SIMON SCOTT – LONG DROVE
Fin da quando esiste la possibilità di registrare il suono, c’è il desiderio di poterlo trasformare. La registrazione di elementi naturali su nastro magnetico è, a ben pensarci, proprio il preludio alla possibilità che questi vengano ricondotti alla sfera tecnica dell’umano: attraverso la ripetizione di un uguale fuori dal tempo, la giustapposizione di suoni provenienti da ecosistemi diversissimi, lo stesso decadimento del supporto che porta con sé la filigrana dell’evento riprodotto. Fissare il suono di un ambiente significa però anche poterlo studiare, renderlo il contesto d’ispirazione o lo strumento d’evocazione di una composizione in musica; in questo modo lo si può capire, celebrare o anche problematizzare. Riascoltavo di recente Amazonia 6891, uno splendido lavoro in cui una strumentazione elettronica abbastanza rudimentale affianca una miriade di registrazioni di piante, animali, fiumi e tribù autoctone della regione pluviale amazzonica. La tecnologia non sembra invadere il territorio della foresta, piuttosto pare venirne risucchiata e assimilata: trasmissioni e diffrazioni elettroniche si confondono nel tessuto sonoro dell’ambiente, che si evolve per accogliere il nuovo elemento, con il risultato di una resa ibrida in cui viene esaltata la densità trasformativa e la ricchezza di quell’ecosistema. È un esempio delle affascinanti possibilità espressive che possono nascere dall’incontro tra registrazioni sul campo e tecniche di sound design in studio, un registro che si presta ad accogliere molte e differenti sensibilità e che è stato negli anni vastamente esplorato. Esiste infatti un fitto sottobosco di produzioni tra ambient ed elettroacustica che perseguono questa strada: tra queste non è esattamente comune imbattersi in progetti che si distinguano per originalità di concetto e resa all’orecchio, ma si può scommettere abbastanza tranquillamente sul fatto che ogni anno emerga almeno una manciata di uscite che per qualche aspetto meritano il proprio posto al sole. Riguardo al 2022 una menzione può certamente essere fatta per A World Behind This World di Mark Vernon e Vista di Ayami Suzuki, che inglobavano in mondi musicali coinvolgenti e dialoganti rispettivamente i rumori delle macchine e i suoni della natura. A metà di quest’anno, invece, possiamo dire di aver trovato un luogo ameno dell’ascolto immaginativo tra gli spazi di Long Drove di Simon Scott.
Magari vi è capitato di incrociare il nome di Scott come batterista principale degli Slowdive, ma dovete sapere due cose su di lui. La prima è che da più di dieci anni si è costruito una rispettata carriera come producer di ambient piena e dronante; la seconda è che viene da Cambridge e ha un legame speciale con la vicina area detta The Fens, un’ampia zona di terra vicino alla baia (chiamata The Wash). Due aspetti strettamente legati, dato che proprio questo territorio è tema e protagonista degli studi musicali su Long Drove. L’area delle Fens è stata strappata al mare, bonificata e resa coltivabile in maniera non dissimile a quanto avvenuto nei Paesi Bassi; la regione si trova quindi sotto il livello del mare e la sua fertilità si regge su un complesso sistema di canali e dighe. Già nel 2012 Scott aveva dedicato alle Fens una rappresentazione pastorale e sfrigolante su Below Sea Level, cosa è cambiato da allora? Con il tempo l’acqua ha continuato ad essere drenata, svuotando le falde acquifere su cui si regge il terreno, che ha così proceduto ad abbassarsi ulteriormente; di conseguenza le dighe sono state innalzate per proteggere i campi dall’invasione dell’acqua marina. Di fronte all’effetto domino del riscaldamento globale con il previsto innalzamento delle acque, però, sembra annunciarsi una lotta impari per difendere le coltivazioni dall’allagamento progressivo e dalla salinizzazione delle terre, forze ineluttabili pronte a reclamare l’area dall’uso umano. Nell’ultimo decennio la consapevolezza di questi processi in atto è sicuramente aumentata ed è con nuova urgenza che Scott rappresenta ora questo angolo di mondo.
Percorrendo il territorio delle Fens, Scott ha piazzato microfoni aperti in più punti per registrare i suoni degli elementi naturali e della fauna locale senza l’interferenza della propria presenza. Queste fonti audio sono poi state messe al centro dello sviluppo dei brani di Long Drove, sia nella loro forma originale che processandole attraverso un sistema di sintesi modulare per trasfigurarne la musicalità, affiancandole inoltre a un esteso uso di tape loop. Tutti elementi ricorrenti nella cassetta degli attrezzi di uscite di questo genere, ma ciò che fa la differenza è l’attenzione che viene prestata alle potenzialità di ognuno nel costruire il quadro d’insieme. Il presskit del disco racconta l’intenzione di Scott di restituire un’immagine sonora delle Fens come se fossero già state nuovamente sommerse: per questo predilige l’utilizzo di registrazioni che contengono suoni acquei o aerei e utilizza la corporeità dei loop per dare densità al paesaggio sonoro. Nelle mani di Scott il sibilo caldo del nastro magnetico trasmette sensazioni di umidità e vita brulicante mentre i suoni dilatati mantengono la possibilità di un ascolto contemplativo, da fare però con i piedi immersi nel fango; siamo lontani dalle ripetizioni solenni di un Basinski o di un Celer. Per contro, l’elaborazione computerizzata delle voci naturali dà origine a melodie che vengono attenuate e disperse sullo sfondo, proprio come se fossero sommerse anch’esse. Il sentimento di ineffabile nostalgia che ne deriva è evidente nei primi due brani, attraversati da note serene con il suono sgranato da un pitch alto che le arrugginisce e le impaluda, facendole diventare l’ambiente diffuso su cui i veri suoni ambientali possono far sentire tutta la propria vitalità. Tra i canti d’uccello e i fischi del vento da una parte e le pennellate di sintetizzatore dall’altra si creano dicotomie lontano-vicino e limpido-melmoso che configurano un ecosistema musicale in equilibrio dinamico. Nei tre brani degli Holme Fen Posts, invece, prevale una visione più cupa sulle trasformazioni del territorio e le loro conseguenze. Droni minacciosi si addensano come nubi e anche sulle sparute melodie si allungano ombre scure, mentre il suono in presa diretta che prevale stavolta è quello di un ponte metallico crollato, battuto con delle bacchette dallo stesso Scott per renderlo una specie di gigante strumento a percussione. Non è un caso che un rumore generato dall’umano (nell’azione che lo genera e nella costruzione che lo fa risuonare) sia al centro dei paesaggi più foschi del disco, che evocano immagini di abbandono. La chiusura dell’album è però nuovamente affidata a un quadretto pacifico di note a mezz’aria, intervallate senza contrasto dai crepitii dei fili elettrici mossi dal vento. Sembra dirci che l’idea di desolazione connessa a un ritorno allo stato di palude delle Fens è un vissuto tutto umano, collegato alla perdita delle coltivazioni e al sostentamento economico che garantiscono: la natura ritrova da sé il proprio bilanciamento ed accoglie anche ciò che noi lasciamo indietro.
Sarebbe stato impossibile, o ingiusto, scrivere di Long Drove senza parlare estesamente del contesto che lo ha ispirato. Ma anche volendo restringere l’attenzione sull’aspetto prettamente musicale, si tratta di un album profondamente soddisfacente in cui si apprezza il lavoro dell’artista nel modellare le caratteristiche percettive di un ambiente sonoro in cui viene davvero facile immergersi. Se allarghiamo poi lo sguardo alle riflessioni che questo ascolto può portarsi dietro noi, che girando per alcune città dell’Emilia-Romagna riusciamo ancora a vedere i blocchi di fango portati dalle ultime devastanti esondazioni non possiamo che sperare in altre pubblicazioni che riescano così agilmente a coniugare piacevolezza e consapevolezza.