CONTAINER BELLO

LA CAPSULA DEL TEMPO DI JAMES HOLDEN

JAMES HOLDEN – IMAGINE THIS IS A HIGH DIMENSIONAL SPACE OF ALL POSSIBILITIES

Border Community

2023

Progressive Electronics

Imagine This Is a High Dimensional Space of All Possibilities è, nelle parole del presskit, “a dream of rave, a fantasy about a transformative music culture that would make the world better”. Il nuovo disco di James Holden, uno di quei pochi artisti che reputiamo non abbia ancora sbagliato un colpo in tutta la sua lunga carriera, è quindi una capsula del tempo in cui presente e futuro si mescolano in un gioioso pastiche interdimensionale dove i confini di un genere così vasto come quello della musica elettronica si confondono.

Visto che time is out of joint, però, facciamo un salto indietro: l’ultima volta che avevamo sentito parlare di James Holden eravamo nel radioso 2017, e The Animal Spirits era appena uscito. Salutato da chiunque avesse un paio di orecchie come un disco straordinario, The Animal Spirits era il frutto di una serie di collaborazioni con un gruppo di musicisti di estrazioni radicalmente differenti, dove si intrecciavano lo gnawa e il krautrock, lo spiritual jazz e la pista da ballo. Il risultato era una comunione spirituale raggiante, anche grazie alla volontà imperativa di Holden di registrare tutte le tracce del disco in singole take, a testimoniare la “comunicazione psichica” che si era venuta a creare nell’interplay tra musicisti così differenti tra di loro. I brani di Animal Spirits avevano scombussolato ancora una volta l’approccio rizomatico che Holden aveva dimostrato di saper adottare alla propria musica; se questa era l’evoluzione derivata dalla fine del progetto The Inheritors, forse uno dei dischi da dancefloor più spaccamascella dello scorso decennio, con Animal Spirits era veramente difficile intuire in quale direzione si sarebbe mosso ora il producer britannico.

Già, ma in che direzione? Gli anni successivi erano stati segnati da una collaborazione a un breve EP con il clarinettista polacco Waclaw Zimpel, la firma di metà di uno split con il suo collaboratore Luke Abbott… Ed effettivamente anche Imagine This Is… sembra puntare a una direzione contraria a quella della frenesia istintiva degli Animal Spirits, almeno a un primo ascolto. Il passaggio da una traccia all’altra ora è sapientemente cesellato, i suoni alieni del modulare di Holden pigolano e borbottano interagendo tra di loro con precisione maniacale. Ascoltate un brano come In the End You’ll Know e chiedetevi se il suo incedere non vi sembri calcolato al millesimo di secondo mentre i pad si accumulano, gli arpeggiatori si fondono tra di loro, la drum machine mantiene sempre il proprio centro sul rullante a 8-bit per permettere la libertà ritmica a tutte le altre parti… È difficile pensare che le jam umbratili e terrose di Thunder Moon Gathering e Go Gladly Into the Earth, con i loro sbalzi analogici, provengano dalla stessa testa.

Eppure, Imagine This Is… non è un passo indietro nella poetica di James Holden, anzi. L’impressione, mentre si ascoltano brani come Contain Multitudes o Worlds Collide Mountains Form, è quella di una meravigliosa summa di esperienze, una trascendenza che è capace di ingabbiare gli attimi più creativi delle collaborazioni con la band dell’album precedente e rimontarli in componibili più complessi e multiformi. Holden ha ammesso che molte delle idee che sono poi confluite nel disco sono essenzialmente rielaborazioni di frammenti vecchi di anni, a volte di decenni; una fermentazione lentissima di momenti che includono anche modi di fare musica che il producer aveva rinnegato nel corso del tempo, partendo dal violino e dal pianoforte abbandonati ancora in età scolare, e che in Imagine This Is… sono sempre messi al centro della scena, e arrivando fino al kick dritto delle drum machine della techno, che era arrivato a detestare. Contain Multitudes, il brano più lungo dell’album, si apre con un beat che può ricordare tanto il debut The Idiots Are Winning quanto gli Orbital del Brown Album; com’è possibile, allora, che servano soltanto un paio di minuti per far precipitare questa musica da club in una ruminazione psichedelica per tabla, pianoforte, violino e sintetizzatori? Quale mente è capace di immaginare delle coordinate così improbabili, e che nonostante tutto si rivelano sempre essere esatte?

Se volete concedermi un ultimo salto nel tempo, vorrei riportarvi al 2018: sto staccando le cuffie dal PC, dopo aver appena terminato l’ascolto di Singularity di Jon Hopkins. Come Imagine This Is…, anche Singularity è un tentativo di aggirare l’hype da parte di un autore messo alle corde dalla grandezza della propria musica. Hopkins, proprio come Holden, aveva deciso di guardarsi alle spalle per ritrovare delle idee che forse, altrimenti, sarebbero per sempre rimaste irrisolte. In Singularity questa recherche è rappresentata, anche abbastanza maldestramente, dalla traccia conclusiva Recovery, dove il musicista si siede al vecchio pianoforte mezzo scordato della casa dei suoi genitori e suona un paio di note alla fine di un viaggio cosmico tra beat spezzettati e synth luccicanti: una palla mortale che non serve a nessuno. Ogni volta che metto su Imagine This Is a High Dimensional Space of All Possibilities finisco per ripensarci, e a riflettere su come Holden sia riuscito, facendo essenzialmente la stessa cosa, a incastrare i suoi ricordi in musica e a fare pace con essi: e mi domando come quei piccoli frammenti di violino, pianoforte, flauto dolce, registrazioni di piccioni e svolazzi di tastiere siano stati trasformati magicamente in uno dei dischi più belli e intriganti di quest’anno.

Condividi questo articolo:
Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala