CONTAINER BELLO

LA SERIE FLY OR DIE SI È CHIUSA COL SUO CAPITOLO PIÙ BELLO

jaimie branch – FLY OR DIE FLY OR DIE FLY OR DIE ((WORLD WAR))

International Anthem

2023

Avant-jazz

jaimie branch (tutto minuscolo, senza le capitalist letters, come le chiamava lei) è morta il 22 agosto 2022, a soli trentanove anni d’età; soltanto recentemente la famiglia ha confermato che la causa è da attribuire a un’accidentale overdose da oppiacei, da cui branch è stata a lungo dipendente. La sua carriera come trombettista è durata per una buona quindicina di anni, e in quest’arco di tempo ha fatto in tempo a suonare per una moltitudine di progetti – quasi tutti legati alla materia jazz, per quanto spesso contaminata (che fosse dall’elettronica, dal rock, dall’hip hop o dall’improvvisazione radicale poco importa). Non si poteva quindi più parlare di una musicista esordiente; eppure, la sua precoce dipartita lascia comunque l’amaro in bocca tipico delle promesse non mantenute. Già il fatto che il suo primo disco inciso da leader risalga solo al 2017 (mi riferisco ovviamente al suo celebrato Fly or Die) contribuisce a restituire l’immagine di una musicista che aveva soltanto cominciato a intraprendere con decisione una propria personale direzione artistica. Contando poi che l’ultimo album pubblicato prima della sua morte – il bellissimo Pink Dolphins del duo Anteloper, uscito a giugno 2022 – sembrava suggerire la piena acquisizione di una nuova maturità artistica, si era pienamente legittimati a pensare che branch fosse giusto in procinto di inaugurare nuova fase del proprio percorso musicale, ancora più luminosa della precedente. Una nuova fase cui, però, non abbiamo fatto in tempo ad assistere.


Tuttavia, Pink Dolphins non è stato l’ultimo album su cui jaimie branch abbia lavorato. Tra il 18 e il 23 luglio 2022, circa un mese esatto prima di morire, la trombettista si trovava negli studi della International Anthem a Chicago per finire di lavorare alla post-produzione di alcune registrazioni risalenti ad aprile, realizzate con il suo quartetto Fly or Die; al momento della morte mancavano soltanto alcuni titoli, degli orpelli minori in fase di missaggio, e un artwork affinché questo materiale potesse essere promosso a un album ultimato a tutti gli effetti. Così, tra settembre e dicembre, un team composto da familiari, collaboratori e amici di branch si è riunito per ultimare il terzo disco della serie Fly or Die seguendo il più pedissequamente possibile le direttive e le richieste che branch aveva lasciato esplicite in vita, specialmente per quanto riguardava artwork e packaging. L’album è stato infine pubblicato lo scorso 25 agosto con il titolo Fly or Die Fly or Die Fly or Die (​(​world war​)​) (da qui in avanti, solo ((world war))), più o meno in concomitanza dell’anniversario della morte. Si tratta di un lavoro, suo malgrado, piuttosto deprimente. Non tanto per l’umore che domina queste composizioni, che sono invece vispe e ruspanti; né per una scarsa qualità della musica, che è anzi bellissima – probabilmente la più bella mai incisa con la formazione Fly or Die. ((world war)) è un album deprimente perché conferma definitivamente l’impressione che avevamo avuto con l’ascolto di Pink Dolphins, e cioè che durante i suoi ultimi mesi di vita branch avesse ulteriormente perfezionato la sua visione artistica; di conseguenza, è un disco che contribuisce ad alimentare il senso di rimpianto per la perdita di una figura così affascinante, che tanto poteva ancora dare al panorama improvvisativo contemporaneo.

Ma a parte questa elucubrazione contestuale, l’ascolto di ((world war)) in sé è rigenerante e divertentissimo. Proprio come Pink Dolphins aveva rappresentato una svolta più materica e stilosa del sound degli Anteloper, fino a quel momento piuttosto accartocciato su se stesso, così ((world war)) prosegue sul solco del massimalismo straripante inaugurato dai due precedenti capitoli della serie Fly or Die interpretandolo però in una declinazione più vulcanica, esplosiva, e al contempo immediata e tirosa – qua e là, addirittura catchy. E dire che allo stesso tempo la scrittura di jaimie branch si è fatta pure più labirintica e tortuosa, ostentando una determinazione quasi impertinente nel voler esplorare fino in fondo tutte le possibilità della musica dei Fly or Die. A tal proposito, gli altri membri del suo quartetto ricordano così le sue ambizioni artistiche durante la realizzazione di ((world war)).

jaimie never had small ideas. She always thought big. […] And this album is big. Far bigger and more demanding — for us, and for you — than any other Fly or Die record. For this, jaimie wanted to play with longer forms, more modulations, more noise, more singing, and as always, grooves and melodies. She was a dynamic melodicist. jaimie wanted this album to be lush, grand and full of life, just as she was.

Ed effettivamente, quella grandeur gloriosa e vitalistica cui branch aspirava si percepisce per tutta la durata dell’album. Mai come su ((world war)) la musica dei Fly or Die è apparsa così colorata e rigogliosa: è una cornucopia di stili e riferimenti che sembra deflagrare continuamente in ogni direzione, assorbendo e rielaborando organicamente l’influenza delle sorgenti sonore più disparate – jazz in ogni sua manifestazione (poco importa che sia il jazz funk, o l’afro jazz, o il free jazz), punk, folk, elettronica, hip hop, musiche della diaspora africana (in particolare, quelle latine e caraibiche). Il carattere proteiforme di ((world war)) d’altronde viene messo in chiaro fin da subito, con l’iniziale uno-due di aurora rising/borealis dancing e burning grey a sfoderare un caleidoscopio di invenzioni timbriche, ritmiche e melodiche da far girare la testa: bordoni magniloquenti di organo in odor di progressive e kosmische musik che sfumano poi in ispidi temi più affini al raggamuffin e alla dancehall digitale; groove convoluti in tempi composti che fanno il giro e diventano ballabili; assoli di violoncello che duettano con una tromba che parla simultaneamente il linguaggio di Miles Davis, di Chet Baker, di Don Cherry, di Woody Shaw e di Peter Evans; metriche sbilenche che la batteria di Chad Taylor contribuisce a fratturare e mutare ulteriormente; e ancora dissonanze, rumori, suoni selvatici che sembrano provenire da ogni dove.

Ma tutto ((world war)) è una festa continua. Su bolinko bass, per esempio, ci si perde a seguire il bislacco andamento poliritmico descritto da percussioni, contrabbasso e batteria e l’elaborato call & response intessuto da tromba, trombone e clarinetto basso, che tradiscono un evidente retaggio africano; su take over the world, si viene indotti invece a pensare a un’ispirazione ragga jungle alla base del propellente tappeto percussivo che traina il pezzo per tutta la sua durata. Ancora, sulla prima metà di baba louie l’intrecciarsi sinuoso di marimba e mbira rievoca la cultura afro-cubana, mentre nella seconda parte il baricentro geografico sembra spostarsi verso la Giamaica, con basso e batteria a dettare un rallentamento del tempo mentre vari effetti eco e delay dilatano il suono di piatti, tromba e flauti – quasi come se in cabina di regia fosse improvvisamente entrato Lee “Scratch” Perry. Addirittura, the mountain è una rivisitazione ortodossa-ma-non-troppo di Comin’ Down dei Meat Puppets, svuotata della frenesia cowpunk per far emergere un afflato più propriamente country. Paradossalmente – ma forse neanche troppo – a fare le spese del sound più variopinto mai esibito dai Fly or Die su disco sono proprio le divagazioni più esplicitamente astratte che in passato avevamo potuto apprezzare su brani come leaves of glass, lesterlude o bird dogs of paradise. L’unica ovvia eccezione in questo senso sono i due minuti di solo violoncello e tromba di and kuma walks – che comunque qua e là sembra evadere dalla dimensione più criptica di ascendenza AACM per tingersi del melodismo della canzone folk appalachiana. Tuttavia, gli aspetti più enigmatici del suono dei Fly or Die non sono spariti, tutt’altro: gli inquieti tremoli sul ponticello del violoncello di Lester St. Louis ancora emergono tra le pastose linee di basso di burning grey e di take over the world, così come gli assoli di branch qua e là si disgregano e si fanno più arcigni, seguendo i modelli di Axel Dörner e Nate Wooley. Questa sovrapposizione di elementi più avant-garde su un tessuto sonoro più ballabile contribuisce a rendere il soundscape di ((world war)) insieme irruente, trascinante e cerebrale.

Anche la prestazione vocale di branch – che su ((world war)) gioca un ruolo chiave e inedito nell’economia dei Fly or Die sembra risentire dello stesso poliglottismo che caratterizza le parti strumentali. Il suo modo di cantare non è mai stato esattamente tradizionale, ma fino ad ora aveva comunque tentato di avvicinarsi alla vocalità della musica nera, se non al jazz (come su love song, da Fly or Die II: bird dogs of paradise) quantomeno all’hip hop (prayer for amerikkka, ib.) o all’R&B e al blues (Earthling, da Pink Dolphins). Su ((world war)) invece il suo timbro è sfrontato e la sua interpretazione incalzante, come nel rock: sulla strofa di take over the world, con quel «gonna take over the world / give it back to the land» ribadito in maniera forsennata quasi mangiandosi le parole, sembra di sentire perfino l’influenza del punk rock al femminile in stile Babes in Toyland. Ed è forse il suo canto così travolgente, sciamanico e riottoso, l’unico sintomo del profondo disagio che segnava la vita di branch che traspare dalla musica di ((world war)). In un toccante pezzo in sua memoria scritto lo scorso dicembre dall’amica Amirtha Kidambi (la cantante delle Code Girl di Mary Halvorson), la dipendenza dalle droghe di branch viene ricondotta a un radicato senso di insoddisfazione e sottovalutazione perpetua che ogni artista vive sulla propria pelle in un sistema capitalista; e se la musica di ((world war)) è straripante di gioia e amore per la vita, in effetti i testi suonano invero piuttosto incazzati. Il lascito ultimo dell’intera missione artistica di jaimie branch, musicale quanto concettuale, è quindi forse da rintracciare proprio nel rant di burning grey, che invita in maniera nemmeno troppo implicita a imbracciare una vita quotidiana di lotta militante: «the future lives inside us / don’t forget to fight». Non lo dimenticheremo.

Condividi questo articolo:
Emanuele Pavia
Emanuele Pavia