

GAMELAN IN OPPOSITION

BALUNGAN – KUDU BISA KUDU

Cuneiform

2022

Progressive Rock

I più infognati con le frange più esoteriche e militanti del progressive rock si ricorderanno forse degli Etron fou leloublan, probabilmente i più illustri esponenti d’Oltralpe del Rock in Opposition (RIO). La loro avventura è durata una dozzina d’anni e ormai sono un nome di culto pure per gli standard di una scena – quella RIO, per l’appunto – che è di culto di per sé: al confronto, anche i non certo famosissimi Univers Zéro sembrano delle celebrità. Dopo lo scioglimento degli Etron fou leloublan, però, il loro batterista storico Guigou Chenevier è rimasto piuttosto attivo nella scena progressiva underground, continuando a pubblicare dischi fino al giorno d’oggi. (Ovviamente, nessuno dei gruppi che ha messo in piedi ha trasceso la nicchia dei completisti più accaniti del mondo avant-prog, il che non è comunque un attestato sulla qualità del suo lavoro: alcune delle sue band anni Ottanta, come i Volapük e gli Encore + Grande, sono comunque un gran bel sentire.) 

Qualche anno fa, in particolare, Chenevier ha varato uno dei progetti più creativi della sua lunga carriera. Galeotto fu un workshop sul gamelan a Marsiglia, con tanto di visita completamente spesata a Yogyakarta, che ha permesso a Chenevier di venire a contatto diretto con la cultura giavanese suonando e studiando con maestri locali dello strumento; da questa esperienza è nata l’idea per un nuovo progetto internazionale francese/giavanese, con lo scopo dichiarato di costruire un ponte tra le diverse prospettive musicali dei due Paesi. I Balungan (dal giavanese “scheletro”, che è anche il termine con cui ci si riferisce alla melodia portante di una composizione gamelan) sono il risultato di questo scambio culturale: sei musicisti (Chenevier compreso) chiamati a raccolta dalla scena rock sperimentale del sud della Francia, e sette suonatori di gamelan dalla visione e dalle ambizioni particolarmente eterodosse. («They wanted to exchange their culture with something new, because they felt that if they didn’t do that Javanese music and gamelan music would just die», ha ricordato lo stesso Chenevier.)

Nell’arco di sei incontri complessivi (tre in Francia e tre a Giava), in cui i membri del collettivo hanno suonato insieme per otto ore al giorno, ogni giorno, per circa due settimane, i Balungan hanno ben presto trasceso la propria dimensione intrinsecamente estemporanea, sviluppando una sinergia degna di un gruppo ben più saldo e stabile, scrivendo musica e suonando dal vivo. Non sappiamo molto su quanto materiale i Balungan abbiano composto, né sul numero complessivo di concerti tenuti; quel che è certo, però, è che un loro live del 2017 è stato pubblicato pochi giorni fa dalla Cuneiform con il titolo Kudu Bisa Kudu, ed è un manifesto del clima di fratellanza e socialità che si è instaurato all’interno del gruppo. Ogni brano del disco è firmato da un singolo elemento del collettivo, mentre gli arrangiamenti – curati invece dall’ensemble al completo – esplodono in mille direzioni, inglobando il suono limpido dei metallofoni del gamelan gong kebyar in un contesto rock dalle tinte artistoidi e progressive.

Ora, non è necessario andare a cercare gente particolarmente infrattata per ritrovare precedenti concettuali a un’operazione del genere – il nome dei King Crimson di Discipline è davvero troppo ingombrante, e infatti il presskit non esita a menzionarlo – ma i riferimenti dei Balungan sono comunque più sbilenchi e arcigni, anche quando la componente rock prende il sopravvento sul suono del gruppo. In questi casi, l’orchestra gamelan diventa semplicemente una possibilità in più per complicare il passo ritmico di brani dall’acceso tono avant-prog – leggasi: già piuttosto impestati. Su brani come Bruits d’éclats, Poulet mort e The Guy I Am, per esempio, gli xilofoni e i kendang si inseriscono in una tela strumentale già sfibrata dal batterismo astratto di Chenevier e dal contrappunto dissonante delle due chitarre, che rimasticano un’intera tradizione di rock obliquo che va da Captain Beefheart a Fred Frith: il risultato non è troppo lontano da un’ucronia in cui gli Horse Lords sono innamorati della musica cerimoniale di Giava, piuttosto che di quella folk africana e americana.

