CONTAINER BELLO

I LANKUM HANNO REVITALIZZATO LA MUSICA IRLANDESE

LANKUM – FALSE LANKUM

Rough Trade

2023

Avant-Folk

Se seguite queste pagine da un po’ di tempo, avrete imparato a capire che tutta la redazione cela un profondo affetto per la musica tradizionale, vuoi per lo spirito da etnomusicologi in erba, la risonanza emozionale e sociale o semplicemente perché spesso chi fa dischi folk deve avere qualcosa di davvero interessante da dire. Le varie diramazioni della canzone popolare europea sono il mio punto debole: datemi i cori sardi, la balalaika di un gruppo di scandinavi ubriaconi, Psarantonis che invoca Zeus con la lira o il coro femminile di stato della radio e televisione bulgara che canta di quanto è bello dormire sotto un albero e mi farete un uomo felice. Ma, se volete vedere un sorriso sul mio volto, basta che mettiate su un disco qualunque di musica irlandese: da più di un decennio sono un devoto ascoltatore dei Dubliners, che religiosamente metto su almeno una volta all’anno nel giorno di San Patrizio per non dimenticarmi di quella che è l’unica popolazione europea anglofona degna di non sprofondare nell’oceano.

Ecco, forse sarà anche un po’ per questo motivo, ma io appena ho ascoltato i Lankum per la prima volta ho subito provato una contagiosa simpatia. D’altronde, oltre a essere irlandesi, ci sono diversi motivi per essere attratti dai Lankum: curiosando nella loro discografia, scorrendo la tracklist del loro album di debutto – quando ancora si facevano chiamare Lynched – si nota una traccia laconicamente intitolata Carlo Giuliani; o,scartabellando tra le pagine dei progetti della carriera dei suoi membri, si scopre che Ian Lynch, uno dei fondatori, è un dichiarato fan del black metal esoterico e si è pure cimentato in un album solista di droni inquietanti. Il quartetto dublinese ha comunque alle spalle più di vent’anni di attività ininterrotta, molti dei quali passati da busker sopravvivendo solamente grazie ai fondi statali; nel 2017 qualche occhio al di fuori dell’isola verde si posa su di loro, tra cui quelli dell’etichetta inglese Rough Trade. L’accordo con la label coincide con l’arrivo in cabina di regia di John “Spud” Murphy, che nei tre successivi dischi espande il sound del gruppo grazie a interventi mirati di un’elettronica oscura e perturbante e da una produzione dai toni apocalittici. Dopo il successo del loro disco The Livelong Day nel 2019, culminato addirittura nella vittoria dell’RTÉ Choice Music Prize (uno dei più importanti premi musicali irlandesi), la band ha fatto uscire lo scorso marzo False Lankum, che è stato salutato con entusiasmo da qualsiasi testata giornalistica l’abbia coperto.

Ma come definire la musica al suo interno? Se state pensando che i Lankum siano epigoni di quella grande tradizione di drinking songs generata da John Reilly e Luke Kelly, non avreste torto: False Lankum è un album che trasuda Irlanda da tutti i pori, a partire dal fatto che la prima scintilla di ispirazione alla base del disco è scoccata in cima alla Martello Tower che appare anche nell’incipit dello Ulysses joyceiano. È impossibile non battere il piede quando si sente la giga assatanata di Master Crowley’s e contemporaneamente non ripensare a virtuosismi strumentali della tradizione celtica come Swallow’s Tail Reel, o ascoltare rapiti le sordide disavventure di una murder ballad dalle pieghe soprannaturali come quella del protagonista di The New York Trader, e non rintracciare le sue origini in un repertorio che pesca da The Rocky Road to Dublin come dalle shanties, risalendo una genealogia popolare che si perde nelle nebbie di un tempo antico e difficilmente classificabile.

Come forse avrete intuito, però, non starei qui a parlarvi di False Lankum se si trattasse soltanto di un bel disco folk tradizionalista; in un gioco di rimandi che coinvolge la dualità della copertina, divisa tra un’incisione di Gustav Doré e una foto dei musicisti, lo scheletro plurisecolare su cui si appoggiano i Lankum è solo la base da cui il suono della band si espande per abbracciare tentacolarmente affascinanti devianze dalla forma tradizionale, piegandola con sottili variazioni che decostruiscono le basi del filone a cui fanno riferimento. Prendete ad esempio la già citata The New York Trader: se i primi tre minuti sono a tutti gli effetti una riproposizione del repertorio classico irlandese, notate il dettaglio di come il verso “and pray the Lord may grant you rest” venga sardonicamente accentuato da un organo da chiesa che si spegne nel silenzio… solo per far ripartire la narrazione dell’inevitabile destino del capitano della nave con un passo feroce incalzato dalle percussioni elettroacustiche, sottolineato dallo spigoloso bordone di harmonium di Radie Peat e dal violino mefistofelico di Cormac MacDiarmada, come pure da quell’ “AAH!” corale ripetuto tre volte come una campana a morto e che avvolge tra i flutti dell’oceano il corpo del delitto di una ciurma che è giudice, giuria e boia. Il gioco dei Lankum continua a sfilacciare le maglie saldamente intrecciate del folklore musicale nazionale e si permette addirittura di inserire, in coda al brano, una riproposizione di un motivo popolare americano, Big Black Cat, a significare l’approdo verso una nuova vita, lontana da quella passata nel vecchio continente.

Il lavoro dei Lankum è seriamente filologico quanto iconoclasta: per dire, l’andamento funereo della Go Dig My Grave posta in apertura al disco ripesca un genere di ballate in voga nel 1600, ma lo mischia con una granitica drone music che non sfigurerebbe su Ideologic Organ. Lo stesso discorso vale per la traccia di chiusura The Turn, che coi suoi imponenti dodici minuti di durata si sfalda bruciando lentamente il refrain e sommergendolo sotto le uilleann pipes, le concertine e gli stomp amplificati che suonano come martellate stampate da una mano di fabbro di duecento chili su una bara di rovere. Un modo ottimale per accompagnare sul piano musicale il testo, che riflette malinconicamente sulla caducità dell’esistenza in maniera squisitamente irlandese fino a disintegrarsi sotto il peso di qualcosa di più grande e inarrestabile.

Nonostante vi abbia descritto un quadro tetro, False Lankum non è assolutamente un disco votato esclusivamente alla gravitas: ne è un fulgido esempio il terzo singolo Newcastle, una delicata ballata di amori lontani dove la voce nasale di Peat si staglia in primo piano, sostenuta dai vocalizzi sommessi dei suoi sodali e dall’arpeggio della chitarra acustica. Ugualmente ispirate sono Lord Abore and Mary Flynn e Clear Away in the Morning, che si muovono sugli stessi binari di Newcastle e che agiscono efficacemente come contraltare emotivo ai numeri più cupi descritti poco sopra. Forse il felice risultato di False Lankum è da attribuirsi a questa dualità costantemente messa in bilico tra le atmosfere danzerecce del canone canoro irlandese e la cupezza dei temi, tra la tradizione degli strumenti acustici e le interiezioni delle percussioni metalliche e dell’elettronica, tra l’archeologia del repertorio da pub dublinese e l’innesto di improvvisazioni fluttuanti come le tre Fugue.

False Lankum è, insomma, un disco fuori dal tempo e ciononostante attualissimo in alcune soluzioni e idee: è un album che parla di un passato lontano ma che guarda al futuro prossimo. È anche il picco creativo di un gruppo che fin dal 2000 non è mai sceso a compromessi con la propria idea di musica, trovando la summa della propria poetica precisamente nella riconciliazione con la tradizione che avevano provveduto a scarnificare per decenni. Io, personalmente, non potrei essere più soddisfatto.

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala