Una storia ci rivela tanto quanto noi siamo dispostə a scavare. Possiamo accontentarci del riassunto, della morale, della linea ferma e netta tra due punti che ci dà la risposta che cercavamo e una struttura semplice da far corrispondere nella mente a quella voce. Ma se si va oltre il “cosa” a scrutare il “come”, nel guardare più da vicino quella linea spessa di pennarello ci si rivelano costellazioni di punti connessi tra loro, che con la propria moltitudine ne formano corpo e sostanza. E questi punti contengono, a loro volta, altre storie. La storia della musica è un vastissimo oceano di inchiostro che spesso si cerca di ridurre alla somma delle sue correnti. Vettori di evoluzioni nel tempo che ci danno un’idea della direzione ma ci dicono poco del significato; occorre immergersi per sondare le profondità che sorreggono il moto delle onde (sonore) che già conosciamo.
Ecco una linea comunemente tracciata: Parigi è stata lo snodo fondamentale per lo sviluppo della musica elettronica europea nel Novecento. Un’affermazione vera ma monolitica, che non racconta tutta la verità. Partiamo da un fatto: a metà del secolo scorso le possibilità creative in questo campo erano strettamente legate all’utilizzo di apparecchi tecnologici poco diffusi e molto ingombranti. Difficile per artistə senza ingenti disponibilità finanziarie pensare di ottenere in autonomia i macchinari necessari per sperimentare; oltretutto, non era facile nemmeno capire in che modo poter utilizzare quelli disponibili. Da qui l’idea di associarsi per cercare di riunire alcune delle migliori espressioni tecnologiche del tempo e confrontarsi con idee innovative su come musicarle. Con questo intento Pierre Schaeffer costituisce il Groupe de Recherche de Musique Concrète, da cui poi nascerà nel 1958 il Groupe de Recherches Musicales (da qui in poi, GRM). Schaeffer aveva teorizzato una musica che usasse come elementi primari suoni e rumori pre-registrati: musica che sarebbe nata dalla componente concreta dell’esistenza comune, musique concrète appunto, in cui il suono si sarebbe fatto strumento. Dopo aver passato anni di frustrazione per la limitatezza delle possibilità tecnologiche, nel 1950 la sua idea si aggancia all’arrivo del primo registratore di loop su nastro e la musica cambia, letteralmente. Le minuziose tecniche di cut-up dei nastri consentono di ricomporre gli stimoli uditivi in uno schema espressivo aperto e malleabile che nel tempo trasformerà la concezione stessa di ciò che si può fare con un suono: il contesto originario in cui è inserito (sia esso ambientale o artistico) non è mai necessariamente quello definitivo, perché modifiche e traslazioni possono sempre modificarne la natura e aprire nuove strade, percettive e comunicative. Bernard Parmegiani e Luc Ferrari, per citare due tra le figure più monumentali passate per il GRM, vantano discografie sterminate che fungono quasi da enciclopedie sulle moltissime possibilità che scaturiscono da questo approccio. Se oggi diamo per scontato che un brano possa essere campionato in un altro diventandone parte integrante, lo dobbiamo in origine al catalizzatore di menti che fu il GRM. Questa storia meriterebbe certamente una trattazione a parte, che esula dalle intenzioni (e dal tempo, sigh) di chi scrive, per cui vi lascio a un bellissimo paper-racconto-analisi di Daniel Teruggi.
Nel 1970 il GRM si fonde all’INA (Institut National de l’Audiovisuel) e diventa, a tutti gli effetti, un’istituzione. Il fatto che discograficamente il GRM sia attivissimo ancora oggi, così come non pochə delle artiste e degli artisti passati per quelle stanze, ne amplifica la risonanza anche nella contemporaneità. Tuttavia si è trattata di un’esperienza unica nelle sue caratteristiche, ma non isolata. A metà del Novecento la mappa della musica elettronica di ricerca e d’accademia ha già scavalcato i confini francesi. Nel 1960 si viene a formare anche presso l’università di Utrecht uno studio di musica elettronica, successivamente ribattezzato Istituto di Sonologia. L’intento è mettere al centro il suono elettronico puro: come fare musica con ciò che nasce dalla macchina? Si inizia con attrezzature prestate dal dipartimento di fisica, tanto è in quel momento lo scollamento tra il mezzo e il fine. La base sta negli oscillatori, che generano variazioni cicliche di tensione elettrica espresse sotto forma di onde. A questi si aggiungono dei filtri per modificare il suono generato, a partire da forma d’onda e intonazione. Più queste strumentazioni diventano sofisticate e si arricchiscono di nuove funzionalità, più blocchi sono a disposizione per costruire le proprie architetture su nastro magnetico. Sotto la direzione artistica di Gottfried Michael Koenig, l’Istituto di Sonologia di Utrecht accresce la propria influenza attirando sempre più competenze tecniche e menti visionarie che collaborano tra loro; al contempo contribuisce a diffondere la conoscenza di questa musica nuova organizzando concerti e seminari. Con gli anni diventerà un punto di riferimento per lo sviluppo di metodi e strumenti orientati alle nuove tecnologie computerizzate, producendo programmi di composizione algoritmica e sintesi digitale. Nonostante dalle nostre parti se ne sia sempre parlato ben poco, un segnale evidente della rilevanza di questa istituzione arriva dalla raccolta Electronic Panorama del 1970, in cui si cerca di dare un colpo d’occhio sui nodi focali della musica elettronica sparsi per il (Primo) mondo: qui accanto alla ovvia Parigi, alla scena sperimentale di Tokyo e alla Varsavia di Penderecki e Dobrowolski, si trova proprio Utrecht. E chi compare per primo nella selezione di studi musicali provenienti dall’Olanda? Jaap Vink.
Si dice che è un mondo per estroversi e Jaap Vink di certo non lo era. Insegnante all’Istituto di Sonologia per 40 anni, ex ingegnere poi innamorato delle possibilità della tecnologia in musica, nel corso della sua carriera accademica non ha rilasciato traccia discografica delle sue ricerche, se non appunto quella Screen scelta per l’inclusione su Electronic Panorama. Né se ne è mai interessato: per sua stessa testimonianza, la composizione musicale formale non faceva parte delle sue attività. Il percorso di scoperta di Vink nel sondare le possibilità del suono trasmesso e plasmato dalle macchine avveniva nello studio e in forma libera; solo quando si organizzavano concerti o esibizioni di qualche tipo, per ragioni pratiche, registrava la versione di una particolare direzione di ricerca su nastro, o improvvisava dal vivo sulle linee concettuali da cui un’idea era germogliata nei circuiti. Per questo motivo abbiamo potuto avere a disposizione una testimonianza sufficientemente ampia delle sue sperimentazioni musicali solo nel 2017, con la pubblicazione di alcune di queste registrazioni in una raccolta curata proprio dal GRM (vedi tu i ricorsi storici). La storia all’origine è nota: François Bonnet (aka Kassel Jaeger, che è l’attuale direttore artistico dell’INA-GRM) è nell’appartamento di Jim O’ Rourke a Shinjuku e pesca dalla sua collezione una copia in vinile di Simultan di Roland Kayn. I due vanno in fissa con la foto di un sintetizzatore colossale che trovano all’interno. Si mettono ad indagare e scoprono che si chiama GAME (Générateur Automatique de Musique Électronique), lo ha inventato il belga Léo Kupper ma non ha collaborato direttamente lui al disco di Kayn; l’intrico di connessioni è invece stato presieduto da uno schivo ingegnere musicale olandese. E chi era il tecnico di Roland Kayn all’epoca? Jaap Vink.
Un inciso di giustizia nella memoria storica va fatto: Kayn è oggi ampiamente riconosciuto come un pioniere della musica elettronica ma, senza nulla togliere al suo vasto percorso di sperimentazione, è importante ricordare che l’apparato tecnico da cui sono originati lavori come Infra o Tektra è stato sviluppato dal misconosciuto Vink. La collaborazione tra i due per il resto era perfettamente logica, perché entrambi si proponevano di creare una musica che fosse completamente slegata dalle nozioni di melodia, armonia e ritmo. Se questi elementi sono ciò che fin dalla notte dei tempi conferisce all’espressione musicale la propria coloritura emozionale, cosa succede alla musica quando si sceglie di estrometterli? Cosa succede a noi? La comunicazione espressiva avviene allora su una terra incognita che riflette l’impenetrabilità dell’apparecchio al nostro sguardo e alle nostre aspettative; l’artista non compone più musica per un determinato strumento ma sviluppa musica in collaborazione con le possibilità che i circuiti elettronici mettono a disposizione. Pur in questa comunanza di concezione, i due hanno intrapreso però direzioni molto diverse. La ricerca musicale di Kayn è tutta tesa verso lo sviluppo di una musica “cibernetica”, che nasce dall’interazione tra reti complesse di dispositivi elettronici che l’artista prepara, collega e orienta. Una volta che i programmi sono attivati l’ingerenza umana deve essere ridotta il più possibile, perché equivale ad un’interferenza sulla creazione di possibilità; i suoni si combinano e si generano secondo schemi che non sono prevedibili dall’artista stesso, i comandi vengono impartiti sempre nell’ottica di trovare un’interpretazione – e non un’esecuzione – della macchina dall’altra parte. Al contrario, le testimonianze che abbiamo degli studi di Vink restituiscono una forte idea di controllo, che soggiace al suo più grande interesse: la trasfigurazione del suono. Il dettaglio delle mutazioni che una fonte audio può attraversare e la relazione tra i diversi stati in cui può manifestarsi sembrano essere per Vink il nuovo linguaggio espressivo da esplorare. È qui che sta la connessione tra il tecnico e l’artista: disvelare le possibilità di evoluzione di un suono corrisponde al lavoro continuo sulle patch (cioè le unità funzionali che generano o modificano l’input audio) dei sintetizzatori e le loro relazioni all’interno di un circuito elettronico. Detto altrimenti, serve una tecnica precisa e consequenziale per arrivare a risultati sorprendenti.
Nel corso degli anni Settanta, Vink sviluppa nello studio BEA5 di Utrecht un sistema di feedback guidato da un modulatore ad anello, che influenzerà in maniera decisiva la materia sonora della sua ricerca. Il modulatore ad anello processa il suono consentendo di combinare due input audio in un unico output. Il primo input è solitamente un’onda generata da un oscillatore, che può passare attraverso un registratore a nastro con funzione di playback prima di raggiungere il piano di mixaggio; può quindi entrare nel circuito come onda pura o già modificata con un delay. Il secondo input è costituito dalla stessa onda modulata, che passa per una serie variabile di compressori, riverberatori e filtri prima di rientrare nel modulatore. L’output finale di questo circuito è un suono stratificato che varia le proprie caratteristiche timbriche nel tempo, instabile ma con sufficiente continuità da non sfociare nel rumore. L’evoluzione del suono risultante può poi essere modificata attraverso modulatori di ampiezza e filtri appositi, o il circuito stesso può essere modificato per portare ad un esito sonoro differente. Le parole non rendono giustizia al meccanismo reale, per cui se vi interessa l’aspetto tecnico vi consiglio questo bellissimo video realizzato dal personale dell’Istituto di Sonologia in cui il processo viene spiegato e dimostrato. Anzi, vi invito a guardarlo in ogni caso se intendete approcciarvi alla musica di Jaap Vink, perché sapere come si origina conferisce nuova profondità all’ascolto. Abbiamo in testa l’idea dell’artista-demiurgo che girando manopole e schiacciando pulsanti forgia la materia musicale a proprio piacimento, ma osservare il modo in cui si generano i suoni che ascoltiamo ci fa capire che non è così. Non c’è una figura che dice alla macchina “ti faccio fare questo”, bensì una conversazione che si viene a creare tra la macchina e la persona in cui la prima risponde in maniera propria alle condizioni preparate dalla seconda, per poi interagire vicendevolmente nel modellare il suono. Penso personalmente che non tolga nulla della magia che da una funzione elettronica ci fa percepire musica capace di farci provare sgomento, meraviglia, pace, furore; anzi, fa emergere la complessità tecnica che c’è dietro al processo generativo e sottolinea quanto la capacità di creare sia intimamente connessa al voler provare e al saper scegliere.
Ascoltando le registrazioni che sono arrivate fino a noi, è interessante vedere come l’evoluzione dei sistemi usati da Vink nello studio abbia modificato la sua espressività in musica. La prima in ordine cronologico è la già menzionata Screen, risalente al 1968: si sente qui come lo sviluppo del brano proceda ancora per blocchi di suono, o meglio, diversi stati delle onde che costituiscono un suono, che si susseguono tra loro come atti di una rappresentazione in cui le variazioni sono ben percepibili e sovraesposte. Nella serie di brani risalenti ai primi anni Settanta (Objets Distants, Granule, Residuals) invece c’è già un approccio più unitario e sottile. I brani hanno come input una fonte sonora e il loro intero sviluppo è costituito da iterazioni di feedback, echi e modulazioni di quella sorgente; ma in questo processo Vink crea due dimensionalità parallele in cui modella il suono, un “fondo” più sparso e distante che definisce l’atmosfera e un “primo piano” in cui gli eventi audio avvengono in immediata disponibilità alla percezione. Il fondo sonoro di droni incombenti stabilisce e mantiene il piano espressivo su cui le alterazioni timbriche disegnano la propria dinamicità, ma non è a sua volta statico, anzi muta continuamente sottotraccia. Così capita spesso che nel momento in cui il primo piano accoglie una pausa, ci rendiamo conto che ai margini della nostra attenzione tutto lo scenario è cambiato. La sensibilità (questa sì, tutta musicale) di Vink nel guidare questi processi, attraverso un alternarsi di rarefazioni che sfidano l’attenzione e addensamenti che invadono l’orecchio, genera alcune tra le più intense creazioni di droni elettronici di questo periodo.
Il perfezionamento del sistema di feedback sul modulatore ad anello porterà poi negli anni Ottanta ad una ancora maggiore definizione del suono, evidente in quelli che forse sono i due massimi capolavori di Vink: En Dehors e Tide, sviluppate tra il 1980 e il 1985. Ascoltata oggi, En Dehors sembra veramente una base d’impianto per tutta l’estetica dark ambient dei decenni successivi, con i suoi suoni indefiniti, lontani, evocati all’ascolto con vari gradi di salienza a cui ormai abbiamo imparato a dare un forte significato emozionale. Questo lo si sente anche in alcune nuove correnti che hanno ridefinito l’estetica post-industriale: penso ad esempio alle produzioni del roster Subtext, in cui le componenti più votate al contrasto e al rumore hanno sempre alla base un denso humus di trasmissioni elettroniche fantasmagoriche che, se espressivamente convogliano le inquietudini del nostro tempo, musicalmente prendono a piene mani dai paesaggi sonori generati da Jaap Vink. La filiazione si avverte ancora più forte ascoltando Tide, di cui Vink studiò varie versioni; quella inserita nella raccolta è uno dei brani in cui l’artista consente maggiormente alle eco di riverberarsi tra loro per esplorare le possibilità che si celano nelle dissonanze. Vi è una carica drammatica che non è presente di per sé nel materiale di origine, ma viene generata magneticamente nel suo dipanarsi tra tempeste di frequenze elettriche e presagi di droni abissali. Quasi quarant’anni dopo, suona ancora attualissima.
Poco dopo la morte di Vink avvenuta ad inizio anno, il canale MrSonology ha reso pubblica una versione inedita di Tide di circa un’ora realizzata durante un’esibizione per il Museo Stedelijk di Amsterdam. C’è un singolo suono, dilatato, esteso, che attraversa tutto il brano; talvolta sembra sparire, in certi momenti invece sembra l’unico appiglio offerto all’ascolto. È una registrazione che gioca con il silenzio: solo in rari momenti arriva a sfidarlo con la forza di onde sonore riverberanti, più spesso ne viene affascinata ed agisce in sordina, operando alla periferia dello spazio sonoro. Ma quel suono è sempre lì, anche quando non ce ne accorgiamo, ad operare continuamente forme e legami che tengono insieme tutto il resto. Ne nasce un pezzo laborioso, immersivo, bellissimo. Una ricerca continua per trasformare un singolo suono in una musica dai grandi orizzonti: questo è il lascito di Jaap Vink.