È però quando i Balungan trovano un maggiore equilibrio tra le loro due anime, oppure addirittura quando si avvicinano maggiormente a suonare musica gamelan con l’aggiunta di strumenti rock, che si compie davvero la magia di Kudu Bisa Kudu. In quei momenti (che sono ben lontani dall’essere una sparuta minoranza, nell’economia dell’album), la musica dei Balungan si apre su scorci mistici e commoventi, cogliendo appieno il tono severo e austero del gamelan giavanese senza però rinunciare alla vocazione alla stortura timbrica, ritmica e armonica. Su XGY14 la pulsazione in 6/8 che apre il pezzo si rivela in realtà soltanto un possibile sentiero che l’ascoltatore può perseguire: parallelamente, le distorsioni della tastiera e delle chitarre, il tema ipnotico del gamelan e le declamazioni di Laurent Frick sembrano indicare ognuno un possibile percorso sonoro indipendente dagli altri, prima che tutti questi convergano nel tema elegiaco della tastiera che conduce il pezzo verso la sua conclusione. O ancora, nella seconda metà di Wewarah, dopo quattro minuti di rito cerimoniale, i metallofoni intessono una melodia che sembra stare stretta nelle maglie del tempo della musica occidentale, mentre chitarra e tastiera, subliminalmente, continuano a sabotarla. Su KethéK Saranggon, addirittura, i Balungan introducono il flauto suling e tempestano il brano con bizzarri campioni di scimmie urlanti: contando anche l’interpretazione particolarmente istrionica di Frick, non è sbagliato scorgervi una dichiarazione d’amore dei Balungan per il lato più scenografico e teatrale della musica gamelan.

Kudu Bisa Kudu non è solo un disco zeppo di musica creativa e stimolante: è anche un album che testimonia un’intelligenza e una sensibilità rara nel trattare la cultura indonesiana – e gli undici, estatici minuti di Beteng raggiungono in questo senso forse il momento più alto dell’album. Molto, troppo spesso, millantati “incontri interculturali” come questo in realtà non riescono a cogliere le sfumature più profonde di musiche così lontane dalla nostra quotidianità, riducendo tradizioni secolari a cliché macchiettistici ed esotismi levigati a uso e consumo delle orecchie occidentali. Grazie anche alla fortuna di poter contare sull’esperienza diretta di sette maestri giavanesi, però, i Balungan evitano di incorrere nello stesso errore: Kudu Bisa Kudu trova un reale punto di contatto tra progressive rock e gamelan, una speciale zona franca che non allontana o edulcora nessuno di questi due mondi ma, al contempo, offre un vasto ventaglio di possibilità – possibilità che i Balungan non esitano ad esplorare con curiosità e creatività. Così, Kudu Bisa Kudu può occasionalmente rimandare a una versione asiatica degli Extra Life, al Don Cherry di Eternal Rhythm, agli esperimenti sul gamelan in un contesto post-minimalista di Evan Ziporyn, ma – ed è questa forse la cosa più importante – anche a capisaldi della musica indonesiana come Hudjan mas.

I Balengan ora non esistono più – o, perlomeno, sono molto vicini al non esistere più. Le difficoltà nell’organizzare viaggi con l’emergenza pandemica, la sempre più crescente tensione etnica in Francia, e la crisi economica globale rendono un progetto del genere quasi completamente privo di un futuro, e gli stessi membri del gruppo sono piuttosto scettici sulla possibilità di poter dare un seguito a questo album. Ci rimane così un solo disco, pieno di musica splendida e originalissima, composta in un clima di inclusività e integrazione tra culture diversissime: ed è forse questo il lascito più importante della musica di Kudu Bisa Kudu.

On different occasions journalists would ask us why we were doing this project, and generally the Javanese people, they were answering in a way that a French guy never would, which was that it was just about fraternité. That was very beautiful and very simple, and at least as important as the rest of the project: the human exchange, the way they welcomed us when we were there, and also the incredible places where we played some concerts in Java.

(Guigou Chenevier)

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia