WHAT’S IN MY BAG? – JACOPO

È estate, siamo in vacanza e quindi non vogliamo impegnarci. Queste riflessioni estemporanee costeggiano le nostre esperienze in questo agosto lontano dagli schermi, ogni settimana dalla testa di un redattore diverso. Buona lettura e grazie di continuare a sopportarci anche dai mari e dai monti che state calcando in questi giorni, fregandovene della vita che facevate e di quella che farete.

SEPARATORE

Agosto è solitamente un mese in cui stacco la spina e mi dedico ad altro. L’ascolto compulsivo e bulimico di dischi che caratterizza il resto dell’anno viene sostituito generalmente da serate con gli amici, mattine passate tra Settimana Enigmistica e libri totalmente inappropriati agli ombrelloni e ore inesistenti tra un pasto e l’altro dove mi rendo conto di essere in grado di viaggiare nel tempo quando mi stendo sul divano.

Soltanto qualche giorno fa ricorreva il trentesimo anniversario della scomparsa di John Cage, forse la figura più totalizzante della musica classica del secondo Novecento e autore dell’aforisma secondo cui la musica è ovunque: chiaro, Cage parlava di come il rumore delle città e delle foglie al vento e gli uccelli e tutte quelle altre stronzate rappresentassero una “musica” inevitabile e io no. Quella di cui sto parlando è musica man-made, volontaria, organizzata, e nonostante tutto ineluttabile nella sua presenza al di fuori delle proprie scelte, che risuona nell’autoradio e nello chalet, dentro ai negozi e fuori dagli altoparlanti dei ragazzini. L’inferno è uno stereo in lontananza che manda a ripetizione i Red Hot Chili Peppers, diceva Nick Cave molto tempo fa. Magari, dico io.

Vabbè, comunque prima che finisca a fare del gratuito boomerismo è tempo che mi metta a descrivere brevemente quel poco che sono riuscito ad ascoltare di mia volontà, in quei brevi spazi interstiziali a metà tra la morte e il nulla che sono la spiaggia o la casa. L’ascolto attento, quello integrale e senza pause o attività collaterali a minarne la religiosa santità, diventa sempre più capillarmente raro; e l’unica conseguenza logica è quindi una scelta praticamente obbligata, ovvero mandare in heavy rotation soprattutto dischi di cui riesco già a ricordare vividamente il sapore, tracce che posso apprezzare per minuscoli e inaspettati dettagli piuttosto che per abbacinanti e rivelatrici visioni d’insieme. In ogni caso, questo non vuol dire che abbandoni del tutto la necessità di infilare un nuovo ascolto tra un classico e l’altro: questo tempo parziale e sconnesso è stato già utilizzato anche per recuperare le novità dell’anno che hanno già soddisfatto i sodali, oppure per dedicarsi a scoperte avventurose che, come al solito, la maggior parte del tempo lasciano il tempo che trovano.

PETER GABRIEL – PETER GABRIEL (SECURITY)

La voglia di ripercorrere il percorso intrapreso dal leader dei Genesis una volta intuito che forse continuare con il prog non si sarebbe dimostrata una scelta furbissima ha ricevuto una spinta decisiva da niente di meno che quel pezzo di merda di Harry Styles. Quella sua Music for Sushi Restaurants che oramai viene sentita ovunque su internet è, a quanto pare, un diretto omaggio a un pezzo grandioso come Sledgehammer, e naturalmente io mi sono detto: “ma non è possibile che uno possa essere così stupido”. Ma So io lo conosco a memoria sul serio dall’inizio alla fine, ce l’ho pure in vinile, e non volevo stare ad occupare spazio risentendo un disco che posso ascoltare in qualsiasi momento voglia nella mia testa: ho quindi controllato nell’hard disk per essere sicuro di vedere quale dei quattro dischi eponimi di Gabriel pubblicati tra il 1977 e il 1982 ricordassi di meno. La scelta è ricaduta su Security, di cui francamente ricordavo forse a malapena Shock the Monkey; è impressionante notare come il disco abbia così tanti umori differenti da una hit come quella appena citata da offrire. Non c’è da stupirsi, sentendo un pezzo come The Family and the Fishing Net, che persino i Primus si siano dedicati a farne una cover; e i suoi momenti più cupi, come anche quelli di Lay Your Hands on Me, fanno capire come Gabriel avesse acutamente captato la raison d’être di un certo post-punk (o new wave che dir si voglia) oramai inevitabilmente orientato verso il quartomondismo spicciolo. Nonostante tutto, la coralità e il respiro genuinamente positivo e uplifting del disco riescono a evitare lo schiacciamento dei pezzi in una bidimensionalità che sembrava invece piagare tante uscite simili di quel periodo. Questo perché Peter Gabriel è un genio, e in culo a Harry Styles.

DEATH – SPIRITUAL HEALING

Maledetto Spotify che fa mettere solo l’edizione con tutti i brani dei rehearsals.

Questa sessione di riascolti è stata caratterizzata in modo particolare dalla ricerca di punti della mia collezione di album che avevo messo da parte perché consideravo come momenti infelici o passabili rispetto a episodi gloriosi di discografie di artisti che adoro. Spiritual Healing è l’esempio perfetto di questa voglia di andare a ripescare nella sfiga: considerato generalmente l’album meno significativo dell’intera carriera dei Death, è indubbio che davanti a lavori anche solo del calibro di Scream Bloody Gore o di Leprosy questo disco di totale transizione sparisca persino nella memoria dei fan più appassionati. Eppure…

Eppure Spiritual Healing risulta ancora più affascinante in virtù della sua condizione di esperimento riuscito a metà: i momenti di stupore vengono suscitati già solo dalla line-up, dove il ruolo di lead guitarist è condiviso tra Schuldiner e James Murphy, che di lì a un paio di anni avrebbe registrato il debutto dei Gorguts, Cause of Death degli Obituary, per poi entrare qualche anno più tardi nei Testament. Un curriculum niente male per uno che dovrà essere sostituito solo un anno dopo da un altro gigante come Paul Masvidal; la sua impronta è ben visibile nel modo in cui i suoni delle chitarre soliste vengono impostati, le progressioni ragionate attentamente. Parlando di progressioni: è impossibile non notare come Spiritual Healing rappresenti un momento cruciale nell’opera di scrittura di Schuldiner. Abbandonata la vena da macellaio che aveva contraddistinto i primi due full-length della sua band, qui i Death provano a distanziarsi ulteriormente dal filone brutale tutto a duecento all’ora mutuato dagli Slayer inserendo midtempo con riff obliqui, rallentamenti quasi doom… Per carità, non è tutto oro: il finale di Defensive Personalities è tanto canticchiabile quanto banalotto nella sua evoluzione, e i testi di Spiritual Healing, con la loro incensurata denuncia dei mali della società, non reggono nemmeno la candela all’oscenità grottesca di Leprosy o alle riflessioni metafisiche di dischi successivi come Human e Symbolic. Tuttavia, è indubbio che chiunque abbia messo su nel 1990 il CD di quella che fino ad allora era stata soltanto una promettente band metal abbia dovuto ricalibrare il proprio paradigma. Spiritual Healing, in questo senso, è l’ultima lotta di Ercole prima dell’Olimpo, e sono contento di aver avuto l’opportunità di rivisitarla.

JOHN CAGE – IMAGINARY LANDSCAPES

Ve l’aspettavate, non è vero?

Parliamoci chiaro: alla fine, non è tutto importante e definitivo. Molte cose accadono in maniera accidentale, indeterminata. Anzi.

La catena causale delle cose del mondo è per certi versi simile al fenomeno della pareidolia, in quanto il suo fondamento è solamente un’illusione generata da un singolo atto di volontà dell’individuo : ma tutti gli anelli della catena sono tra di loro intessuti da relazioni seminascoste, oscure, la cui forma non è mai pienamente definita. Anzi.

La possibilità di un’esistenza è determinata soltanto dal vuoto che esiste attorno ad essa: il vuoto, il nulla, il non-esistere è diverso dall’esperienza della fine. Dove la fine del ciclo rappresenta solo un ultimo passo prima del ricominciare, il niente è solamente una mancanza, uno sconvolgente abisso in cui solamente il tempo ha il privilegio di esistere. Anzi.

Le gocce d’acqua cadono lentamente, stancamente: poi, la pioggia si intensifica, tocca la sabbia, la terra, il cemento, le piante, le teste. Anche questa estate sta finendo e io sono qui, scrivendo di John Cage, provando in ogni modo ad eludere la conversazione su questi suoni indistinti che si mescolano si fondono si accavallano si sovrappongono si oltrepassano si incrociano si disturbano si alternano si disintegrano si trasformano si. Anzi.

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala