BURIAL, UNA STORIA D’AMORE (PRIMA PARTE)

[foto tratte dal booklet di Untrue e realizzate da Georgina Cook]

Scoprire l’amore   

I’ll show you light now   
It burns forever   

La mia adolescenza è coincisa con la fioritura della scena dubstep. Il tempo può semplificare o affievolire il ricordo di quella stagione, ma è stato uno dei fenomeni musicali più eccitanti del nuovo millennio: un punto di connessione tra il “black noise” dei soundsystem dub e le ritmiche fratturate che hanno segnato l’epoca d’oro dei rave inglesi, unite in una forma vibrante che suonava in rapida e continua evoluzione. La dubstep possedeva radici abbastanza forti da proporsi come lo stadio successivo dell’hardcore continuum esposto da Simon Reynolds, era nutrita da un profondo underground in pieno fermento e ricco di diverse declinazioni stilistiche, aveva raggiunto un’affermazione mediatica tale da intercettare la tremebonda connessione internet di un borgo sperduto tra le colline marchigiane. All’epoca stavo già sviluppando una predilizione per la musica elettronica, per cui cercavo nuove produzioni dubstep con il febbrile entusiasmo di qualcuno che si trova per la prima volta a vivere in tempo reale qualcosa di grosso: il manuale degli ascolti seguito fin lì si arenava sui grandi nomi della ambient-techno-IDM anni ‘90, tutta gente che aveva vissuto il proprio picco creativo nel decennio precedente alla mia formazione come ascoltatore interessato di musica, perciò sentivo un brivido inedito nell’imparare a conoscere un suono che sembrava crescere di pari passo con me. Il mio meccanismo di esplorazione principale era l’algoritmo di Youtube (Bandcamp era in fase embrionale, i download richiedevano tempi biblici), che mi guidava attraverso un fitto sottobosco di canali dove venivano caricate tracce uscite da poco o ancora non pubblicate ufficialmente. Lì ho conosciuto artisti che avrei seguito a lungo, come Shackleton, e sviluppato un apprezzamento particolare per il roster Hyperdub; ma l’esperienza era costellata da incontri meteorici con nomi di cui non ho mai più avuto notizia e che pure riescono ancora a farmi tornare in mente determinati pezzi che per un periodo ho consumato a forza di ascolti: Vaccine, Emalkay, Jsuave, Doctor P, Goth-Trad, Ghost Mutt…  

Nel corso di questi larghi giri avevo già incontrato Burial, la sua South London Boroughs inserita nella prima delle tante compilation masterizzate alla buona. Un suono diverso dagli altri, scheletrico eppure avvolgente, un’atmosfera scura e ossessiva che celava un conforto difficile da definire. La ascoltavo meno di altre, ma quando lo facevo avvertivo un fremito anticipatorio che richiamava tutta la mia attenzione. Ero attratto.  

È proprio in questo stato amniotico del sentimento che le tempistiche, o le coincidenze, sanno essere perfide sabotatrici o complici formidabili. Per capire da che versante si inclina il piano della mia realtà, basta dire che il secondo album di Burial, Untrue, esce a pochi mesi dall’inizio delle mie desiderose ricerche. L’esordio omonimo dell’anno precedente lo aveva già posizionato su molti radar come una delle voci più peculiari della scena dubstep, ma di questo io ero ancora ignaro; l’eco di critica e pubblico generata da Untrue si dimostra però di una ordine di grandezza superiore, arrivando a bucare con forza la mia bolla. Ad intessere la trama contribuisce, pensate un po’, una recensione di Christian Zingales su La Repubblica XL: non sono riuscito a riesumarla in alcun modo, ma ricordo chiaramente la benedizione al disco con il massimo dei voti (caso più unico che raro per una pubblicazione di musica elettronica) e gli accenni meravigliati alle “voci angeliche perse nel mix”. Etichetta discografica: Hyperdub; reale identità dell’artista: sconosciuta. Tanto basta per convincermi a raggiungere appena possibile il negozio di dischi di fiducia e tornare a casa con il CD in mano. Attendo l’occasione giusta per ascoltarlo, con calma, di sera; ma nessuno può arrivare veramente preparato al momento in cui si innamora.  

Molto è stato detto e scritto su Untrue. Ha assunto lo status di opera generazionale in maniera più o meno trasversale, ma anche imprevedibile. Non è un album rivoluzionario. Burial non è un maestro del sound design, non dà mai l’impressione di saper modellare gli elementi del suono a proprio piacimento: piuttosto sembra un piccolo artigiano, che fa il meglio che può con i materiali che ha. I suoi ritmi vengono attinti direttamente dalle fiorenti tradizioni britanniche della garage e della 2-step, per la caratteristica metrica sfuggente e irregolare, e della drum ‘n’ bass più atmosferica fino alla darkstep, per la costituzione minimale e risonante. Anche l’idea di usare frammenti vocali processati come traino emotivo di un pezzo, al posto di temi o melodie, non è certamente nuova: già a fine anni ‘90 troviamo produzioni che rappresentano la copia carbone di ciò che Burial farà 10 anni dopo.   

Tutte considerazioni motivate sulla carta; il fatto è che l’ascolto le apre in due. I beat che scandiscono Untrue emanano un’aura unica. Sono tendenzialmente scarni, minimali, risuonano metallici e sfuggenti come percussioni su materiali di fortuna e vengono colmati dai bassi in un modo che ne evidenzia i vuoti. Allo stesso tempo possiedono una rotondità e una morbidezza che li ovatta senza smussarne gli spigoli, e tramite un gioco di echi e riverberi vengono infusi di una dolcezza inafferrabile. Questa particolare anima ritmica accomuna una varietà eccezionale di declinazioni: ci sono il trionfo del suono pieno di Archangel, ma anche le minuscole bolle di battiti su Shell of Light; una versione strisciante e fantasmatica dei pattern drum ‘n’ bass percorre Near Dark, ma il disco si chiude con un beat house decadente che non starebbe fuori posto in un album di DJ Sprinkles. Tutti a loro modo suonano taglienti e definitivi, grimaldelli per una dimensione nuova. Poi, le voci. Praticamente chiunque abbia costruito una carriera pubblicando musica elettronica negli ultimi 40 anni si è trovatə ad utilizzare campionamenti vocali; nessunə, però, li ha mai processati come Burial. Il materiale di partenza è rappresentato soprattutto da singoli R‘n’B mainstream dei primi anni 2000 (Beyoncé e Christina Aguilera, ad esempio) ma risulta completamente trasfigurato, con forti cambiamenti di pitch e tempi ampiamente dilatati. Questi trattamenti degradano parzialmente la sorgente audio, conferendo al risultato un distintivo tratto di distanza ultraterrena; delle interpretazioni originali rimangono l’intensità del canto e l’immediatezza dei messaggi pronunciati, che abbandonano le pagine della manualistica pop per trasformarsi in invocazioni sentimentali di straniante bellezza. L’estensione con cui queste apparizioni vocali si manifestano attraverso i pezzi rende Untrue un territorio liminale percorso continuamente da echi spirituali di sensazioni dolorosamente umane. 

Se ritmi e voci sono le caratteristiche più diffusamente evidenziate del suono di Burial, altrettanto importante è l’atmosfera che le contiene e le amalgama. Con pochi dettagli il producer londinese riesce a creare un immaginario sonoro vivido, dove la desolazione urbana si scioglie in elementi confortanti: il diffuso crepitio della pioggia o della puntina sul vinile che permea il tessuto di ogni brano, le scariche scure di riverberi circondate da morbide dissolvenze, i sintetizzatori che possono disperdersi in note nebulose o organizzarsi in pad avvolgenti come melodie d’archi. Gli effetti sonori sono sparsi in parti diverse del mix ma appaiono tutti confluenti, con piccole ma decisive aggiunte di significato. L’abilità di Burial nel definire questo scenario è lampante nei pezzi dove il beat tace, quadretti ambient emotivamente devastanti capaci di moltiplicare l’impatto della manciata di elementi che li compongono. Tutto questo fa sì che Untrue suoni come nessun altro album mai pubblicato, né prima né dopo. 

Aggiungiamoci che, per quanto ne sappiamo, tutti i pezzi sono stati realizzati nel giro di due settimane su una vecchia workstation per audio digitale che non consente di usare una griglia multitraccia (a differenza di software più moderni allora disponibili); che gran parte delle percussioni derivano da campionamenti del suono di ricarica delle munizioni dal videogioco Metal Gear Solid; che nel momento in cui il nome di Burial era sulla bocca di tutti, la sua reale identità risultava ancora volontariamente celata; persino che l’interno della custodia del CD è una foto notturna di un cumulo di macerie su cui appare la scritta “Thank you”. Ogni elemento è vitale per capire come mai Untrue ha saputo parlare al cuore di così tante persone. È una sincera lettera d’amore verso l’era dei rave, verso un modo di vivere la musica intrecciato a un forte senso di comunità e libertà, e insieme è la rassegnata consapevolezza che quel tempo è passato; “It was stolen from us and it never really came back”, dirà a riguardo Burial stesso. Ma alle spalle c’è una intera generazione che pensa lo stesso del proprio futuro, che è iperconnessa ma muore di solitudine, per cui il mix di euforia e tristezza che permea il disco rappresenta la realtà quotidiana. Spesso questa musica è stata descritta come qualcosa che non anima una festa bensì il suo ricordo, la colonna sonora della risacca emotiva nel successivo ritorno a casa; ma lascia il segno anche in chi la festa l’ha solo immaginata, senza viverla, nei contorni di una desolazione notturna che appare dalla finestra tra la luce di uno schermo e quella dei lampioni. È incredibile, o forse perfettamente coerente, che un album dalla risonanza così ampia e intima suoni poi così semplice, che pur con tutte le proprie peculiarità non perda mai il piglio del disco che potrebbe essere stato registrato in cameretta da un amico d’infanzia. Il tipo di commento più stupido che si può leggere su Untrue è infatti quello che lo descrive come un buon disco d’atmosfera zavorrato dalla ripetizione dei suoi elementi, sul tenore di “Soundscapes: 10/10, Composition: 2/10”; come se ci fossero degli obiettivi minimi prestabiliti da rispettare in ogni caso, e non invece un canale d’ascolto dedicato all’unicità di ogni espressione. Su Untrue l’uso di un armamentario sonoro relativamente ristretto genera una sensazione di familiarità palpabile, e il diffuso ricorso alla ripetizione rende possibile una compresenza continua di meraviglia e stagnazione senza la quale tutte le sensazioni particolarissime descritte finora non potrebbero manifestarsi con la stessa immediatezza. Mi si potrebbe giustamente dire che per altri album non applicherei lo stesso metro di giudizio. Ma, semplicemente, quegli altri album non sono Untrue; e ha poca fortuna chi cerca logica ferrea nei pensieri di un innamorato.  

In quanto a me, dal primo momento in cui le percussioni fluide di Archangel hanno fatto irruzione nel mio sistema uditivo ho saputo che la mia vita da ascoltatore di musica sarebbe cambiata. Come un particolare sguardo, o un sorriso, che fino a un minuto prima non era presente nel tuo equilibrio e dopo averlo incrociato ti sembra impossibile farne a meno. Molti dei motivi per cui amo Untrue, e che ho qui provato ad esporre, non li capivo ancora; li avrei scoperti nel tempo, seguendo un percorso in parte tracciato da Burial stesso, che mi ha rivelato molto di quello che cerco quando mi infilo un paio di cuffie. 

Un tesoro dell’amore è ritrovarsi ad essere felice per il solo fatto che la fonte del proprio amore esista. E tale sono io dopo questa scoperta, attraverso le curve di strade buie tra le colline, le casse della mia ape Piaggio che iniziano a friggere trasmettendo per l’ennesima volta la musica del CD nero, sentendomi un miracolato. A distanza di anni sono cambiati i luoghi, i mezzi e gli ascolti, in definitiva sono cambiato io, ma se faccio partire Untrue un brivido mi percorre ancora. 

Vivere l’amore

Now that I need you…  

Dopo un incontro rivelatorio di queste proporzioni è fortissimo il bisogno di avere altre occasioni per ascoltare Burial all’opera, altra musica che mi mandi segnali dal suo mondo. Così naturalmente mi rivolgo al suo omonimo album di esordio, pubblicato un anno e mezzo prima e per qualche motivo rimasto fuori dal mio piccolo radar. Il desiderio si scioglie nel piacere di una nuova sorpresa: Burial è un altro disco bellissimo, diverso ma inconfondibilmente uscito dalla stessa mente di Untrue. È più facilmente localizzabile nella scena dubstep londinese per la forte influenza della musica grime, che risuona nei breakbeat rimbombanti e aggressivi e nell’atmosfera scura e claustrofobica che emanano. Il dialogo è suggellato dalla presenza del primo e (che io sappia) unico featuring di Burial con un MC, in questo caso il compianto Stephen Samuel Gordon, che infonde le proprie visioni afrofuturiste e il caratteristico flow magmatico in un brano clamoroso come Spaceape. La musica contenuta in Burial suona violentemente primordiale, ma offre sempre una via di fuga con delle melodie che sembrano apparire dal nulla, confortanti e spettrali. Si tratta di piccoli segmenti rarefatti che aleggiano sui brani come luci baluginanti, sfumati in una nebbia sonora che ne diffonde il potenziale lenitivo. Così la semplicità del tema di U Hurt Me si tramuta in un andirivieni di spire granulari che avvolgono l’intero pezzo; o, all’estremo, su Wounder quattro note estrapolate dallo stesso test tone dub[1] diventano un grimaldello emozionale che aggiunge tutta un’altra dimensione alle oscillazioni minacciose dei bassi. Beat e melodie si definiscono e si rafforzano nel reciproco contrasto, e anche le voci (più sparse e isolate, ma già decisive) oscillano tra oscuri frammenti da radio pirata e invocazioni angeliche.   

Burial contiene due grandi realizzazioni: la potenza di una forma espressiva che ci ricorda la desolazione delle distese di asfalto e cemento, e che allo stesso tempo riesce a scompaginarla con il sollievo della bellezza; l’evidente talento di uno sconosciuto producer inglese nel trovare questo incastro. I due nuclei dell’immaginario vengono qui trasposti in musica in maniera più grezza rispetto ad Untrue, dove si compenetreranno fino a diventare inscindibili, ma questa ruvidezza è il fascino di Burial. Suona come una fioritura, lo schiudersi di un suono con le radici ben piantate nella ribollente scena elettronica di Londra, ma mutato attraverso una tecnica e una sensibilità uniche. Wounder è il singolo episodio che farei ascoltare per dare conto della profondità di questo passaggio, semplicemente uno dei pezzi più belli del decennio; Distant Lights è un distillato della poetica[2] di Burial, oltre che un fulgido esempio di spazialità ed emotività all’interno di una produzione elettronica. Tutto questo fa sì che per me, ancora immerso nell’adorazione di Untrue, ascoltare l’album precedente sia come un lungo momento di intimità in cui la persona amata mi racconta storie dal proprio passato. Inizio a capire il percorso che l’ha portata ad essere com’è oggi, le ragioni di tante peculiarità dolcissime, la meraviglia delle esperienze vissute e il solco di fragilità che meritano attenzione; inizio a sentire di conoscerla davvero. E l’amore cresce.  

Ho insomma di che scaldarmi durante il lungo inverno che mi separa dalla prossima nuova uscita di Burial. I riascolti creano una connessione sempre più intensa e un piacevole senso di complicità. Il desiderio però non può essere sopito facilmente, così mi metto a scandagliare internet alla ricerca di tutte le briciole di musica che può aver seminato Burial al di fuori degli album. Mi fermo alle apparizioni di due minuti estratte dalle dirette radio, diciamo. Dopo un febbrile scavare, mi ritrovo tra le mani circa un’altra ora di musica. La scaletta “artigianale” comprende tre categorie: 

1) Produzioni di Burial arrivate da percorsi collaterali: Shutta ed Exit Wound (uscite sull’EP Ghost Hardware insieme al pezzo omonimo), Unite, Versus (sostanzialmente una versione alternativa di Wounder); 

2) Collaborazioni: Vial con Breakage, Prophecy con El-B, Dusk con Blackdown; 

3) Remix: Crackle Blues di Blackdown, Wayfaring Stranger interpretata da Jamie Woon, Where Is Home? dei Bloc Party, And It Rained All Night di Thom Yorke e Be True di Commix. 

L’ascolto d’insieme cementa l’idea che esista uno “stile Burial” ormai ben definito: ritmi asciutti e irregolari che rimbombano secchi come percussioni su macerie, temi vocali tra l’hauntologico e l’etereo a pervadere il mix, atmosfere minimali che acquisiscono profondità attraverso echi e dissolvenze. Una combinazione che anche in queste versioni minori rivela tutto il proprio fascino e che infatti in molti cercheranno di imitare, più o meno pedissequamente. Certo, il materiale contenuto negli album vive di tutt’altra luce e l’ascolto comparativo non fa che rafforzare l’impressione, con la profondità nel trattamento dei sample vocali (e quindi la forza della loro seduzione) a riflettere il divario più grande. In generale la cornice del long play, che accoglie i diversi umori dell’ispirazione in una coerenza estetica più ampia, sembra il contesto ideale per far esprimere a questa musica tutta la propria magia. Ovviamente per me in questo momento ogni occasione per rinverdire la presenza di Burial tra i miei ascolti è già di per sé oro colato; va però detto che questa manciata di brani è in generale di buon livello e contiene vari motivi di interesse. La collaborazione con Breakage affina l’incontro tra la versione diafana dei pattern drum ‘n’ bass e le fondamenta elastiche di quella che verrà poi battezzata future garage, mentre il pezzo con El-B mette alla prova Burial sull’insolito terreno della dubstep a muso duro: chi se lo immaginava a flirtare con linee di basso distorto ad effetto motosega? Su Dusk insieme a Blackdown esplora una dimensione peculiare che ne avvicina il suono alle scintille dei Commix di Come to Mind, mentre proprio nel remix del pezzo dei Commix mostra un’abilità trasfigurativa sorprendente, trasformando una produzione liquid tirata a lucido in uno scenario ipnagogico a mezz’aria. Sorprendente anche perché gli altri remix (chi se lo immaginava Burial a fare i remix?) consistono sostanzialmente nel sovrimporre lo “stile Burial” alla traccia originale; bisogna dire però che con Thom Yorke fa bella figura, emanando vibrazioni da Idioteque non indifferenti. I pezzi meno riusciti, dal canto loro, mi trasmettono comunque un certo conforto: mi dicono che anche questa figura misteriosa dai contorni mistici a un certo punto si è ritrovata seduta davanti a un computer a cercare di incastrare dei loop tra loro, sforzandosi molto per ricavarne qualcosa di decente, come un essere umano qualunque. Me lo fanno sentire più vicino. 

Il mistero intorno a Burial si squarcia di lì a poco, quando lo stesso artista rivela il proprio nome in seguito ad un intensificarsi della curiosità morbosa sulla sua reale identità. In un articolo incentrato su tutt’altro, l’Independent era riuscito nell’acrobazia di sottolineare il desiderio di anonimato dell’artista e associarvi il suo vero nome (non ancora reso pubblico) nello spazio di tre righe; dalle colonne di quello schifo che è il Sun, Gordon Smart aveva addirittura promosso una sorta di caccia all’uomo in cui invitava chiunque avesse informazioni personali a farsi avanti. Per far cessare il teatrino, Burial conferma la propria identità con un post su Myspace: si chiama William Emmanuel Bevan. 

Ci rimango male per il modo in cui è avvenuta la vicenda (le cui storture sono state giustamente sottolineate), non per la rivelazione in sé. Immaginavo che con tutta l’attenzione mediatica montata dopo la pubblicazione di Untrue, sarebbe stato difficile per Burial mantenere l’anonimato; il senso di fastidio con cui vive l’aspetto “pubblico” del fare musica ne ribadisce anzi la natura schiva e appassionata, per cui il senso ultimo di tutto questo è “to make some tunes”[3]. 

Leggendo l’articolo dell’Independent si apprende che Bevan ha frequentato la stessa scuola di Kieran Hebden aka Four Tet; sarà un caso, ma l’interruzione del silenzio post-Untrue arriva proprio con una collaborazione tra i due. Four Tet è già un nome grosso della scena musicale londinese, un producer riconosciuto a livello internazionale prima ancora che Burial iniziasse a pubblicare per Hyperdub, soprattutto dopo l’ottima accoglienza dell’album Rounds (effettivamente molto bello) che aveva un po’ inquadrato lo stato dell’arte nella folktronica di inizio millennio. Associarsi ad un producer di alto profilo è una mossa che dimostra l’apprezzamento riscosso da Burial, che nel 2009 ha uno status immacolato e un mondo di hype intorno a sé. I due brani di Moth / Wolf Cub sembrano però dire poco sulla direzione che sta prendendo la sua creatività in questo momento, perché nello spirito e nella definizione del suono si tratta sostanzialmente di una produzione a marchio Four Tet: linee melodiche embrionali, tiepidi glitch elettronici, ritmi tarati su microbeat e svariati suonini con saltuarie apparizioni acustiche. È lo stesso mix di elementi che si ritroverà infatti in There is Love in You, che Hebden pubblicherà l’anno dopo e con cui Moth / Wolf Cub condivide la dimensione: musica carina, a tratti suggestiva, ma senza una scintilla che la renda speciale. Sul singolo c’è inoltre l’aggravante del lungo minutaggio, che mal si accorda con il microcosmo in cui sono contenuti i due brani e finisce per appesantirli. Il contributo di Burial si riconosce soprattutto nelle percussioni convulse di Wolf Cub e in alcuni ricami atmosferici, tra tenui pennellate di synth e piccoli vocalizzi; non mi sembra comunque essere nel proprio elemento, e questi due pezzi che ricevo con scarso entusiasmo li interpreto come una nota a margine nel percorso da fare insieme al “vero” Burial. 

Passano altri due anni di fiduciosa attesa e benefici riascolti prima di poter abbracciare una nuova uscita a nome Burial: è lo Street Halo EP. La prima cosa che capisco è di essermi sbagliato, di aver confuso un cambiamento per una semplice eccezione perché troppo affezionato a ciò che già conoscevo. Ascoltando i tre brani è infatti evidente come gli ultimi sviluppi della sua musica siano orientati verso un approccio più minimale, rispetto al quale la miniaturizzazione del suono già udibile su Moth / Wolf Cub, con la sua particolare attenzione alla melodia, non sembra più una mera preponderanza stilistica lato Four Tet ma rappresenta anche un nuovo interesse creativo da parte di Burial stesso. L’inedito Fostercare, pubblicato sulla raccolta 5 Years of Hyperdub qualche mese dopo il singolo congiunto, è un altro segnale in tal senso. Il mutamento più evidente ha radice nei beat, che si allontanano dal seminato della breakbeat/drum ‘n’ bass per favorire interpretazioni più sfuggenti; possono materializzarsi nello spazio di pochi kick e hi-hat che risuonano tra loro come un sonaglio di ossicini, o nel sottile guscio ritmico di schiocchi che ricordano lo scenario acqueo di Shell of Light. A tratti il supporto dei bassi contribuisce ad evocare l’incedere della 2-step, ma più che nell’hardcore continuum l’umore generale sembra spingersi verso una moderna downtempo. Anche l’atmosfera viene asciugata dall’humus di effetti e suoni a mezz’aria che percorrevano Untrue: si dissipa la foschia intorno alle melodie, ora corpose e palpabili, distese come drappi ad avvolgere i brani di malinconia; le voci mantengono un certo carattere oltreumano, ma l’eco dei richiami oracolari vive ora nella dimensione di parole dalla vicinanza calorosa. Da questo EP traspare un artista con una spiccata propensione narrativa, che cesella i dettagli del proprio sound design per creare un percorso ben preciso lungo cui orientare l’ascolto. Un cambio di scenario importante rispetto alla pura immersione nell’emotività sonora che costituiva l’esperienza totalizzante di Untrue, e non poteva essere altrimenti; anzi, è un bene che Burial non provi neanche per un attimo a replicare quella singolarità e si dedichi invece ad un’espressione diversa, più matura (con tutti i pro e i contro che ne conseguono), ma capace comunque di abbracciare le sensazioni più toccanti del “suono Burial”. La forma parla di pezzi lunghi con uno sviluppo immediatamente riconoscibile attraverso sezioni dalle caratteristiche tematiche ben definite, una musica più consequenziale e meno misteriosa ma comunque sublime: i sintetizzatori in chiaroscuro sembrano usciti da un sogno, i trattamenti vocali rimangono unici nel loro genere e ci sono anche gradite sorprese come la linea di basso infusa di funk (!) su Street Halo. Vero è che i primi due pezzi soffrono un po’ il minutaggio dilatato, mostrando sui finali una certa inerzia, come se la musica di Burial non fosse ancora allenata a svolgersi in maniera progressiva su queste distanze; è però altrettanto vero che Stolen Dog è uno dei pezzi più belli della sua intera discografia, con una melodia sospesa che potrebbe andare felicemente avanti per una vita intera e si incastra a meraviglia su un cuore ritmico sempre pulsante, mentre una selva di sample manipolati (vocali e non) disegna diverse e cangianti coloriture emozionali. 

Ascoltando l’EP mi proietto in un mondo in cui Burial fa uscire nuova musica ogni due-tre anni, centellinata ma preziosa, ogni volta leggermente diversa eppure legata a quella formula magica che inevitabilmente mi inonda di dopamina; mi immagino nel frattempo a ripassare con la tenerezza degli ascolti l’enorme cotta per gli album senza l’assillo che ne arrivi un altro, godendomi ogni passaggio del percorso condiviso. Sento il tepore della familiarità, quel senso di completezza che c’è nell’assistere al cambiamento di qualcosa o qualcuno di molto caro senza che questo ne intacchi il legame. Allo stesso tempo, però, provo una sensazione agrodolce: che il tempo della meraviglia sia passato per lasciare il posto a quello della gratitudine; che dopo essere stato travolto dal sentimento, ora la speranza e l’impegno saranno assorbite nel preservarlo. Pensieri di chi non ha ancora capito quanto sa essere caparbio l’amore, che sta preparando i suoi prossimi assalti; le mie difese sono già schierate per soccombere. 

[qui la seconda parte]


[1] Si tratta di un suono la cui presenza è pervasiva in tutte le forme della musica dub, ma è particolarmente evidente all’inizio di questo gran pezzo (per cui devo ringraziare l’utente damascus_rose, che l’ha indicato in un subreddit dedicato a Burial). 

[2] “If you alone could hear someone upset on the other side of the world, then maybe then you could do something about it. I was once in these mountains, you’d see these fires, other people sleeping out in the mountains, traders across the border, and that gives you this feeling, night time, awareness of other people sleeping. But all it is just a fire light. You see their firelight and you know they are there, that’s all you need. That’s what ties cities to places that aren’t together, deserts, forests, people. You watch over your city or area at night, you see the distant lights, fires burning in other places.”, dirà Burial stesso. 

[3] Per una lettura più approfondita sul legame tra l’identità di Burial e la sua estetica musicale: https://iris.unito.it/retrieve/e27ce430-e618-2581-e053-d805fe0acbaa/Marino_2017_Mad_Dogs_%28Un%29masked_Bard_Burial.pdf

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Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto