WIEGEDOOD vs SHAPESHIFTER

NON ASCOLTATE THERE’S ALWAYS BLOOD AT THE END OF THE ROAD

Century Media

2022

Black Metal

Per essere nati come un side-project degli Oathbreaker, i Wiegedood si sono costruiti un percorso stabile e costante: il primo album a loro nome, dedicato al ricordo di un amico deceduto, si è evoluto in una trilogia commemorativa di impronta cascadian. Esaurito quel percorso artistico e dopo essersi fatti un nome, i Wiegedood che si propongono ora con There’s Always Blood at the End of the Road sono spogliati di qualunque velleità atmosferica e cercano un assalto sonoro secondo coordinate black metal più classiche, sporcate rumorosamente dall’attitudine crust del gruppo di origine. Leggendo un po’ in giro le recensioni (tutte positive) degli ambienti specializzati in musica metal, non sono pochi quelli che salutano questo cambio di stile come un segnale di integrità rispetto ai tentativi di apertura degli stilemi black ad altri stili compositivi o generi musicali: come se l’innovazione attraverso la contaminazione fosse un trucco da prestigiatori e il peso specifico delle band si valutasse in base a quanto riescono a variare la formula senza spostarla dal proprio nucleo di riconoscibilità. E quindi, cosa portano in tavola questi belgi? Rigida divisione strutturale tra riff in tremolo a macinare le esposizioni tematiche e parti in palm-muting a spezzare; parti vocali con scream sempre uguale a se stesso a prescindere dallo sviluppo del pezzo; brani che nel 70% dei casi trovano una combinazione tra riff e ritmo, la tengono per un minuto, poi la cambiano (se la cambiano), la tengono per un altro minuto e così via. Alcuni di questi incastri sono particolarmente azzeccati e godibili, come il riffone war metal distorto che apre il disco su FN SCAR 16 o la melodia che emerge tra il riffing serrato e il ritmo arrembante di Until it is Not, ma l’eccessiva ripetizione finisce alla lunga per sbiadirli. Certo non aiuta che questo problema si presenti con massima evidenza nel pezzo più lungo del disco, l’unico con un’apprezzabile varietà vocale data dalla presenza di un canto armonico molto in sintonia con l’atmosfera del brano, ma gravato dalla pretenziosità di un tema scialbo che si trascina sostanzialmente invariato.

Risulta allora difficile capire dove vadano ad innovare la formula i Wiegedood, dato che ci sentiamo di non dare troppo peso a giusto un paio di code strumentali di noise alla The Body e un interludio prescindibile con campionamento più o meno casuale di Django Reinhardt. Gruppi come gli Hexis (non esattamente il pinnacolo dell’avanguardia metal) dimostrano che anche con poche idee è possibile tirar fuori dischi coinvolgenti unendo alla compattezza del suono una varietà di soluzioni stilistiche coerenti, cosa che su There’s Always Blood at the End of the Road sembra soffocata alla nascita. Non tutto è mediocre, sia chiaro: in pezzi come Noblesse Oblige Richesse Oblige e soprattutto la bella Nuages, stratificata e ricca di sfumature nel proprio assalto all’arma bianca e nel finale sfilacciato e velenoso, il gruppo dimostra di aver qualcosa da dire quando non si accontenta della potenza di fuoco di strutture compositive che hanno quarant’anni e cerca di interpretarle secondo un’inventiva originale o quantomeno personale. I due pezzi che seguono la luce di Nuages sono però talmente dimenticabili che non serve neanche parlarne, e confermano l’impressione dei Wiegedood come onesti mestieranti black metal di cui forse si parla un po’ troppo e un po’ troppo bene.

SEPARATORE

ASCOLTATE PIUTTOSTO DARK RITUAL

(no label)

2022

Powerviolence, Grindcore

Da un disco che si sbatte parecchio per poco a uno che ci mette poco per sbatterci parecchio. La seconda pubblicazione dei Shapeshifter è davvero entusiasmante per chiunque abbia una passione per l’universo grindcore, i.e. chi sia disposto ad ascoltarsi pezzi brevi e velocissimi nonostante la scarsa qualità di registrazione li renda spesso una sessione di flagellazione uditiva. Questo perché Dark Ritual gode innanzitutto di una produzione magistrale e, oserei dire, goduriosa. Tutto suona incredibilmente FORTE mantenendo però un miracoloso equilibrio tra le componenti: le parti vocali graffiano efficacemente, la batteria martella nitida e c’è una resa potente di chitarra e basso che unisce l’abrasività della prima con il ronzare melmoso del secondo. Questo impianto permette al gruppo di giocare a carte scoperte e di far emergere la bontà dei pezzi, ma soprattutto consente di mettere in piedi uno spettacolo di rumore ad alta definizione. Sì, perché in Dark Ritual le paludi di riverberi, le frequenze taglienti, le casse che friggono non sono usati come nota di colore bensì sono tra i protagonisti principali. Tutto l’album è parassitato da momenti in cui il rumore si fagocita tutto e si struttura con lacerante lucidità, al punto da trasmettere l’impressione che i momenti in cui l’intera band pesta duro siano partoriti dai fendenti noise piuttosto che il contrario. In questo risiede probabilmente il rituale oscuro che dà il titolo: far convivere l’estremizzazione della musica chitarra-basso-batteria con la sua negazione sonora.

E l’estremizzazione qui è molto convincente. Gli Shapeshifter sanno condensare vari registri in poco minutaggio, con continui cambi di tempo di scuola powerviolence (guidati dal poderoso batterista Kou Nakagawa) che non si fanno problemi a sporcarsi le mani in rallentamenti sludge o addirittura in clangori stoner (Hollow), improvvisi riff death (!) lanciati nel buio mentre altrove sorgono D-beat trascinanti con melodie scorticate. Tutto quanto descritto finora fa sì che l’album eviti da subito la frammentarietà da effetto macelleria e si configuri invece come un flusso intenso e tiratissimo dove non c’è un passaggio a vuoto e ogni sviluppo aumenta l’appetito per il successivo. Certo, nella frenesia alcune buone idee finiscono forse per essere sacrificate un po’ troppo in fretta (Rust); ma non c’è certo penuria. Prima del finale si può godere di una perla come Abortive Flower, sludge dal ritmo cangiante segnato ciclicamente da un giro di chitarra lento e urticante che si sfrangia sfinito dopo un finale metalcore sulla scia dei migliori Every Time I Die — seguita subito dopo da una tiratissima cavalcata powergrind con bordate di rumore nel caso avessimo smesso per un attimo di digrignare i denti. Dark Ritual è insomma una buonissima ragione per concedersi al tinnito.

Condividi questo articolo:
Roberto Perissinotto
Roberto Perissinotto