LA NASCITA DI UN ASCOLTATORE

“There is no theory. You have only to listen. Pleasure is the law. I love music passionately. And because l love it, I try to free it from barren traditions that stifle it. It is a free art gushing forth — an open-air art, boundless as the elements, the wind, the sky, the sea.”

Claude Debussy

Quando ero piccolo le mie due canzoni preferite erano Al Pranzo di Gala di Babbo Natale e La Tartaruga. Ricordo che mia sorella le cantava mentre mi spingeva sull’altalena nel parchetto davanti casa. Venti anni dopo le ho sentite davvero per la prima volta, scoprendo che non solo erano entrambi brani di Bruno Lauzi, ma che stavano perfino dentro allo stesso singolo. Tra tutta la musica che mi era arrivata alle orecchie, tutte le canzoni che la mia famiglia mi cantava, queste due avevano in qualche modo fatto breccia. Si tratta di una coincidenza, o già da bambino certi elementi nella musica di Lauzi mi avevano catturato? Negli ultimi anni mi sono spesso sforzato di trovare una risposta. Come ho detto, i pezzi li sentivo solo cantati da membri della mia famiglia, ed è quindi impossibile che questo je ne sais quoi fosse derivato da strumentazione o arrangiamenti. L’istinto indirizza quindi verso testo e melodia, le cose che più si mantengono intatte quando un brano viene riproposto da una voce solitaria – ma è così banale la questione? Le canzoni da bambini hanno una struttura molto semplice, eppure la storia della musica ci insegna che dentro un giro di quattro accordi base si possono nascondere profondità oceaniche di significato. Bruno Lauzi è certamente capace di imprimere un tipo particolare di umorismo e immaginario nei suoi testi; io, a cinque anni, ero davvero in grado di apprezzarlo? O forse la sua voce veniva metabolizzata efficacemente dai miei, in un modo che trovavo inconsciamente affascinante? Venire a capo di questi interrogativi è difficile, ma una cosa è certa: sono entrambe canzoni divertenti e intelligenti, forse le due migliori tra i confusi ricordi che ho relativamente alla musica della mia prima infanzia. La personalità di un essere umano comincia a venire fuori tra il terzo e il quinto anno di vita, pertanto non sarebbe così strano considerare questa preferenza una scintilla di criterio musicale, un primo indizio della mia passione futura. 

Andando avanti con gli anni, tra elementari e medie ho cominciato a sentire le prime cose di mia spontanea volontà, finendo per creare un mix quantomeno particolare: i Lunapop, Samuele Bersani, la Piccola Orchestra Avion Travel, un poco dopo Verità Supposte di Caparezza. Arrivati a questo punto il sentiero che dirige al cuore del mio gusto musicale si fa già più impervio, ostruito come naturale dall’instaurarsi di un dialogo intenso col mondo intorno a me, e dunque da tutta una serie di dinamiche esterne che colorano artificialmente le cause del mio apprezzamento. Ricordo, ad esempio, il senso di gratificazione che mi dava scegliere pezzi di Samuele Bersani al karaoke durante l’ora di musica, sapendo che questa scelta denotava carattere e che Bersani piaceva anche all’insegnante. Non era una leccata di culo: che lo apprezzava l’avevo scoperto scegliendolo di mia volontà, perché lo sentivo a casa ed era davvero tra i miei preferiti, e proprio questa autenticità creava la soddisfazione data dal ricevere conferma di non avere gli stessi gusti di tutti gli altri. Vedete come il percorso diventa tortuoso, costretto a seguire le brusche curve dell’ego di un ragazzino insicuro. Eppure anche in quella musica c’era qualcosa. Le sensazioni di benessere date dall’ascolto erano troppo potenti per non contenere un seme di apprezzamento puro, lo stesso che mi avrebbe spinto a cercare sempre nuove opere interessanti negli anni a seguire. Il fatto che io abbia ormai smesso di apprezzare quasi tutti gli artisti sopracitati non sorprenderà nessuno: i gusti di una persona sono in larga parte determinati dall’ambiente in cui vive e dalle cose con cui viene in contatto, e chiaramente evolvono con l’accumularsi di esperienze. Questo ragionamento – piuttosto ovvio – serve però come ottimo punto di partenza per introdurre una nuova variabile: la curiosità. In terza media, dopo anni passati a uscire esclusivamente col gruppetto del mio quartiere, grazie a un laboratorio di teatro conobbi ragazzi di altre classi, con cui feci subito amicizia. Allora, non ricordo come, ero venuto in contatto con un primo, piccolissimo assaggio di quello che i pischelletti di tutto il mondo chiamano vero rock, e ne ero rimasto naturalmente intrigato. Quando nominai la canzone che mi piaceva – ora non saprei precisamente dire quale fosse, forse un pezzo dei Guns ‘n Roses – ad uno dei miei nuovi amici, lui rispose qualcosa tipo “sì bellissima, allora ti piacciono un sacco pure gli ACDC, giusto?”. In realtà non li conoscevo affatto, e lui si dimostrò molto sorpreso. Nei giorni successivi cominciai quindi a sentire tutta la musica rock che mi capitava sotto tiro, e arrivai in prima liceo con la maggioranza dei classiconi rock sotto la cinta. Mi sentivo uno che sapeva il fatto suo. Tragicamente, un mio compagno di classe veniva da una casa di appassionati, ed ecco che Stairway to Heaven e Smoke on the Water non erano più sufficienti a stimolare la conversazione: lui citava i Genesis, i King Crimson, i Gong e così via, e ogni nuovo disco che andavo a scoprire mi folgorava.

Il sassolino al centro di questa gigantesca palla di neve che ancora continua a crescere più di un decennio dopo è senza dubbio la curiosità, il classico piacere della scoperta, ma lungo la discesa a valle (per continuare la metafora) è facile inglobare tutta una serie di detriti, e si rischia di perdere il contatto con questa semplice realtà. Cosa motiva la curiosità? È qualcosa che viene da dentro, un impulso viscerale dato dal desiderio di ritrovare le sensazioni provate durante l’ascolto, o la risposta a determinati stimoli esterni? Dopotutto, essere esperto di qualcosa è un’arma potente in quasi ogni ambiente sociale, e può ben presto finire per essere la forza principale che ti spinge a continuare il percorso; questo contamina inevitabilmente le tue scelte, guidandoti in maniera più o meno cosciente verso le opere che più tirano acqua al tuo mulino, che sono più facili da citare in una conversazione, che portano più status una volta conosciute. Ancor prima di arrivare all’ascoltatore ci sono dischi che sembrano essere fatti proprio per questo, con le loro copertine artsy, i titoli strani, le influenze giuste. Se il tuo desiderio di scoperta si esprime principalmente in funzione di un contesto sociale, qual è il valore di tutto ciò? È una parte giustificabile del processo di fruizione artistica? Molte persone, orgogliose perfino nella propria autoanalisi, direbbero di no: ciò che conta è il valore intrinseco dell’opera d’arte, e chi offusca questa verità costruendoci sopra narrative di qualsiasi tipo è per forza un falso o uno sciocco. Per tanto tempo l’ho pensato anche io, è una posizione chiara e confortante. Negli anni mi sono però visto costretto ad abbandonare anche questo appiglio, sospinto in mare aperto dall’incontrovertibile realtà dei fatti: ad esempio, ho realizzato che una canzone mi piace di più se, mentre la ascolto, riesco a immaginare di cantarla. Odio questo mio meccanismo interno così evidentemente egotistico, e quindi ho tentato di ignorarlo, di combatterlo, di remargli contro in qualsiasi modo – eppure esso continua a influenzare sistematicamente il mio apprezzamento. Soltanto dopo aver abbandonato il desiderio di essere un ascoltatore puro sono arrivato a comprendere che, ironicamente, la mia frustrazione nasceva dallo stesso luogo, e riflettendo sulle conseguenze di questo impulso ho cominciato a vederlo per quello che è: una forza positiva capace di aumentare il piacere che traggo dall’ascolto di un certo tipo di musica. Esserne consapevole mi permette di sondare meglio il mio gusto personale; pertanto, perché dovrei puntare a eliminare un’esperienza positiva solo perché indecorosa, o radicata in un bisogno di accettazione? Perché non accoglierla? Come molti artisti passano la loro carriera a cercare di catturare nuovamente la spontaneità di un bambino, così da ascoltatore sto progressivamente riconsiderando il rigore intellettuale che per tanto tempo ha plasmato il mio gusto. Ciò non significa abbandonare le nozioni che ho imparato, né snobbare la musica più ostica e convoluta; significa invece spostare il mio sguardo all’interno, concentrandomi sul piacere che provo quando ascolto la musica e cercando di sondarlo senza trascurare i miei bias e le mie debolezze caratteriali. Dopotutto, una melodia che considero trita e ritrita o un disco tematicamente pigro non mi piaceranno mai, non mi basta: mi trovo sempre a tendere visceralmente verso la stranezza, le emozioni forti, la complessità. Basta non cedere alla pigrizia.

Questi ragionamenti si applicano principalmente a un percorso di crescita personale, e hanno come fine quello di conoscersi meglio, di essere onesti con sé stessi. Quando invece si scrive di musica per una pubblicazione le problematiche che si aprono sono più insidiose; idealmente bisognerebbe avere un senso di responsabilità verso la pubblica piazza, evitando di falsare le verità scomode per portare avanti una crociata personale. Come abbiamo illustrato in precedenza, spesso non è questo il caso: la maggioranza delle zine non si fanno scrupoli a plasmare la realtà delle cose per incastrarla più agevolmente in una data linea narrativa, o, più semplicemente, per far contenta la loro fanbase e guadagnare soldi. Da lettore, bisogna imparare a riconoscere certi segnali e non farsi gabbare: cento volte meglio uno scritto maldestro ma sincero di un capolavoro formale che vuole spingere chi legge verso una conclusione carica di secondi fini. Parallelamente al percorso di sincera autoanalisi, per sviluppare in maniera sana il proprio gusto ritengo indispensabile saper dialogare con le opinioni altrui, divertendosi a dissentire e gustando il senso di comunità che scaturisce dall’avere le stesse idee. Ad esempio, nel mio percorso da ascoltatore Scaruffi è stata una grande influenza, e bisogna concedergli il grosso merito di aver creato un database interessante che ha contribuito alla riscoperta di molti artisti validissimi; allo stesso tempo, sono ormai anni che sento di aver superato il suo modo di vedere la musica, che trovo troppo rigido, spesso miope e tendenzioso. Conosco invece persone che provano solo forte antipatia per Scaruffi, e dall’altra parte fanatici che da oltre un decennio concepiscono l’ascolto musicale quasi esclusivamente in funzione del suo input; in entrambi i casi, tutto si riduce a tifo da stadio che tarpa violentemente lo spirito critico. A prescindere dal ruolo che la musica ha all’interno della vita di una persona, ritengo che dubitare delle proprie idee e porsi interrogativi sulle nostre inclinazioni e il nostro rapporto con l’espressione artistica altrui sia vitale. Dopo venti anni di esplorazione sonora molte cose mi sfuggono ancora, mi mancano ancora molte esperienze, e l’introspezione non diventa mai più facile o meno faticosa. Nonostante ciò, il piacere che provo nell’entrare dentro un’opera musicale, ammirando le mille nuove raffinate strategie di comunicazione, identificandomi con l’espressione di esseri umani presenti e passati, lontani e vicini, sentendola pulsare nelle mie orecchie, è qualcosa di cui probabilmente non mi stancherò mai. Piccoli aneddoti e ragionamenti, questi, che vogliono solo illustrare come l’arte possa al contempo stimolare un dialogo con il mondo esteriore e con quello interiore, portando in entrambi i casi a un arricchimento che è il senso stesso dell’esistenza.

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David Cappuccini
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