PUFULETI – PERLE AI PORCI
Un disco di Pufuleti suona sempre come un sogno febbrile. Il rapper siciliano è ormai una sensazione underground da quando Tumbulata smosse le acque stagnanti dell’hip hop italiano presentando un lirismo stralunato in perenne flirt col nonsense, dei beat lo-fi intrisi di una nostalgia alquanto apatica e un timbro vocale squillante da personaggio dei cartoni animati; questo approccio particolare continua oggi nel suo quarto disco Perle ai porci, ancora una volta in collaborazione con Zutera e il beatmaker Wun Two. Gli elementi stilistici sopracitati, coniugati come li coniuga Pufuleti, funzionano a meraviglia: innanzitutto gli permettono di giocare quanto vuole col valore delle cose che dice, frammentando ragionamenti, dichiarazioni, opinioni e sentimenti lasciando che sia l’ascoltatore a decidere cosa vuole leggerci dentro. Possono essere la lingua stentata di un siciliano emigrato in Germania a 4 anni, un ironico collage dadaista, una libera associazione di parole che suonano bene insieme o il suo escamotage per comunicare messaggi; queste chiavi di lettura si compenetrano, donando profondità e replay value a un atteggiamento altrimenti a rischio di suonare troppo come una gimmick.
Il progetto musicale di Pufuleti è in realtà un gioco di dissimulazione: una volta entrati dentro il suo modo di concepire il genere, al susseguirsi delle tracce si cominciano a percepire elementi musicali più radicati nell’hip hop classico di quanto possa sembrare inizialmente, mascherati come sono da versi così allucinati e a tratti esilaranti (il ‘non ti leggo come la Bibbia / spezzami il cuore baby e ti giuro che ti spezzo la tibia‘ che arriva dal niente in Montagnana farebbe sghignazzare chiunque). A conti fatti, la formula di Perle ai porci è molto semplice: classici beat boom bap su cui vengono stratificati campionamenti granulosi e sintetizzatori in punta di piedi, a formare una musica notturna e letargica. Pufuleti si alterna a rapper più convenzionali, armati di quello stile un po’ conscious che sta tornando alla ribalta negli ultimi anni, fatto di timbri vocali caldi e metriche pulite; spaccato tra questi due approcci all’apparenza diametralmente opposti, il disco si fa dunque interessante testimonianza di come uno stesso tipo di beatmaking possa assumere differenti valori e sfumature quando supporta MCs con caratteristiche differenti. Anche il rapping di Pufuleti, però, risulta innegabilmente ancorato a tratti caratteristici dell’hip hop anni ’90; sebbene non sia facile risalire a una specifica influenza, la ricerca di assonanze, i call out all’inizio dei pezzi, l’utilizzo degli overdub, il modo in cui sono gestite le allitterazioni tradiscono senza dubbio dei profondi legami coi classici del genere. Siamo quindi davanti non a un tentativo di fuga dagli stilemi hip hop, bensì a una rilettura degli stessi che non comprende nessuna rottura di schemi, e che anzi si trova perfettamente a proprio agio confinata dentro certi limiti strutturali ed estetici. Capire ciò rende possibile avvicinarsi all’ascolto dei dischi di Pufuleti in maniera molto più semplice e rilassata, tagliando il nodo gordiano invece di farsi troppe domande su chissà quali significati reconditi: paradossalmente, un tipo di ascolto molto vicino all’hip-hop, the hippie, the hippie to the hip, hip-hop and you don’t stop the rockin‘ della golden age.
Purtroppo, con tale realizzazione entrano in gioco anche tutta una serie di limiti che affliggono il genere da decenni. Un disco può essere piacevole da sentire, comunicare un determinato mood e avere certi elementi creativi e personali; il dramma del fare musica nasce però dalla continua necessità di rinnovarsi, dall’onnipresente pericolo di creare lavori senza una vera raison d’être alla base. Sebbene sia perfettamente legittimo e in un certo senso anche encomiabile dire “io mi sono divertito a comporre questo disco, faccio le mie cose come le voglio fare e chi le vuole ascoltare le ascolterà”, personalmente sentendo Perle ai porci ho anche provato il sapore amaro di un’occasione mancata. Le componenti per un lavoro davvero notevole ci sono, ne ho parlato fino ad ora, ma c’erano anche in tutti gli altri album precedenti, tali e quali. Cambia un poco il mood, più rilassato e malinconico; cambiano un poco i riferimenti usati nei testi, che sembrano comunicare una tendenza vagamente più introspettiva e intelligibile, ma non viene introdotto niente che sia davvero unico a questo progetto. Il processo di creazione di un album hip hop non può continuare per sempre ad essere una mera cernita delle cose che suonano meglio: ci vuole una programmaticità di fondo, qualcosa che identifichi inequivocabilmente il singolo album e non lo renda solo la nuova collezione di pezzi di artista X. Col suo gusto, la sua abilità e le sue collaborazioni, Pufuleti potrebbe probabilmente continuare a creare dischi di questo livello all’infinito, ma perché non avere un po’ più di ambizione?