CONTAINER BELLO

L’ESORDIO DEI NARCOTIX È UNA BOMBETTA

THE NARCOTIX – DYING

n/a

2024

Art Rock

Seppur emerso dalla scena underground newyorkese, il quintetto The Narcotix è in realtà un affare del tutto panculturale, profondamente legato alle musiche e alle tradizioni dell’Africa centrale fin dalle stesse origini di diversi suoi elementi. Anche per questo il background stilistico-culturale del gruppo è tutto un programma, e vale la pena sviscerarlo nel dettaglio per dare già un’idea dell’unicità e della bellezza del loro album d’esordio Dying. Le compositrici di tutto il materiale sono Esther Quansah e Becky Foinchas, cresciute in Virginia ma figlie di immigrati ivoriani e camerunensi rispettivamente, che si conoscono fin da quando cantavano entrambe nel coro ai tempi delle scuole elementari. Il chitarrista Adam Turay, di origini sierraleonesi, le conobbe invece all’Università della Virginia, forte della condivisa passione tanto per la musica pop più quirky degli anni Novanta e Zero americani quanto per diversi generi popolari dell’Africa Centrale. Infine, una volta trasferitisi a Brooklyn, il gruppo si è arricchito della base ritmica formata dal bassista Jesse Heasly, studente presso il New England Conservatory e attivo nell’ambito del rock sperimentale di New York, e dal batterista Matt Bent, che nonostante i suoi studi jazz è parallelamente anche un DJ e producer amante dell’IDM e del bubblegum bass di SOPHIE.

Con un background tanto esotico e frastagliato, la musica di Dying abita per forza di cose un’intercapedine poco bazzicata, situata da qualche parte tra l’art rock americano e le espressioni più creative e moderne della musica popolare africana. In questo senso, nonostante la vicinanza concettuale a manifestazioni dell’afro-punk come Tamar-Kali, i Narcotix si distinguono perché la loro non è soltanto musica occidentale suonata da immigrati di seconda generazione; piuttosto, è un’espressione artistica in cui la rumba congolese e la chimurenga zimbabwiana sono parte integrante dell’identità stilistica del gruppo tanto quanto il pop e rock statunitensi. Le voci di Quansah e Foinchas si rincorrono e si incastrano in continuazione – ora cantando all’unisono, ora cimentandosi in call & response psichedelici di lallazioni e melismi come su The Maiden, ora invece elaborando linee indipendenti che si sovrappongono quasi fortuitamente come sulla funambolica The Mystic – dando vita a un impasto lisergico che risente tanto del soul al femminile, quanto degli inni di quella «catholic, castrated boys music» risalenti al Settecento che cantavano da bambine nel coro (cfr. l’apertura di The Lamb), quanto degli intrecci vocali del soukous. Sentite per esempio su The Child come tutte queste tendenze centrifughe vengono tenute insieme dal contrappunto tra la linea melodica vocale principale, che cantando in francese acuisce la vicinanza con la musica africana francofona, e i gospel ecclesiastici che fanno capolino in secondo piano.

Allo stesso modo, il comparto strumentale ideato da Quansah e Foinchas respira un comune afflato poliglotta e panculturale. La palette timbrica che i Narcotix allestiscono per Dying risente indubbiamente dell’indie rock più intelligente degli anni Novanta, con nomi come Built to Spill e Modest Mouse che fanno spesso capolino lungo il lavoro; su The Sun o The Lover, per dire, il modo in cui la chitarra ricama ariosa linee melodiche snelle eppure sofisticate non può non far pensare ai Sunny Day Real Estate e al panorama Midwest emo in generale, mentre le frequenti pulsioni jazzate della batteria di Bent richiamano evidentemente gruppi più sperimentali dell’ala alternativa come i The Sea and Cake. Anche il contributo dei numerosi ospiti a corredo, che arricchiscono il suono del quintetto con luminosi arrangiamenti di archi, ottoni, pianoforte e percussioni assortite, sembra avvicinare il suono di Dying a quello di certi numeri dei Grizzly Bear.
Al contempo, il tono liquido della chitarra di Turay risente evidentemente di quello delle musiche subsahariane, con un suono cristallino e una certa fascinazione per una pronuncia ritmica tipicamente africana – ulteriormente enfatizzata dal frequente utilizzo di poliritmi e dello standard pattern in 12/8 per tutto il lavoro – che richiama quello che si può sentire nei dischi degli Empire Bakuba o dei Blacks Unlimited di Thomas Mapfumo. 

In una proposta musicale così fluida a livello di riferimenti geografici e temporali, la stessa scelta di adottare una scrittura tanto sfilacciata si può leggere non soltanto come un segno di maturità e ambizione della penna dei Narcotix, ma anche come un retaggio dell’andamento molto libero e free-form di diverse tradizioni della musica africana come il jùjú. Le nove miniature di Dying sono piccole durchkomponiert, dalla durata media di poco più di tre minuti, che sembrano mostrare ben poco riguardo per il concetto di strofe e chorus, attraversando anche nello stesso brano una varietà di umori che includono ogni estremo tra la leggerezza più dolce e l’inquietudine aliena. Ed è proprio questo patrimonio di atmosfere, sonorità, idee, incastonate in una cornice tanto vitale e florida, il più grande pregio dei Narcotix: il loro Dying è, semplicemente, una ulteriore dimostrazione della ricchezza che le culture musicali ai confini dell’impero anglofono possono portare al discorso musicale odierno, e uno dei dischi rock più creativi che abbiamo ascoltato in questa prima metà 2024. Dura soltanto una mezz’ora scarsa – che vi serve di più per recuperarlo?

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia