BURIAL, UNA STORIA D’AMORE (SECONDA PARTE)

[qui la prima parte]

That record, that record, this mix… 
You know, it all clicks together. 

Quando a fine 2011 esce Four Walls / Paradise Circus, ci sono diverse ragioni per provare stupore. Si tratta di lunghe tracce in cui Burial remixa due pezzi dei Massive Attack con Hope Sandoval alla voce, uno (Four Walls) precedentemente non pubblicato, l’altro (Paradise Circus) incluso nella scaletta di Heligoland, ultimo album in studio del duo. In questo momento storico i Massive Attack sembrano sostanzialmente in disarmo, ma sono stati un’istituzione della musica elettronica inglese negli anni ’90 e il loro nome rimane uno dei più importanti per la definizione del suono trip-hop; affidare la reinterpretazione di propri brani a Burial per una pubblicazione apposita, se non è un’investitura, ci assomiglia molto. Finora erano già filtrati nell’internet alcuni remix ad opera di Burial, niente di ufficiale e per la maggior parte niente di trascendentale: come scritto in precedenza, si tratta perlopiù di gradevoli tentativi di giustapporre la struttura del pezzo originale al suono caratteristico del primo Burial. Ora invece Bevan si cala completamente nel ruolo di artigiano del suono che può modellare anche materiale fornito da altri, si dedica lungamente al progetto (dei remix si parla già più di un anno prima dell’effettiva uscita) e si cimenta nella realizzazione di composizioni dilatate come mai prima, per durata e atmosfera.

Il pretesto dei remix diventa così un’occasione per sperimentare nuove forme espressive e continuare un percorso estremamente personale. L’azione trasformativa sul materiale di partenza, infatti, è sconvolgente: non possiamo averne la riprova con Four Walls, ma basta ascoltare la versione originale di Paradise Circus per capire che i due brani hanno poco a che spartire. Il singolo dei Massive Attack è l’esempio di un’elettronica meccanica basata su breakbeat ripetuti con una certa stanchezza, dentro la cornice di un’emotività ingessata che per acquisire qualche sfumatura necessita delle carezze vocali di Sandoval come una pioggia nel deserto. Ciò che esce dalle mani di Burial, invece, è una costruzione aperta che viene attraversata da numerosi stimoli musicali, un dolce naufragio tra le molte anime del mondo sonoro di Bevan senza un timone che non sia proprio la voce di Sandoval. Anzi, sembra quasi che Burial abbia voluto mettere la mani su queste registrazioni principalmente per poter trasportare nel proprio mondo le nenie dell’ex cantante dei Mazzy Star, scartando tutto il resto per ricostruirlo da zero.

I sintetizzatori si fanno oceanici, avvolti in ondate di riverbero, mentre i ritmi rallentano tantissimo e si rimpiccioliscono fino a suonare come il suono della pioggia su una lattina vuota. In Four Walls ogni componente sembra dimessa, non c’è un tema portante ad accentrare l’attenzione per i dodici minuti di musica; anche la voce sembra giungere da una zona periferica della percezione. 

I veri protagonisti arrivano ad essere gli interventi continui di frequenze disturbate, sample fantasmagorici e magnetismi sonori che avvolgono lo sviluppo principale del brano, proiettandolo attraverso una foschia in cui si mescolano suggerimenti di altre musiche possibili: altre tracce che sarebbero potute diventare strada maestra e invece si manifestano giusto il tempo di lasciarsi intuire, per poi dissolversi nuovamente, lasciando comunque segno di sé. Tutto questo è marchiato a fuoco dallo stile di Burial, riconoscibile a primissimo impatto, eppure è impossibile non sentire un diverso respiro che emana da queste paludi benedette. Ogni volta che mi ritrovo ad ascoltare Four Walls penso a quanto sia brillante questa non-costruzione del pezzo, la riduzione ai minimi termini della struttura “vera” del brano per farlo scivolare in qualcosa di molto vicino ad atmosfera pura. Quanta abilità ci vuole, mi dico, per far sembrare puro miracolo combinatorio un apparato di idee così ben studiate, alcune delle quali rimuginate da anni? Poi parte Paradise Circus, la linea melodica offerta subito alle porte del brano come una droga, e il pensiero si spezza. Dilaniate le mie elucubrazioni dal canto di sirena di Sandoval, modificato sottilmente in tempo e pitch per trasportarlo in tutt’altra dimensione e trasformare la seduzione lasciva dell’originale in un balsamo fonemico dalla consistenza del miele. Paradise Circus ribalta la prospettiva ed erige un altare attorno a una chiara idea di forma-canzone, che incanala la componente emozionale e la magnifica: uscendo dal mondo dell’elettronica, si potrebbe dire che si incontrano qui lasciti di slowcore, shoegaze e dream pop. La grandiosità da pelle d’oca affonda e si sfalda nel terreno friabile di filtri ed effetti sonori, con il risultato che sembra di recepire tutto come in sogno; il fatto che nella parte finale Burial inserisca quello che sembra un collage di altre composizioni indipendenti, realizzate con lo stesso tono angelico e agganciate con naturalezza al mix, rafforza la sensazione onirica. Anche dopo anni, attraversare queste due tracce significa per me vivere diverse volte il disorientamento dell’aspettativa: ogni volta che credo di aver capito cosa mi riserverà l’ascolto, vengo felicemente smentito. Ascoltarle per la prima volta scioglie un nodo profondo, dissipa l’istinto che suggerisce una rigida cautela contro la sofferenza e che si sublima invece nel brivido di abbandonarsi alla gioia della sorpresa. A questo punto l’idea di scoprire dove mi porterà Burial mi fa camminare a un metro da terra. 

Qualche mese prima del confronto (chiamiamolo così) con il materiale dei Massive Attack aveva visto la luce il singolo Ego/Mirror, una nuova collaborazione tra Burial e Four Tet a cui partecipa anche Thom Yorke; combinazione perfetta per fomentare l’interesse di pubblico e critica, e proprio per questo l’avevo snobbata ritenendola lontana dal percorso artistico personale di Bevan, quindi anche dal mio interesse. O forse temevo semplicemente di rimanerne deluso, le due cose non si escludono a vicenda. Lo recupero ben protetto dalla bella sorpresa di Four Walls / Paradise Circus, ma non ce ne sarebbe stato bisogno: l’ascolto infatti mi regala due bei pezzi, che anche se non sono certo fondamentali nella discografia di nessuno dei tre, rappresentano dei begli esempi di elettronica misurata e moderna. Soprattutto, Burial non interpreta affatto il ruolo di vaso di coccio tra i due di ferro; anzi, è la sua mano quella che più condiziona la resa finale. Lo si sente ovviamente nei breakbeat felpati che guidano Mirror, radicati ormai nelle sinapsi come i tratti familiari di un viso amico, ma anche nelle inclinazioni pensose della microhouse di Ego che sembrano richiamare direttamente Street Halo. Le apparizioni vocali, i sample offuscati, i corredi di suoni argentei sono tutti elementi che Burial maneggia con dimestichezza e che qui si incastrano alla perfezione con il basso sgusciante e la linea di piano dal sentore di pioggia. L’influenza che esercita in questi due pezzi parla di un artista in piena consapevolezza dei propri mezzi, che sta ampliando la propria capacità di utilizzare diversi registri senza perdere la scintilla di unicità che l’ha contraddistinto fin dagli inizi.  

Come ho già scritto, al fascino della figura di Burial hanno sempre contribuito anche aspetti extra musicali. Il carattere schivo che rifugge da ogni rivolo della celebrità e la dedizione appassionata alla musica me lo hanno raccontato come una persona “vera”, per cui comporre tunes è molto più che una carriera o un progetto: è un gesto d’amore. Ho avuto tante volte l’impressione di poter cogliere l’essenza di questa sensibilità ascoltando i suoi pezzi, ma anche leggendo le sue parole. Bevan infatti ha rilasciato poche interviste, tutte tra il 2005 e il 2007, poi più nessuna. Nel modo in cui parla con umiltà sognante di sé e della musica si avverte un legame profondo, e anche attraverso il filtro del testo si ha la sensazione di intromettersi in qualcosa di intimo.  

Quella che mi ha più lasciata impressa questa sensazione è l’intervista con Mark Fisher, accolta originariamente tra le pagine di The Wire nel dicembre 2007 e pubblicata in versione integrale cinque anni più tardi. Contribuiscono al legame emotivo diversi elementi: arriva subito dopo la pubblicazione di Untrue, è l’ultima intervista concessa da Burial finora ed è difficile -se non impossibile- leggerla oggi senza che il pensiero vada all’assenza di Fisher, morto suicida quasi 10 anni dopo averla realizzata. Il testo però è toccante di per sé. Nelle parole di Burial non si ritrova tanto il personaggio dell’artista, quanto di una persona soggiogata dalla magia totalizzante della musica. È come un substrato sempre presente che riempie di significato ogni sua narrazione, dove acquisisce anche l’importante ruolo di legare memoria e affetti: tra i ricordi più vividi ci sono i dischi jungle, techno e drum ‘n’ bass fatti ascoltare per la prima volta dal fratello più grande come se fossero l’accesso ad un mondo segreto, insieme all’immagine mitizzata di lui che nella notte va ai rave fuori città mentre William rimane ad immaginarli come luoghi fantastici; il racconto di come Archangel, probabilmente il singolo pezzo più celebre di Burial, sia stato realizzato per condividerlo con la madre dopo la morte del proprio cane, cercando di comporre un brano che le piacesse; l’ascoltare musica che nel tempo, quindi, diventa un’esperienza formativa non meno dei rapporti che intratteniamo con le persone più care. “If you’re well into tunes, your life starts to weave around them.”, dice Bevan. Una passione che, nel senso più stretto del termine, amplifica le sensazioni in maniera dolceamara. Da un lato si intensifica il senso di scollamento verso una realtà che procede veloce e sembra non avere spazio per modalità così immersive e solo marginalmente consumistiche di fruizione sentimentale: dalla nostalgia generazionale verso un’epoca in cui la dance music era il collante di un’intera comunità (Those ravers were at the edge at their lives, they weren’t running ahead or falling behind, they were just right there and the tunes meant everything) ad una molto più personale in cui si affievolisce il legame con altre persone generato da questo interesse condiviso, quasi fosse percepito come una fase da superare (When you’re younger that stuff blows your mind. But then they, they didn’t lose interest in it, but they got on with life and I was stuck for years.). Allo stesso tempo c’è l’orgoglio di non disperdere queste memorie, di farsi testimoni attivi di questo vissuto attraverso il proprio modo di vivere la musica; ancor di più, la consapevolezza di poter trovare in un disco o in un paio di cuffie una forma di conforto inalienabile di fronte alla sofferenza (It’s easy to fall away and fuck up and for many people there’s no safety net. Sometimes one tune can mean everything, it’s like a talisman.).

Sono pensieri che risuonano profondamente in me e in chiunque dedichi desiderosamente larga parte del proprio tempo a questa esperienza, probabilmente anche per te che stai leggendo: sappiamo che accogliere profondamente la musica nel tessuto della propria vita opera un cambiamento sostanziale nella propria interiorità e nelle interazioni con il mondo, e Burial è uno spirito affine che ne parla candidamente. Quando poi viene interrogato sulle tecniche compositive, le risposte sono investite di una modestia che sembra sincera e che è coerente con la dimensione “artigianale” dei suoi album. Fisher menziona il fatto che nella musica fin lì pubblicata da Burial non vengono usati sequenziatori, in controtendenza con le abituali metodiche contemporanee, e Bevan individua la ricerca di una specifica qualità sonora in questa scelta, ammettendo però: “Also because I don’t know how to use them!”; interrogato sulla diffusa presenza di suoni della pioggia e crepitii di vinile nei suoi pezzi, risponde: “But I partly use the rain to cover up the lameness of my tunes.”. Parla di tecniche di produzione con il linguaggio metaforico di un bambino che fantastica, facendo connessioni con elementi naturali: determinati ritmi e percussioni vengono accostati ad esoscheletri e lische di pesce. Tutto l’immaginario notturno e urbano associato alla sua musica, avvolto nella nebbia e con i soundsystem ridotti a eco in lontananza, non è una fantasia di recensori musicali alla ricerca di una vena poetica ma viene delineato da Burial stesso parlando della propria musica. Gli sconfinamenti tra materia artistica ed emozionale sono continui e, verrebbe da dire, naturali: come altrimenti interpretare un’intervista che per un terzo dello spazio parla di angeli, fantasmi, solitudine, memoria e resilienza senza mai dare la sensazione di andare davvero fuori tema? Nella versione integrale del 2012 ricevo estesamente per la prima volta i pensieri di Burial; rimane una delle letture più illuminanti nel solitamente trito mondo delle interviste musicali, e riesce ad essere emozionante anche se non si è ascoltata una nota della sua musica. Per me che ne sono incantato, è come ricevere in regalo un diario dalle pagine colme di confidenze. 


Sempre nel 2012 arriva Kindred. È un meraviglioso EP di poco più di mezz’ora, tempo sufficiente per scompaginare alcune idee sulla musica di Burial che si stavano sedimentando nella coscienza. A questo punto è lecito pensare che sia in corso un progressivo allontanamento del suo suono dalla matrice dubstep, viste le suggestioni house e downtempo disseminate nelle ultime pubblicazioni, con beat più decentrati e morbidi inseriti in atmosfere stratificate. Il primo ritmo che emerge in Kindred è invece un pattern sincopato in cinque quarti, secco e metallico come le prime produzioni su Hyperdub, che risuona con forza nelle profondità dei bassi ribollenti: una manifestazione senza compromessi del suo stile, così inaspettata in questa potenza da prendere alla gola. Anche le parti vocali divergono dalle versioni più dilatate di recente memoria per tornare a manifestarsi in lampi di abbacinante intensità comunicativa. Il momento portante (e ricorrente) della title-track è un gemito angelicato, la vocalizzazione senza parole di un desiderio puro che si mescola alle frequenze sfrigolanti dei bassi per generare una grande energia propulsiva; sublimata subito nella successiva invocazione “Maybe you can find the light…maybe you can find the light”, dove il familiare uso del pitch-shifting modula la voce e convoglia il sentimento. Si tratta probabilmente del momento con la maggior carica anthemica di tutta la discografia di Burial, forse anche più di Archangel per come concentra in pochi secondi un’intera tavolozza di impressioni.  

Il gioco di contrasti tra il picchiare insistito delle ritmiche scure e la luminosità delle voci ritrova quindi una nuova vitalità. Questi elementi, che portano più di un punto di contatto con Untrue, sono tuttavia lontani da una qualsiasi idea nostalgica di ritorno al passato; anche le varie citazioni che ritroviamo seminate e trasfigurate nell’attuale tessuto sonoro dei brani (i richiami a Homeless sul finale di Kindred, a Endorphin e Untrue attraverso Ashtray Wasp) non suonano affatto come un’autocelebrazione e diventano invece simbolo di continuità nel cambiamento, come una lettera che diventa parte della terra in cui è stata sepolta. Nel frattempo infatti è stato tracciato un percorso esplorativo verso altre possibilità sonore – altre tecniche per un’elettronica che potremmo chiamare post-euforica – che l’EP prosegue convintamente, mostrando però un’evoluzione non lineare rispetto a quelle che potevano essere le attese. Loner è l’esempio di un pezzo che non sembrava poter appartenere all’arsenale di Burial, con un beat scopertamente house dalle sfumature garage e una gigantesca melodia di quattro note ripetute in loop che richiama direttamente gli hook monumentali della trance. Eppure la rotondità delicata delle percussioni, la resa algida del tema melodico attraverso un mantello di riverbero, la ricchezza di dettagli che avvolgono la struttura principale, fino al gospel conclusivo, lo fanno suonare precisamente come un moderno pezzo di Burial: il progetto di una hit spaccaclub distanziato a tal punto rispetto a una resa sonora “da manuale” da finire in dissolvenza, un vessillo filtrato dalla memoria che lascia a una cornice di suggestioni musicali il ruolo di protagonista. 

La sua musica è sempre stata avvolta in una foschia densa di manifestazioni elettroniche, fondamentali per definire il filtro mnemonico ed emotivo attraverso cui Burial restituisce in maniera personale l’epoca d’oro dei ritmi spezzati in UK; ma mai come ora la casa degli spiriti che accoglie i suoi brani si è popolata di evocazioni corporee, suggestioni dal livello di dettaglio troppo profondo per rimanere confinate alla dimensione dell’effettistica. Ogni brano sembra poter generare propaggini inedite che suggeriscono scenari di evoluzioni possibili, e anche quando queste non si compiono rimane comunque una loro eredità di stimoli percettivi che aleggiano senza dissolversi. Questa ricchezza contribuisce alla definitiva smentita dello stereotipo di Burial come producer tutto atmosfera e zero composizione: ognuno dei pezzi ha una struttura progressiva che sa procedere sia per sviluppi che per contrasti, per cui risultano necessari i lunghi minutaggi e dove l’eventuale ripetitività di certi ritmi suona sempre come una scelta significativa e necessaria, mai come un limite. Non c’è esempio migliore di Ashtray Wasp, che suona con naturalezza come (almeno) quattro bei brani in uno. Si passa da beat particolarissimi dall’incedere quasi marziale a quadretti intimisti di pianoforte e xilofono, attraverso un saliscendi che ha portato la Hyperdub a specificare: “The skips and cut outs on the track ‘Ashtray Wasp’ are intentional.”, casomai qualcuno facesse reclami confondendo il taglia-e-cuci di Burial con un vinile stampato male. Per rendere in parole come suona il risultato finale, rimando al tenero tentativo di Discogs di incasellare nelle proprie categorie l’intero EP: 

Il misterioso bardo della nostalgia generazionale è ora in piena luce, con una grande consapevolezza dei propri mezzi e un’ispirazione che sembra non poter smettere di sgorgare da chissà quale falda immaginifica. Ad ogni nuova pubblicazione di Burial mi sento a casa e allo stesso tempo mi preparo a un nuovo viaggio: è il tipo di incontro miracoloso tra affidabilità e sorpresa che nei rapporti spinge a pensare il futuro come qualcosa di inestricabilmente condiviso. Incontro tanto prezioso che, quando lo si percepisce, ci si sente come sulla sommità di una montagna di gioia; abbracciando con un colpo d’occhio la bellezza e la vastità dell’orizzonte dinanzi a sé, senza davvero poter contemplare l’eventualità della discesa.

Perdere l’amore

‘Cause at once upon a time it was you who I adored…   
You look different 

Finora Burial non ha mai smesso di far evolvere il proprio suono in nuove direzioni, mantenendo sempre vivo quel nucleo emotivo che lo rende inconfondibile. Questa capacità risuona con forza attraverso Kindred, uscito in un luminoso marzo ad annunciare la primavera e i molti futuri possibili per il percorso del tune-maker londinese: c’è una dolcezza delicata nell’immaginare quali petali di musica si stanno preparando dietro ai solidi boccioli di quei tre brani. Sempre nel 2012, pochi giorni prima di Natale, il successivo EP di Burial vede la luce e diventa oggetto di miei numerosi ascolti nella nebbiolina dei giorni sospesi di fine anno. Il richiamo alle stagioni non è casuale, perché come il paesaggio invernale anche la musica contenuta in Truant / Rough Sleeper sembra aver perso rigoglio. Si tratta evidentemente di una prosecuzione del discorso delineato con Kindred: pezzi dal minutaggio ampio, aperti ad uno sviluppo erratico con transizioni anche brusche tra diverse anime musicali, in cui coesistono più stili ritmici (da rotondità simil-trip-hop a metallici loop darkstep) e viene coltivato un gusto melodico che cerca la forma aurea di una grandiosità dolceamara. Nel frattempo però il tessuto sonoro si è asciugato di tutte quelle sfumature che fornivano una profondità inafferrabile alle precedenti incarnazioni di Burial. I brani sono nitidi ma meno stratificati, perché lo sviluppo principale è anche l’unico; non c’è più la sensazione che avvengano in un brodo primordiale di possibilità evocative, non sono circondati dalla costante nebulosa generativa di effetti/manipolazioni/presagi che prima sembravano sempre sul punto di farsi corporei all’ascolto.  

La maggior frammentarietà del materiale suona come una compensazione, il tentativo di mantenere la ricchezza degli stimoli con meno risorse. I momenti di bellezza in queste due tracce non mancano e sono in un certo senso autoevidenti (la chiusura di Truant, gli sviluppi melodici della prima metà di Rough Sleeper), ma rimangono appunto questo: momenti, felici intuizioni che non riescono a connettersi tra loro per gettare il cuore oltre l’ostacolo. Va notato come, tra le pubblicazioni di Burial finora, questa sia la più povera nel mostrare quel talento unico nel processare campionamenti vocali per poi disseminarli in maniera personalissima nel mix. Ne è simbolo il sample banalotto che appare all’inizio di Truant e che, unito al beat letargico e alla consumata linea di sintetizzatore, trasmette una certa pigrizia se confrontato con ciò a cui Bevan ci aveva abituato, anche senza bisogno di scomodare Untrue. La manipolazione della voce della cantautrice folk-rock Audra Mae nella sezione centrale di Rough Sleeper è invece un notevole numero di prestigio, per come viene trasformata in un sinuoso numero di soul spaziale; ma il modo in cui viene tirata per le lunghe, diluendone l’impatto, sembra suggerire una sinistra mancanza di alternative. In generale, le novità che davano forza all’impianto di Kindred vengono qui riproposte ed esasperate: la cucitura di sample già utilizzati in passato e ri-modificati ad hoc, l’assemblaggio di diversi nuclei musicali in un flusso accidentato, le melodie dilatate con suoni sintetici di organo da far contrastare con ritmi secchi, sono tutte tecniche esplorate in precedenza che non trovano qui nuovi sbocchi e perciò iniziano a trasmettere una sensazione stantia di “già sentito”, ben diversa rispetto alla piacevole familiarità che sa emanare lo stile peculiare di Burial. Non si tratta, ripeto, di un brutto lavoro; se fosse la pubblicazione di un producer agli esordi, penserei che è musica interessante, ancora un po’ acerba, con ampi margini di miglioramento. Inserita però a questo punto del percorso di Burial, è difficile non vederla come una parziale battuta d’arresto. Il suo tocco unico non è andato disperso, ma sembra ora espresso in una sua versione più semplificata e riproducibile. Del resto, bisogna ricordare (in primis a me stesso) che fino a questo momento Burial ha pubblicato, tra album ed EP a proprio nome, praticamente solo musica bella o bellissima: che prima o poi arrivasse una flessione era prevedibile tanto quanto la sua natura umana. 

Il passo successivo, senza dare particolare considerazione ad una nuova traccia (Nova) in collaborazione con Four Tet che non aggiunge granché a quanto già proposto dai due, si svolge con l’EP Rival Dealer; questo sì, invece, ricco di sorprese. Le prime note le ascolto sul retro di un’aula universitaria, tra le sagome degli spessi sedili in legno. Molto è cambiato intorno a me e la sensazione è che anche il rapporto che ho con la musica di Burial (per anni un porto sicuro) stia venendo investito da una trasformazione. Eppure, mentre mi lascio prendere dalla title-track, penso che…non è poi male questo cambiamento! Una volta accettato il nuovo suono di Burial, più levigato e compatto, la partenza dell’EP è una bomba: una lunga traccia divisa in tre sezioni ispirate ed efficacissime, dove viene affinata quella sintesi tra garage house euforica e breakbeat lividi ad alti BPM che su Truant sembrava esistere solo allo stato di bozza. I synth striscianti e vicious della drum ‘n’ bass vengono dilatati e portati su pitch inusuali per generare un richiamo intenso come un urlo nella notte, la cui forza si riverbera nel ritmo pulsante e nel sample iconico che dichiara: “I’m gonna love you more than anyone”, un canto di sirena. Poi ci si trova gettatə a capofitto in una mutazione dub-heavy delle scheletriche sincopi percussive di Burial, che spingono dinamiche allacciate a bassi corposi, in un gioiello da radio pirata che chiede solo di essere reso tellurico dal giusto soundsystem; infine il balsamo di una chiusura atmosferica, che sgranandosi in suoni aerei e rarefatti permette di assorbire a pieno l’esperienza dell’ascolto in modalità contemplativa, come guardare un cielo stellato con ancora addosso il sudore della danza. Ascolto una lezione di anatomia imbevuto di euforia per quella traccia, poi nel tragitto in autobus le cuffie mi restituiscono il resto.

Il fattaccio avviene ai due terzi di Hiders. Lo sviluppo del brano è magistrale per come costruisce uno scenario sonoro toccante e profondamente coinvolgente pur partendo da campionamenti di fonti diversissime tra loro, attingendo alle capacità di scultura ambient e metamorfosi vocale che Burial riesce ad incastonare come gemme nella propria musica. C’è una tensione emotiva ammantata di un’evidente spiritualità, che non si limita a filtrare dalla linea di piano (derivata da un pezzo di cantautorato cattolico) ma che viene anzi rafforzata da molti dettagli: dal tono meravigliato con cui la scienziata NASA Melissa Dawson parla dello spazio, al cambio di registro da brividi che assume un “I’ll always protect you” preso dal cantante R‘n’B Miguel. Ed ecco che, all’apice di questa trama, parte una percussione orribile; una drum machine anni ’80 col riverbero incorporato, sfacciata e ingombrante. Sembra uno scherzo, uno di quei mash-up da TikTok dal titolo: “WHAT IF BURIAL DIGGED ITALO-DISCO INSTEAD OF JUNGLE MUSIC”. Invece l’enfasi con cui si manifesta, insieme al fatto che il brano si disintegri non appena se ne va, lascia pensare che sia proprio questo il culmine verso cui tende tutta l’attenta costruzione precedente: una catarsi elettronica che suona come una paraculata dozzinale. Hiders è il pezzo che fa coesistere il concetto di “tamarrata” con un artigiano dalla mano delicata come Burial, qualcosa che non credevo possibile.

E non si tratta di un episodio isolato, perché lo stesso avviene anche su Come Down To Us, pur in maniera più graduale e sfumata. Anche qui c’è un’introduzione colma di bellezza, che riprende la downtempo oceanica di Four Walls / Paradise Circus e su questa innesta un florilegio di evocazioni e manipolazioni sonore, attraverso cui Burial distilla una sensibilità luminosa che scalda il cuore. Ma più il brano procede e più, non trovando sbocchi, si accartoccia su se stesso; l’aggiunta di elementi lo appesantisce, la ripetizione lo fa ristagnare, e così lentamente l’impalcatura dei sample inizia a governare la produzione invece che il contrario, facendo mutare il tutto in una melassa appiccicosa tra R’n’B e synthpop che fagocita l’emotività coltivata fino a poco prima. Il brano si chiude con un estratto dal discorso della regista transgender Lana Wachowski per Human Rights Campaign, una testimonianza sinceramente commovente che, dopo l’emersione da un ambiente sonoro ammassato e confuso, colpisce ancora più forte nella sua semplicità viscerale. 

In un comunicato allo show radio di Mary Anne Hobbs, Burial ha dichiarato che con questo EP vuole convogliare un messaggio contro ogni forma di bullismo e di supporto a chiunque l’abbia subito. È in effetti, tra i suoi lavori, quello più scopertamente orientato su un concept unitario, essendo attraversato nella sua interezza da manifestazioni vocali che parlano della necessità di amore, protezione e comprensione, con una sottesa ricerca di senso da trovare nella propria vera identità o nella presenza di un’entità superiore. È interessante però notare che queste necessità universali venivano comunicate, non come elementi tematici ma come sensazioni tangibili, non meno efficacemente (secondo me anzi ben di più) quando si trovavano inscritte in maniera sottile e pervasiva tra le caratteristiche del suono di Burial, senza bisogno di essere “dichiarate”. Ora che sono scritte a caratteri cubitali, vengono invece tradite da scelte musicali che restituiscono una versione tronfia, posticcia, di questo bagaglio sentimentale; i synth dalle melodie al miele e le percussioni carezzevoli sono utilizzati da decenni in tutte le salse per appellarsi immediatamente a questa sfera del vissuto, ma non sono capaci di entrare sottopelle come il gioco di chiaroscuri che Burial ha sviluppato altrove più che qui. Vero è che con Rival Dealer riesce a padroneggiare un nuovo registro, ovvero quell’epica epidermica e a suo modo trascendentale che costituisce l’anima emozionale della dance music: viene distillata continuamente come un rituale di rigenerazione (in tempi relativamente recenti ad esempio da Rustie su EVENIFUDONTBELIEVE e da DJ Metatron nei propri EP), e Burial la conosce benissimo avendola studiata a fondo e amata ancor di più nei pezzi dei producer che lo hanno ispirato, ma non era detto che potesse (o volesse) farsene alchimista lui stesso. Invece sa fare anche questo. Allora diverse scelte che ricadono su ritmi banali e brutti suoni, obiettivamente inedite, unite all’adagiarsi su dinamiche tagliate con l’accetta, suonano come un grosso danno inflitto a una direzione artistica che può essere valida. A differenza di Truant / Rough Sleeper, dove vari aspetti preziosi della musica di Burial venivano appiattiti in una versione diminutiva che sembrava non poter dare di più, su Rival Dealer c’è un lavoro di definizione impressionante in cui risplendono molti suoi talenti, ammucchiati però nello spazio di in una vetrina musicale troppo piccola che finisce per suonare sovraccarica e in un certo senso alienata rispetto al messaggio. Quanto conta la tecnica se si dissipa quel puro linguaggio emotivo mai scalfito fin qui? O forse è inevitabile che questo accada per evitare la fossilizzazione? Si tratta in definitiva di un EP continuamente oscillante tra entusiasmo e frustrazione, su vari piani la pubblicazione di Burial più ambigua ascoltata finora; del resto, lui stesso ci teneva ad abbassare le aspettative. 

A questo punto non si attende più il suo fatidico terzo album, ha comunque pubblicato quasi due ore di musica nel giro di tre anni. Un appassionato di produzioni pensate per singoli ed EP come Bevan si trova a suo agio in un formato più breve, e fin qui ha goduto di un apprezzamento senza soluzione di continuità: se chiedete in giro, Truant / Rough Sleeper viene generalmente considerato peak Burial. Anche con la pubblicazione di Rival Dealer si rinnova un’eccitazione che appare inscalfibile nei confronti del producer londinese; per dare il polso dell’accoglienza che riceve, Pitchfork lo elegge Best New Music con un 9.0, più di Kindred e di ognuno dei due album, opinione condivisa da FactMag dove si parla di possibile coming out artistico e personale. Io rimango invece con una manciata di rassicurazioni circondate da tanti dubbi, che cercano risposta.

E le risposte, purtroppo, arrivano con una serie di pubblicazioni ammantate di rimpianti e inconsistenza. In ordine sparso: 

  • Sweetz in collaborazione con Zomby, uno scenario post-rave prosciugato in cui i ritmi risuonano esausti su toni di grigio. Posto come evidente e intenzionale lo svuotamento di ogni spirito legato al dancefloor, il pezzo non riesce però neanche a esercitare una risignificazione della danza come memoria che aleggia in uno scenario post-apocalittico, per via della produzione piatta e vaga che lascia solo sensazioni mezze masticate. Sembra in effetti una bozza pubblicata in pieno stato di lavorazione, e l’insistenza con cui il sample ripete “Got me fucked up” assume un involontario significato ironico se confrontata con l’impalpabilità del contesto.  Certo, si tratta di una traccia realizzata con uno che ha speso più di metà carriera in declino e la curiosità riguardava principalmente quale influenza avrebbe potuto avere Burial su questa parabola; il pantano tira dentro anche lui, ma non era certo questa la sua uscita più attesa. 
  • Temple Sleeper, un singolo pubblicato per la Keysound, etichetta gestita dall’amico Blackdown e dal suo collaboratore di lunga data Dusk. Attenzione: Burial torna a fare speed garage! E gli riesce anche piuttosto bene. Non bisogna pensare alle interpretazioni scintillanti e hi-tech della generazione successiva (tipo Sharda), perché il cuore di Burial risiede nelle produzioni che si potevano intercettare sulle radio pirata intorno alla seconda metà degli anni ’90; il clangore che accompagna i ritmi, i bassi angolari e pieni, le linee di synth che sembrano uscire direttamente dal cuore della notte come luci al neon, sono caratteristiche che Bevan ha amato e che sa evocare con forza in questo pezzo. Anche qui sceglie di procedere per taglia-e-cuci di sezioni diverse, ormai una sua nuova cifra stilistica; se da una parte questo riserva uno spazio inferiore ad alcune buone idee, che si interrompono proprio quando sono riuscite a coinvolgere tutte le cellule della percezione, dall’altra permette di trovare un interessante equilibrio tra dinamismo e ripetizione e fa suonare il brano come un esaltante mini-mix di ottimo materiale. Dopo averlo visto chiaramente in Rival Dealer, Temple Sleeper riconferma che Burial è in grado di portare la fiaccola della dance music a suon di breakbeat, alimentando le fiamme con palpitazioni risuonanti ed euforia malinconica: ascoltare questo pezzo mi fa sperare che possa essere questa la sua prossima direzione. 
  • E invece no. I due EP successivi pubblicati da Burial vanno all-in sulla componente più strettamente ambient della sua musica, provando ad espanderne l’orizzonte senza successo e finendo anzi per diluirne ogni peculiarità. Su Young Death / Nightmarket la prima traccia trascorre i propri 5 minuti a fare esattamente nulla, o meglio: a dipingere una versione così scolorita di memorie musicali associabili a Burial – le carezze di sintetizzatore ormai usurate, i campioni vocali manipolati per un risultato bruttino, gli spazi esposti dal sound design che rimangono abbandonati come piloni nei campi – che sembra essere prodotta da una AI impegnata solo a riprodurre vagamente l’originale. È ambient nel senso più diminutivo del termine, ovvero musica innocua che finisce a fare da sfondo all’attenzione perché non ha davvero nulla che meriti di focalizzarla. Nightmarket lavora sempre in modo sparso, superando talvolta la soglia dove una produzione da minimale diventa deficitaria, ma mettendo in primo piano degli andirivieni melodici di sintetizzatore che si qualificano ben presto come traino principale del brano; peccato che le loro variazioni successive siano così deboli da fare tenerezza, e tutto il resto semplice pulviscolo in attesa che queste si manifestino. Un Burial in veste progressive electronic resta un’idea allo stato embrionale. Subtemple inizialmente mi incuriosisce non poco, perché nelle premesse mi sembra richiamare addirittura i percorsi di musica acusmatica di Bernard Parmegiani; rimane però tutto nella mia testa, perché ben presto il brano si risolve in una raccolta di suonini che rimangono indefinitamente a galleggiare nel vuoto. Beachfires almeno dimostra di avere una connessione tra desiderio espressivo ed esecuzione, con il lento crescendo di synth che arriva sgranato e distante all’orecchio, accentuando così quella componente di epicità austera che si apprezza spesso tra le vette delle pubblicazioni Subtext; ma è un germoglio che appassisce nell’aridità del terreno sonoro in cui si trova, che non sembra poter andare molto oltre l’ennesimo utilizzo di nuvolette di campanelle e sonagli come unica variazione timbrica (ancora? Per quanto tempo ancora?).

In queste uscite Burial esplora gli aspetti della propria arte che al momento sembrano avere meno margine di crescita, dedicando loro alcune delle proprie produzioni più sciatte e informi. Ci sono stati quasi due anni di pausa dalla pubblicazione di Rival Dealer, un periodo di riflessione che sembrava utile per riordinare le idee; eppure molto di questo materiale appare semplicemente incompleto, con un minutaggio largamente ingiustificato se non come piattaforma per ulteriori rifiniture mai arrivate. Che sta succedendo? 


A questo punto devo ammettere a me stesso che c’è stato un grosso, ulteriore cambiamento nel mio atteggiamento da ascoltatore appassionato a Burial, e cioè: quando vengo a sapere di una sua nuova pubblicazione, l’emozione dominante in me non è la curiosità né l’eccitazione ma la paura della delusione. Come succede nei confronti di una persona a cui si tiene molto ma con cui si attraversa un lungo periodo di incomprensioni, il piacere dello stare insieme viene eroso dall’ansia dello scontro. La conseguenza di questo nuovo stato d’animo è che inizio a saltare alcune sue uscite, perdendo l’automatismo che mi portava a cercare i file audio su Soulseek appena possibile e talvolta non recuperandole neanche dopo. Così non ascolto Rodent, che sembra avere tuti i crismi di un’altra uscita minore, mentre riprendo dopo mesi il suo remix di Deep Summer di Mønic, in cui si allontana molto dall’originale (peraltro dimenticabile) e si cala in una insolita ma non disprezzabile veste balearic, con percussioni morbide, chitarre effettate e profumo di salsedine. La sortita di un singolo su Nonplus mi trova invece subito sul pezzo, perché lascia pensare a qualcosa di più danzereccio: in effetti i due brani che vengono pubblicati si muovono in territorio da dancefloor, nella forma estesa che Burial ha mostrato di saper percorrere. Purtroppo la gestione della ripetizione, insistente fino a sfiorare l’ottusità, finisce per appiattire il potenziale estatico delle due tracce (che pure c’è, indubbiamente); sembra che in assenza della tecnica di cut-up, che gli permette di assemblare attraverso rapide transizioni materiale con ritmi e umori diversi, Burial faccia fatica a trovare soluzioni. Se però in Indoors riesce sgomitando a mantenersi l’energia che portava in alto momenti come Ashtray Wasp, la produzione ruvida mal si accorda allo sviluppo maggiormente orientato verso la tech-house progressiva di Pre Dawn

Nel periodo successivo Burial torna ad inanellare alcune collaborazioni. Con Kode9 realizza la centesima uscita per la serie Fabriclive, dove i due rimescolano il crogiolo di influenze dell’underground elettronico inglese aprendosi a correnti footwork e deconstructed club da altri continenti; è un lavoro ricco e solido ma poco informativo sull’ispirazione di Burial, trattandosi comunque di un mix realizzato a quattro mani senza la presenza di proprio materiale originale. Con Kevin Martin – altra figura chiave nell’evoluzione del suono dubstep – forma invece un sodalizio sotto lo pseudonimo Flame, da cui nascono quattro tracce pubblicate su due singoli tra 2018 e 2019. Chiunque abbia seguito il percorso di Kevin Martin, nelle produzioni a nome The Bug e ancor prima con i Techno Animal, si trova qui in un territorio familiare: melodie spettrali racchiuse nell’ambra di ritmi fumosi e pesanti, dub ad alta pressione la cui lentezza impastata di eco emana dai circuiti come i miasmi di una palude. La presenza di Burial non sposta di molto un suono già consolidato, ma va detto che in questa veste vengono rilasciati dei notevoli macigni come Shrine e Dive che sono senz’altro tra le cose migliori su cui abbia messo mano in tutto il periodo post-Rival Dealer. Poco dopo arriva una nuova collaborazione insieme a Four Tet e Thom Yorke, dove la novità è però solo discografica perché dal punto di visto del suono ci troviamo dalle parti di uno spento trip-hop con la muffa e le ragnatele; a questo punto è chiaro che i tre si trovano bene insieme, ma non si sente la necessità di altre registrazioni che ne diano testimonianza. Lo split condiviso con Blackdown invece lo salto a piedi pari subodorando la fregatura, sia perché non sono un estimatore del suo collaboratore sia perché i commenti negativi letti a riguardo mi trovano abbastanza ricettivo. Nel frattempo però continuano anche le pubblicazioni sotto Hyperdub, con Burial che mantiene una prolificità senza ostacoli. Claustro/State Forest è probabilmente la fotografia più precisa dei limiti entro cui si muove la sua musica in questo momento: un lato A con una produzione garage house rave-discendente di vecchia scuola, che azzecca l’incastro per un potenziale banger e si accontenta poi di mandarlo in loop con un’equalizzazione sghemba; un lato B che riprende l’ambient diluita dalle melodie minimali proposta su Young Death/Nightmarket, ricamando più dolcemente lo stesso senso di indeterminatezza.

Non si può certo dire che Burial si riposi sugli allori di quanto già fatto, anzi: sperimenta e svaria, poi cerca di consolidare. Il problema centrale, almeno per me, è che tutto ciò che fa uscire in questi anni è ammantato da un’aura di generale mediocrità: la sua musica non spicca particolarmente rispetto a quella di tantə altrə producer che si muovono su coordinate simili, solo a tratti riesce ad essere sinceramente coinvolgente, quasi mai originale o necessaria. Per ogni Temple Sleeper capace di farmi muovere testa e cuore, ci sono una Chemz e una Dolphins che sembrano una parodia poco divertente della musica da rave e che risultano contagiose solo nella propria stanchezza. Anche per questo è diventato naturale non ascoltare parte del nuovo materiale che Burial pubblica: ciò che effettivamente arriva in cuffia mi suggerisce che non mi sto perdendo granché. La pubblicazione da parte della Hyperdub di una compilation ufficiale che recupera tutte le tracce pubblicate dal 2011 in poi arriva come un momento di realizzazione negativa. Il risultato è ovviamente un guazzabuglio che mette assieme lavori diversissimi per sensibilità e intenti, in cui la grande coesione tematica e musicale di vette come Kindred si trova affiancata a tentativi senza capo né coda che sarebbero tranquillamente potuti rimanere in archivio; serve però a farmi domandare: “A quante di queste tracce tengo davvero? Quante di queste avrei voglia di riascoltare?”. La risposta rappresenta la triste consapevolezza di un amore perduto: non per le ferite di un aspro conflitto ma per il lento veleno del disinteresse verso qualcosa che prima era vitale.  

Per questo, quando nel 2022 Burial pubblica Streetlands e Antidawn, la mia reazione è di non ascoltarli. Il secondo però mi tenta, perché per minutaggio si tratta della cosa più vicina a un album che Burial abbia realizzato dai tempi di Untrue. Mi fa esitare il fatto che si tratti di un lavoro puramente ambient, l’assetto che nel recente passato ha generato le sue versioni più involute. Allora leggo qualcosina a riguardo e senza preavviso vengo trafitto dalla conclusione di un trafiletto su Boomkat:    

…it’s predictably evocative gear that feels like an extended tease; you’ll just have to listen till the end to see if those woodblock drums ever make an appearance, we ain’t sayin.”

So che non si tratta solo di un’impostazione pigra da parte di chi scrive ma di una realtà tangibile, quella in cui uno dei principali motivi di curiosità riguardo a un disco di Burial a questo punto sta semplicemente nello scoprire se ci metterà le percussioni oppure no. È quindi già arrivato il momento in cui il senso della sua musica diventa irrilevante? Mi rifiuto di rassegnarmi a questo, perché sento che Burial per me non può essere questo. Non voglio che il rapporto con la sua musica scivoli verso ascolti meccanici e annoiati. Decido quindi, lucidamente, che la risoluzione migliore è smettere di seguirlo, non ascoltando più nulla di ciò che farà uscire d’ora in poi. È il mio modo, magari imperfetto ma necessario, per scrivere la parola “fine” prima che tutto degeneri in un’ indifferenza senza sussulti; un’amputazione dolorosa per evitare che l’organismo vivo di ricordi e sensazioni incancrenisca. Non è un proposito facile da mantenere, perché nella risacca dell’amore si è sensibili al suo richiamo. All’inizio di quest’anno, mentre già stavo scrivendo questo pezzo, sono stato sorpreso dall’uscita di un nuovo singolo di Burial, inaspettatamente non per Hyperdub ma per XL Recordings. Ne sentivo parlare benissimo e la mia volontà è vacillata in favore della speranza: al posto di un addio, avrei potuto concludere la storia con un ritorno di fiamma? L’illusione è durata poco, l’ascolto mi ha generato un dispiacere che non dovrebbe essere possibile associare all’esperienza di una mezz’ora di musica. Quel cedimento mi ha confermato la bontà della scelta iniziale.    

Scrivo queste parole conclusive mentre mi trovo a Londra, più vicino fisicamente a Burial di quanto non sia mai stato; eppure, allo stesso tempo percepisco una distanza incolmabile. Provo un enorme rispetto, e un affetto non inferiore. Non mi sono mai sentito veramente tradito da Bevan e, soprattutto, lui non ha mai tradito se stesso. Non si è messo a fare marchette o a capitalizzare di punto in bianco sulle (tante) attenzioni ricevute. Con il passare degli anni la sua passione si è mantenuta sincera e totalizzante, incarnata totalmente nella ragione per cui esiste Burial: making tunes. Ascoltando le sue pubblicazioni, anche quelle dell’ultimo periodo, mi arriva sempre l’immagine di una persona profondamente grata di poter fare quello che fa, che nel rinnovare il proprio speciale tributo alla musica che ha adorato è poi riuscito ad ispirare molti altri, compreso me. Semplicemente, a un certo punto le sue tunes hanno smesso di dirmi qualcosa di significativo. Che la musica di Burial sia cambiata nel tempo è quasi ovvio, sarebbe stato per nulla auspicabile il contrario; così come nel frattempo i cambiamenti nella mia vita hanno lasciato profondi solchi e numerosi germogli. A volte succede solo questo, che nello svolgersi del reciproco percorso ci si accorga di essere su traiettorie divergenti. Il motivo per cui non riesco a vivere con nessuna serenità la “normalizzazione” del tardo Burial è inestricabilmente legata all’intensità dell’amore che ho provato per le sue incarnazioni precedenti; quella scintilla mi ha segnato in modo tale che per me è impossibile non continuare a cercarla in qualunque cosa porti il suo nome. Il confronto è sempre vivo ed è, purtroppo, anche impietoso. Ancora adesso se cammino la sera per le vie di Lambeth, ma anche di Bologna, ma anche di qualunque altro posto al mondo ascoltando Untrue o Kindred, entro in una dimensione speciale; penso che sarà sempre così. Burial mi ha regalato quasi un decennio di emozioni fortissime che mi hanno in un certo senso formato, come ascoltatore e non solo. È qualcosa di raro, e sono felice di averlo vissuto. Proprio per non rovinare questo ricordo, per non farlo scadere in una mediocrità che non voglio gli appartenga, è meglio che la mia storia con Burial  – il futuro Burial – si chiuda qui. Grazie di tutto, davvero. 

Condividi questo articolo:
Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto