VIDEO GAME MUSIC

Le riviste di musica, che siano più o meno note, tendono settimana per settimana a spellarsi le mani su uscite che sanno di vecchio, qualche diamante grezzo ben promettente, tanta – tantissima – spazzatura da promuovere per mantenere questo cadavere dell’industria culturale non dico pulsante ma almeno strisciante. Ci si prova, ci si riesce, spesse volte è necessario ricorrere a qualche piccolo ampliamento di campionario per riempire una classifica, un disco del giorno, un ricordo e così via: e quindi andiamo a raccontare i live, i remaster, recensire libri scritti da altra gente che parla di musica, andiamo a parlare di colonne sonore di film che non sono nemmeno per forza d’autore, tutto fa brodo e – sinceramente – è anche giusto così. Parliamo di prodotti, parliamo d’arte, parliamo parliamo parliamo: quando va bene cogliamo nel segno, quando va male qualcuno ci prende in giro e bravi tutti. 

C’è una categoria dell’industria culturale che è, però, gravemente sottorappresentata. Una categoria che è normalmente già piuttosto ghettizzata dentro alle quattro mura della banlieue dei suoi aficionados, fiorente nella sua galassia di podcast d’opinione, lunghissimi video-essay che sembrano girati da Guy Ritchie, hackaton, jam, gruppi Telegram, fandom – ma anche una categoria che è rappresentatissima nel quotidiano o nella storia aneddotica di una larga maggioranza delle persone che sono cresciute e vivono in un paese occidentale. Una categoria che si è guadagnata il suo paniere di dignità (e problemi) con anni e anni di faticoso scontro col pregiudizio e che quasi nessuna testata generalista è capace di rappresentare con fedeltà e rispetto. Se non avete le pietre in testa e siete capaci di leggere un titolo avrete già capito da una ventina di righe che sto parlando della categoria dei videogiochi, partendo dal senso latissimo del termine. 

Proviamo a fare un ulteriore salto di tematica, però. Mettiamo in tasca il palcoscenico di specificità di come i videogiochi vengono trattati in quanto arte nella stampa generale. Siamo su Livore – critica musicale, senza anestesia -, parliamo di critica e giornalismo musicale. Se abbiamo preso atto che il rapporto della stampa generalista con il medium del videogioco è conflittuale e spesso paternalistico, non abbiamo ancora centrato il punto che ha generato l’idea di questo articolo: per il giornalismo musicale i videogiochi non esistono. Non esistono. Disasterpeace scrive la colonna sonora del grazioso film horror It Follows? 7.3 di Pitchfork. Disasterpeace scrive la colonna sonora del seminale e celeberrimo FEZ? Ne sentiamo parlare forse su Kotaku. Scusa?

Eppure, per tutta una lunga lista di specificità che cercherò di esaurire oggi, la musica che fa da colonna sonora ai videogiochi è veramente importante, nel contesto in cui ad oggi viviamo. Per la qualità del lavoro che c’è alla base, per il modo in cui viene fruita, per la generazione di artisti che ci circondano, per i loro strumenti e per i loro limiti. Mai un fallout così capace di sconvolgere l’orizzonte del fare musica è stato ignorato con questa metodica e imbarazzante omertà, just because. Solo perché i lettori della rivista riescono a farsi belli con la pallida musica cinematica di Sacred Bones, ma non sanno come tribalizzare un Super Mario senza fare la figura dei coglioni con la collezione di funko pop. 

Urge un’operazione di fortissima rivalutazione della video game music come mezzo artistico, non solo dalle community di appassionati di videogiochi: questo articolo, non volendo sbilanciarsi nel tracciare una storia monografica del mezzo espressivo (complessa, articolata, non unicamente afferente al mio campo), nasce proprio con l’obiettivo di dare valore critico a quella che reputo essere una delle forme di musica che nel contemporaneo ha dato di più a quello che ascolto e che è destinata, per un verso o per l’altro, a continuare ad essere molto influente di generazione in generazione. Video Game Music, il termine ombrello che uso (e che si usa) per descrivere il brulicante microverso i cui dischi sono accomunati unicamente dall’avere quel laborioso ruolo di colonna sonora. Per una volta, cristo, parliamone. 

Due, brevi, pillole di storia per contestualizzare e facilitare la lettura. Anni ‘80, arcade, cabinati, Pacman, Frogger. La primissima manifestazione registrata di sonoro all’interno di un videogioco parrebbe la quattro note di Space Invaders, ma ci interessa poco: ci interessa, invece, sapere che nei primi anni ‘80 (e successivamente, a seconda della piattaforma su cui si gioca) tutta la musica che può essere riprodotta da un sistema di intrattenimento è dipendente da degli specifici chip sonori che sintetizzano suoni in tempo reale, ognuno contenente pochi canali (quello del NES ne aveva cinque), ognuno capace di sintetizzare non più di un suono-timbro differente. Tutta la musica che afferisce a quest’epoca è quella che oggi chiamiamo Chiptune, che prende a piene mani dall’epoca in cui le console avevano CPU a 8-bit (da qui la sineddoche con un altro modo di chiamare la chiptune, 8-bit, per l’appunto): potete facilmente distinguere l’interplay tra i due canali di Dig Dug con un veloce ascolto, che ricamavano comunque abbastanza spazio per entrare nella leggenda con dieci secondi di tema. Tutte le sale giochi dell’epoca hanno avuto la fortuna di venire a contatto con la nobiltà della chiptune, che nel corso dei primi anni ‘80 faceva risuonare interpretazioni riduzionistiche della Yellow Magic Orchestra e caroselli jazz-pop particolarmente dopaminici. Le colonne sonore del Game Boy, per chi non ricorda nessuna epoca arcade, afferiscono a questa categoria: un chip da quattro canali, distinguibili con un po’ di sforzo ascoltando i gameplay di giochi come l’indimenticabile platform di Tazmania o l’aggressivo Solar Striker. Intorno al 1983 Yamaha riesce a commercializzare alcuni chip che si avvalgono della sintesi a modulazione di frequenza (FM Synthesis), una tecnica di sintesi capace di produrre suoni più complessi dei chip di vecchia generazione che erano limitati a onde sonore e timbri più semplici. Un avanzamento tecnologico che permette di sintetizzare un brano dinamico come la Toccata e Fuga in Re Minore di Bach senza perderne le principali componenti espressive e che, togliendo le catene dei precedenti timbri grossolani, aumenta la rotondità e ascoltabilità della musica videoludica: basti ascoltare le colonne sonore di Marble Madness o The Revenge of the Shinobi per farsi un’idea del cambiamento. Molti chip che fanno uso di sintesi FM sono stati parte (insieme ad altri strumenti di campionamento) dell’armamentario principale delle console che montavano una CPU da 16-bit, quindi è facile che ad ascoltare alcuni dei brani che ho linkato qui sopra vi possano venire in mente le colonne sonore che fioccavano da SNES e Mega Drive. (Non approfondisco per mancanza di tempo la differenza tra la sintesi FM e le tecniche di sintesi del MOS SID montati sui Commodore ma vi devo rimandare alla meravigliosa raccolta Sid Chip Sounds che dimostra di quanti capolavori musicali quella console sia stata responsabile). Se siete interessati alla sintesi FM un bellissimo articolo lo trovate a questo indirizzo. Ultimo tassello: verso la fine degli anni ‘80 Amiga rilasciò il suo Ultimate Soundtracker, primo di una lunga generazione di software (appunto, i Tracker) capaci di sfruttare i chip audio delle console e dei computer per costruire campionamenti e simulare strumenti, voci, e quant’altro in formato MIDI. È l’ultimo passaggio prima degli avanzamenti tecnologici che hanno permesso alle console e ai PC di far girare i file audio nello stesso formato con cui oggi ascoltiamo la musica, ma è significativo: la musica generata con i tracker può essere di tante forme e dimensioni, ma la sua forma più prototipica è quello strano middle ground tra orchestrale e digitale che possiamo ascoltare in alcuni giochi del GBA (Golden Sun, Advance Wars) o della PlayStation 1 (Symphony of the Night, Parasite Eve). A partire dalla sesta generazione di console possiamo dire, ragionando a grandi linee, che le colonne sonore dei videogiochi smettono di essere un genere a sé stante, si spogliano delle limitazioni hardware, e cominciano invece ad assumere ognuna la posa di un diverso genere di musica già esistente, che può essere la dark ambient, il metal, la musica cinematografica, il funk-jazz e così via. L’epoca più caratteristica (che comprende gli anni ‘80 e ‘90) è andata, ma oramai l’arte di associare brani musicali a scenari videoludici si è già sedimentata nel suo stile e nel suo impatto in milioni di individui e centinaia di artisti e appassionati. Eppure per tutto il corso di questa storia durata mezzo secolo è sempre sembrato che tutto ciò che viene dal contesto del videogioco sia poco più che un orpello da collector’s edition, qualcosa che sta bene dove sta. Sembra che la video game music altro non sia che un pugno di note ben nascoste dentro a un contenitore ermetico, a compartimento stagno, a farsi forte del suo unico ruolo ancillare al gameplay. Sembra, appunto: le cose non stanno così, non sono mai state così, mai come oggi stanno in un altro modo. 

Nel suo primo anno di vita (2001-2002), Final Fantasy X ha venduto circa cinque milioni di copie in tutto il mondo. Nello stesso lasso di tempo Hybrid Theory, il disco più venduto di quell’anno al mondo, ha venduto più o meno la stessa cifra di copie. Il primo dura 50 ore (metrica computata sulla sola storia principale), il secondo 37 minuti e 45 secondi: arrivare allo staff roll di Final Fantasy X è un’impresa che si affronta nello stesso tempo che ci vorrebbe ad ascoltare Hybrid Theory circa 81 volte. Mentre arrivo al punto tenete presente queste statistiche. 

Qualche mese fa stavamo proprio ragionando con David ed Emanuele su di un brano (che in questo momento non mi torna in mente) che sembrava un po’ fare il verso all’iconica Song of Prayer di Final Fantasy X, e ci si stava interrogando su quanto fosse un nostro abbaglio o un effettivo riferimento del disco che non era il caso di perdere. Ricordo vagamente di aver confrontato David su questo argomento cercando di dissuaderlo dall’idea che l’artista potesse stare richiamando direttamente la serie Final Fantasy e che magari quel momento corale derivava da qualche altra, più affermata e storica, forma di musica monodica – banalmente, un canto gregoriano. Di primo impatto mi sembrava veramente assurdo che una band qualunque, senza alcun legame e nessuna posa geek, avesse preso in mano e citato un pezzo che si è cementato nella mia memoria tramite una PlayStation 2. Mi sembrava wishful thinking, riportare tutto alla mia esperienza. Poi Emanuele mi ha fatto notare che gli artisti (americani) erano nati nella prima metà degli anni ‘90 e che le probabilità che avessero un fetish per il Graduale Triplex erano drammaticamente più basse delle probabilità che avessero evocato un Bahamut qualunque in un giovedì pomeriggio dopo scuola. Cazzo! Zoom out. È il 2024, Dig Dug è del 1982, questo vuol dire – con una stima piuttosto obiettiva – che una quantità non indifferente di artisti che ascoltiamo nel nostro quotidiano ha sicuramente un priming di qualche tipo con un tema di un videogioco che ha ascoltato centinaia e centinaia di volte nei suoi primi dieci, venti, trenta, quaranta anni di vita. C’è da dire che non c’è bisogno di fare melina su queste spiagge dell’inconscio per prendere atto di quanto la musica videoludica sia stata di ispirazione per gli artisti degli ultimi anni: lungi dal limitarsi alle pose più nerdish (negli anni ‘90 abbiamo avuto la digital hardcore degli Atari Teenage Riot, negli anni ‘00 tutta quella chiptune da battaglia che ho già coperto parlando di Emma Essex), oggi i musicisti che citano più o meno velatamente i temi iconici dei videogiochi con cui si sono confrontati sono tanti. Non sarebbe un passo falso sostenere che nella maggioranza dei dischi in cui interviene un computer si possono riscontrare gli echi dei synth che hanno avuto nell’epoca 16-bit i loro più grandi sfoghi creativi, la strana musicalità dei glitch delle prime generazioni videoludiche costella l’elettronica sin dai primi vagiti dell’IDM, le pacchiane derivazioni estreme come il dungeon synth e il nintendocore sono all’ordine del giorno, tutte le tendenze retromaniache suffissate wave hanno fatto leva su una nostalgia cibernetica in cui i videogiochi hanno spesso fatto la parte del leone. Ma non è tutto: gli strumenti e i timbri specifici della video game music sono, al contrario di come accade in molte altre correnti musicali, una parte molto minoritaria dell’impatto che il genere ha avuto sui performer da esso arricchiti. Torniamo al punto di Final Fantasy X, di Hybrid Theory, della Song of Prayer. La video game music deve fornire, da contratto, un campionario di temi eminentemente iconici, con un replay value altissimo per favorire il loro ascolto in loop, con delle melodie attraenti e possibilmente indimenticabili (altrimenti il giocatore stacca l’audio) – e che dal giocatore vengono ascoltati una marea di volte.

Questa circostanza porta a una voglia spasmodica da parte degli artisti affezionati al videogioco di ricostruire quei temi, remixarli, farne delle versioni orchestrali, metal, rock, lo-fi. Fare un video di un’ora con quel tema in loop e il rumore della pioggia. Insomma: far rimbalzare da tutte le parti quella melodia così tanto iconica – e così tanto cliccata da tutti quanti. È un modo di fare che ha una sua legittimità anche dal punto di vista delle aziende che detengono i brand di quella musica (basti vedere Distant Worlds, o il bel Concerto per il 25esimo anniversario di The Legend of Zelda), ma la diffusione dei temi più amati esplode esponenzialmente grazie alle possibilità offerte da piattaforme come youtube. In questo momento una qualunque Persona 5 – Beneath the Mask – Rainy Mood – 10 Hours conta più di dieci milioni di visualizzazioni, a fronte di migliaia di video, playlist, radio dello stesso tipo che fanno numeri simili. (Wouldn’t It Be Nice dei Beach Boys ne conta 11, for reference). 

Il fascino di queste soundtrack, l’iconicità coatta dei singoli temi, il dato generazionale che ci dice che oramai moltissimi musicisti hanno quest’esperienza nel loro vissuto, forse anche il sempre crescente interesse per l’elettronica ci danno una misura di quanto effettivamente la video game music abbia avuto o abbia ancora un molto concreto impatto nella vita di svariati musicisti con cui ci confrontiamo nel nostro percorso. Possiamo dire che questo sia un dato. Ma noi non facciamo gli storici della musica, siamo critici e giornalisti. Il nostro giudizio di valore su di un pezzo musicale dipende solo in parte da quanto a posteriori sia stato capace di generare onde e tempeste nella macrostoria della cultura umana – della cultura umana che passa nella coclea. Non mi sarei speso nella stesura di questo longform se non ci fosse stato di più. C’è di più.

La musica che fa da colonna sonora ai videogiochi è un genere veramente splendido. Il suo principale ruolo è quello di supporto a un prodotto che non è solamente auditivo, ma le sue specificità, diverse da quelle di qualsiasi altra colonna sonora, permettono a questo genere di spalleggiare quando non superare l’effettiva produzione culturale che viene dall’industria strettamente musicale, da cui otteniamo la schiacciante maggioranza dei prodotti che poi compongono il nostro pantheon di ascoltatori, anno dopo anno. Mi spiego.

Come abbiamo già osservato, la radice storica della video game music è situata in un’epoca in cui era impossibile fornire tridimensionalità ad un prodotto che si avvaleva di pochi suoni prefissati e di quattro canali audio alla volta: allo stesso tempo era già necessario che i temi e le evoluzioni su quei temi fossero abbastanza infectious da tenere i ragazzi davanti al cabinato (prima) o alla console (poi). È dato di fatto che molti compositori della prima ora furono costretti ad adottare tutta una serie di trucchetti e accorgimenti melodici per riempire questo vuoto di arrangiamento – gli stessi, complessi telai che venivano usati in epoca barocca per mascherare l’assenza di dinamismo del clavicembalo, uno degli indiscussi protagonisti del periodo. È quindi già a monte che la musica videoludica si dispone come uno strutturato miscuglio di complessità e semplicità – spesso laboriosa nella scrittura, spesso indimenticabile nell’espressività: non sono caratteristiche casuali del genere, sono proprio un sine qua non che dagli anni ‘80 ha impresso carattere a tutta quanta la slavina i cui risultati vediamo oggi a valle. Basta farsi un giro dentro la colonna sonora di Silver Surfer o nei bits delle sequenze di Galaga per rendersi conto di quanto ogni secondo fosse modulato su una complessità che nella musica popolare in quel periodo aveva rivali solo nel prog e in certo metal. Allo stesso tempo basta adocchiare il tema di Mother o quello di Metroid per rendersi conto di quanto vibranti e strazianti poche note di quei chip potevano apparire a chi andava al title screen. È inevitabile che il mestiere di scrittore per una colonna sonora di un videogioco divenisse ben più impegnativo e delicato che quello più blasonato di compositore per colonne sonore cinematografiche, e così la cultura della complessità è sopravvissuta alle nuove tecnologie. I compositori di video game music non hanno sfruttato le nuove armi dell’arsenale per semplificarsi il lavoro: oramai quello della grandezza melodica era diventato un gusto acquisito del pubblico, tardi per tornare sui propri passi. Indifferente se con gli strumenti in MIDI o se con le orchestre registrate, tante colonne sonore di epoca più moderna, dalla seconda metà degli anni 2000 in poi, sono state circondate da stimoli a fare di meglio. Da un lato l’ingombrante passato della chiptune con cui fare i conti, dall’altro le grandi case (penso principalmente a Sony e Nintendo) pronte a riciclare e riadattare vecchi brand (e con essi i loro vecchi temi), dall’altro ancora l’emergenza di una classe di videogiochi retromaniaci che volevano confrontarsi direttamente con le ere a 8 e 16 bit e che, presentando ogni comparto in una versione augmented, hanno riempito dai tempi di Cave Story l’universo indie di materiale sonoro di qualità eccezionale. 

È anche una nicchia molto particolare. I videogiochi, di per sé, sono – ancora – un’arte di frontiera e, in quanto tale, hanno quel particolare brusio di circlejerking che caratterizza le frontiere: le opere parlano in continuazione di altre opere. Interi generi di videogiochi hanno il nome dei videogiochi a cui si rifanno, gli occhiolini a questo o quell’altro franchise si sprecano, c’è un dialogo diacronico costante e profondo, che si riflette anche in come le colonne sonore interagiscono a distanza tra loro. Non è difficile mettere dai due lati dello specchio il tema di Aurora di Child of Light e la ninnananna di Zelda, l’epico tema del primo Worms e i fiati in MIDI di Golden Sun, la club music di Katana ZERO e i brani di M.O.O.N per Hotline Miami. Ma non si tratta nemmeno di singoli temi che si scambiano i posti a distanza di anni, la ratio di come un videogioco funziona vuole che queste colonne sonore si siano sviluppate anche seguendo logiche interne e facendo dei brani di genere all’interno della stessa colonna sonora, sviluppando lunghi filoni che vanno dagli anni ‘80 fino ad oggi di livelli sott’acqua, colonne sonore desertiche, battle theme per i JRPG, e chi più ne ha più ne metta. Tutte queste specificità vengono coltivate, ovviamente, all’ombra di quella complessità e semplicità di cui ho parlato più sopra, dando vita a un’espansione costante e super affascinante di modi di scrittura che si confrontano prendendosi a schiaffi e schizzi dalle spalle dei giganti come quando si fa la lotta a mare. C’è spazio per coniare da zero una terminologia dedicata come per le forme compositive in classica o per le tecniche dell’hip-hop. 

L’arena della video game music, nonostante tutte queste caratteristiche, è rimasta negli anni nel sidecar di quella dei videogiochi. A mio parere bisogna essere ignoranti o cecati per continuare a vederla in questo modo, anche considerando quanto l’arte videoludica è da qualche anno nel suo periodo più vulcanico. Oppure bisogna non voler passare per degli enormi sfigati, problema che io come sapete non mi pongo. Quel che so è che viviamo bombardati da uscite che su Steam sono taggate Colonna Sonora Straordinaria™ e che di questa cosa se ne accorgono solo i videogiocatori. Spreco: l’industria videoludica è capace di stupire a quarant’anni di distanza dai suoi albori, ogni genere di ambiance o di tema ha tutte le motivazioni del caso per provare a fare di meglio dei suoi predecessori, spesse volte le OST dei videogiochi possono fare le fighe in classifica al fianco di musica che, senza esagerare, è svariate volte: 1. Meno ragionata 2. Meno espressiva 3. Meno curata 4. Meno indipendente. A volte i compositori sono gli stessi che l’anno prima e l’anno dopo hanno cacciato un disco che è stato apprezzato a destra e a manca: è il caso dei Machine Girl, che un paio d’anni fa hanno pubblicato la soundtrack di Neon White, criminalmente sottovalutata da tutta quanta la stessa critica che ha applaudito per WLFGRL o …Because. Vorrei chiudere questa mia appassionata apologia del genere con alcuni di questi esempi, evitando di scadere nel banale: le soundtrack dei vari Celeste, Persona, UNDERTALE, Disco Elysium, OMORI, Jet Set Radio, The World Ends With You, Bastion, Journey e tittiritì potete agilmente ricavarle da soli e da sole. Per lo stesso motivo eviterò di parlare di tutti i franchise più sputtanati, dai Pokémon a Donkey Kong, da Final Fantasy a Castlevania – se volete qualche consiglio specifico scriveteci in pagina e mi metto al timone, vi rispondo. 

Martin Galway – Times of Lore (1998)

La soundtrack di Times of Lore, videogioco di ruolo uscito per svariate piattaforme verso la fine degli anni ‘80, è un esempio brillante di quanta cura ci fosse nel dettaglio in un’epoca di chiptune a pochi canali. Una semplice raccolta di 5-6 temi dall’andamento contrappuntistico, materiale che doveva bastare per un paio d’ore di gioco (e possibilmente di replay). Galway è un peso massimo, qua già carico di un curriculum abnorme (una ventina di titoli tra cui l’imponentissimo Arkanoid, Parallax, Terra Cresta), mette al servizio il suo savoir faire per creare delle semplici ed efficace armonie che colpiscono diretto tanto nel tema dell’overworld che in quello degli interni, quest’ultimo con la parvenza di essere uscito direttamente da L’arte della Fuga. Un ascolto breve, ma bellissimo.

Tim Follin – Solstice (1990)

Tim Follin è stato al lavoro dietro alle colonne sonore di mostri della storia dei videogiochi come Bubble Bobble, Gauntlet IIIe Ghouls ‘n Ghosts, ma qui vorrei spendere un paio di parole per il puzzle game isometrico Solstice, uscito su NES nel 1990. Le bordate di sintetizzatore che si sentono in Solstice sembrano in retrospettiva provenire da certi lavori di hyperpop che fanno capolino nel contemporaneo, ma la cosa più affascinante del lavoro di Follin è il suo incredibile approccio polimorfo ai temi, che attorno a un tema centrale costruiscono brevi break di venti o trenta secondi con una tessellata soluzione di continuità. Anche qui la soundtrack è brevissima, ma privarsi del tema principale o del title screen sarebbe una bestialità.

Norio Hanzawa – Gunstar Heroes (1993)

Alziamo decisamente la complessità facendo un salto avanti di qualche anno e presentandovi la soundtrack di Gunstar Heroes, uno dei primissimi lavori di Norio Hanzawa. Stavolta la lunghezza si avvicina al formato long play, e lo sparatutto a scorrimento può avvalersi di una ventina di temi diversi, adrenalinici, con un soundkit che mima (in una delle prime occasioni della storia) una band fusion particolarmente pesante lato synth – discostandosi dall’ombra elettropop della Yellow Magic Orchestra, il gruppo più citato nei primi anni della musica per videogiochi. La colonna sonora di Gunstar Heroes è diversificata, pesantemente influenzata da Mega Man ma allo stesso tempo più storta, zoppa, con tante scelte melodiche che giocano a sacco pieno-sacco vuoto tra i respiri delle aperture più pop e i tremori dei brani più dissonanti. 

Michael Giacchino et al. – Maui Mallard in Cold Shadow (1995)

Ci avete giocato a Paperino in Cold Shadow, in inglese Maui Mallard? Da piccolo ero ossessionato, ma gli appigli erano veramente tanti per generare questa ossessione. Paperino ninja? Count me in. Mi ha stupito tornare anni dopo ad ascoltare l’esilarante soundtrack diretta da Giacchino in persona e notare quanto questa score fosse efficace nel costruire una crasi perfetta tra la colonna sonora di un film Disney e quella di un platformer, un’impresa in cui altri famosissimi giochi SNES targati Disney (penso ad Aladdin o al Re Leone) non sono riusciti a portare a casa. Tutto questo abbarbicarsi di canali in MIDI sincopati e funky fanno giustizia in modo molto strano all’azione che vediamo dipanarsi sullo schermo, il videogioco assume una tinta hard-boiled alla Chi ha incastrato Roger Rabbit? e la musica è un veicolo molto forte di questa scelta: iconico, rilevante, di grandissima classe. 

Eriko Imura – Klonoa: Door to Phantomile (1998)

La colonna sonora del primo Klonoa è uno dei pochissimi lavori di Eriko Imura e si attesta nella zona delle soundtrack di quei videogiochi Nintendo che Door to Phantomile prova a replicare su PS1: troviamo tanto jazz sardonico e new age da N64, ma una volta scrollatici di dosso i riferimenti a cui Imura va a guardare (Kondo su tutti), i temi di questo platform a scorrimento sono abbastanza figurativi e potenti da generare un importante fattore nostalgia anche per chi a Klonoa non ci ha mai giocato (io): il valzer scomposto della Windmill Song, l’avventurosissima Baladium’s Drive, il raga rock di The Instrumentality sono tutte cose che vedremo qualche anno più avanti in giochi più in là nel tempo con The Wind Waker o Skies of Arcadia. Un ascolto splendido, importante, immancabile. 

Terry Scott Taylor – Skullmonkeys (1998)

Successore del più famoso The Neverhood, sempre curato dalla scrittura di Terry Scott Taylor, Skullmonkeys porta in mano una soundtrack avanguardistica e grottesca, il cui tema setta le aspettative tra il freak e il dark jazz. Il disco è brutalmente percussivo, si avvale di quella ritmica d’assedio che dopava le band swing come fosse stato arrangiato da Jim Mundy, ma allo stesso tempo tiene i toni sul tribale, sul country elettrico, o sul gommoso – a dare spessore ai personaggi che popolano l’universo del videogioco. Il gioco non è piaciuto, ma non si può non dare a Skullmonkeys l’onore delle armi e un posto al fianco del suo predecessore e probabilmente di Grim Fandango, a dare aria e idee a tanti dei videogiochi che nelle epoche successive prenderanno parte alla galassia del bizzarro (dagli Psychonauts, se vogliamo restare conservativi, fino ad Hylics, per andare proprio a fanculo).

Adam Skorupa – Gorky 17/Odium (1999)

Di dark ambient, dall’horror paesano a quello cibernetico, il mondo videoludico ne ha sentita tantissima. Sono famosissimi e apprezzatissimi tanto i lavori di Akira Yamaoka su Silent Hill quanto quelli del team Randall/Djawadi/Brosius su System Shock 2. Questa sezione mi sembra una buona scusa per condividervi un vecchio lavoro del polacco Adam Skorupa, poi al lavoro sulle OST dei primi due Witcher: lo spettrale e inquietante buio sonoro della colonna sonora di Gorky 17, che si compone di impalpabili tappeti di sintetizzatori, temi agghiaccianti e occasionali urla elettroniche. Brani come Port o Museum marciano sulle stesse ritmiche ma dispensano diverse dosi di terrore, e ripensare di giocare a un titolo bio-horror del genere, da solo, di notte, è impensabile anche per il lavoro devastante di Skorupa. Che comunque ha anche scritto un pezzo per Club Penguin, quindi magari qui stava scherzando. 

MilkCan – Make it Sweet! (1999)

Make it Sweet! è letteralmente un disco pop punk/anti-folk, anche perché è la colonna sonora del rhythm game per PS1 Um Jammer Lammy, uno spin-off di (sì lo sta per dire cazzo) PaRappa The Rapper. Sarà perché siamo dentro a un videogioco e quindi la complessità rispetto ad un normale disco pop-punk aumenta esponenzialmente per ogni nota suonata, ma c’è da dire che Make it Sweet! caga in testa a sostanzialmente ogni gruppo del periodo, si mette più o meno nella lega di quello che è adesso Jeff Rosenstock ma con l’attitude dei Sex Bob-Omb, mi rendo conto che vi ho perso a PaRappa The Rapper, avete chiuso la pagina, vi siete abbonati a SentireAscoltare, quindi forse è arrivato il momento di passare alla prossima soundtrack, però almeno provate a sentirvi Fire Fire e ditemi se non sembra che ci abbia lavorato Byrne. 

Kai Rosenkranz & Björn Pankratz – Gothic (2001)

Sono affezionato alla soundtrack dell’RPG cult Gothic: è uno dei giochi della mia infanzia e adoro tuttora la sua trama e la sua atmosfera cupa, schietta, brutale. La soundtrack di Rosenkranz e Pankratz applica la lezione di Silent Hill ma anche quella delle componenti trip hop dei vari giochi Age of, ma cerca di ridurre all’osso le dinamiche per fornire una musica d’ambiente che gioca per lo più sui silenzi e su richiami spaziali, tridimensionali. I fiati sono i protagonisti dei temi di Gothic, ma appaiono di rado, come nel gioco le risorse e gli amici. Ampie cavalcate dal sapore fantasy vengono spesso passate allo spegnimoccoli e il panorama sonoro fatto di piccole percussioni, synth dissonanti, l’occasionale strumento medievale, ridimensiona tutte le prospettive e le speranze con la sua skyline brulla e terrosa. Tuttora rilevante e inquietante. 

Nobuyoshi Sano & Takayui Aihara – DRAG-ON DRAGOON (Drakengard) (2003)

Per la colonna sonora di Drakengard però, ho grande difficoltà a trattenermi in un paragrafetto. Uno dei meno famosi giochi di Yoko Taro è anche il portatore di una delle soundtrack più inconcepibili della storia della video game music. Drakengard, un titolo in cui il giocatore deve limitarsi a uccidere ondate e ondate di nemici senza vedere mai la fine di questo strazio, ha una colonna sonora che non solo rispecchia a puntino questa situazione à la Miura, ma esplode veementemente fuori dal suo ruolo di colonna sonora grazie alla sua collusione di campioni di Stravinskij, plunderphonics, orribili incubi ripetuti in serie, una lunghissima ed estenuante marcia di musica espressionista brutalizzata dalla manipolazione per nastri, un ascolto gremito di punti di interesse, a cui con tutta sincerità difficilmente la classica contemporanea dello stesso periodo di uscita del videogioco è riuscita ad arrivare. Sicuramente la soundtrack più importante di tutta questa lista, un peccato parlarne per così poco, recuperatevela immediatamente e cambiate idea su questa cosa di ignorare questo genere.

Norihiko Hibino et al. – Boktai: The Sun is In Your Hand (2003)

Il primo Boktai è uno dei giochi meno famosi di Kojima, un rivoluzionario action-RPG per Game Boy Advance che faceva uso della luce solare come meccanica in-game. La colonna sonora, scritta con tracker reminiscenti di altri RPG d’antan come i Chrono, The Secret of Mana o i Breath of Fire, qui è declinata in una versione un po’ più sci-fi, con tante perline come la riverberata e mistica traccia del Fog Castle o l’inquietante marcetta fantasmatica Dark Clouds. Ogni qualvolta Hibino decide di andare fuori strada con le melodie e addentrarsi in una dimensione più dodecafonica la scrittura di Boktai risplende, con schiaffi di orchestra stridenti e sintetizzatori a esprimere glitch truculenti che danno un tono completamente diagonale ad un’avventura che gioca in un campionato tipicamente molto più lineare. Del resto Hibino è stato il braccio destro di Kojima anche sulla composizione delle OST di Metal Gear Solid 2 e 3, non stupisce.

Masafumi Takada – killer7 (2005)

Nonostante sia estremamente famosa vale la pena menzionare la soundtrack di killer7, una delle opere più blasonate dello Takada che è anche dietro alle colonne di Daganronpae No More Heroes. Probabilmente la versione del dark world dello Shoji Meguro che ha curato i vari Persona (e anche la sottovalutata colonna sonora di Catherine), Takada per killer7 bazzica tra l’illbient e la techno per dare un tono di classe allo shooter di Capcom, riuscendo di fatto ad investire di un taglio iconico un gioco elegante che senza l’intero comparto UX sarebbe sembrato solo una versione fatta male di XIII. In un’epoca in cui Aphex Twin non pubblicava più dai tempi di drukqs e DJ Spooky dai tempi di Optometry, nessuno si è immaginato di poter trovare un booster pack nella musica di Takada. Grosso errore.

Ed Harrison – Neotokyo (2009)

Non ho capito benissimo perché la soundtrack di una povera mod di Half Life 2, Neotokyo, abbia tutti quei voti su RateYourMusic, ma possiamo farcene una ragione. Il primo lavoro di Ed Harrison è visionario, di una qualità allucinante, e, in un fine noughties che a breve avrebbe fatto i conti con chillwave, witch house, vapor-stronzate varie, va molto avanti sui tempi. I cori synth di Neotokyo sono la versione futuristica di quella Song of Prayer di cui vi ho parlato un bel po’ sopra, e l’uso del soundkit è tanto competente quanto creativissimo. Non solo Harrison si confronta con la musica che è a destra e a sinistra, al di fuori dal mondo videoludico, ma con una semplice mod riesce a proiettare un’ombra lunghissima che tutt’oggi riesce a lambire le superfici di giochi come i Nier o gli Ori. Spettacolo.

Souleye – PPPPPP (2010)

La ost di VVVVVV è stranamente elaborata per fare da corolla ad un videogioco così semplice e bidimensionale, con meccaniche non particolarmente originali e una color palette da crisi epilettica mutuata da giochi come Give Up Robot. Eppure negli accordi di chiptune che accarezzano PPPPPP c’è molto di più di quello che il gioco racconta: lo svedese Souleye ha delle ambizioni differenti, che riversano un’emotività sulla soundtrack che ricorda tanta della musica di epoca 8 e 16 bit associata a giochi con molta più trama come i Mother e i suoi vari discendenti. Allo stesso tempo quando PPPPPP va fuori campo le dinamiche sono reminiscenti di quella galassia di tunes che celebrava Kitsune^2 nel suo Squaredance. Tantissimo, per un gioco così semplice: non sottovalutare.

Ben Prunty – FTL (2012)

FTL è un altro gioco piuttosto famoso di cui però non potevo fare a meno di parlare, perché probabilmente se i potenti del mondo ascoltassero Prunty cesserebbe ogni guerra bombardamento genocidio o cose di questo genere. Ancillare di un roguelite RTS di esplorazione dello spazio, il lavoro di Prunty si avvale di dolcissimi silenzi e piccole incursioni di sintetizzatore, quasi sempre sui canali alti, quasi sempre chippy come se ci fossero pochi bit a disposizione. Il lavoro di Ben Prunty si muove con una grazia magistrale in un sottile interstizio che sta tra l’ambient detto fatto dei progetti di Brian Eno e l’elettronica da fantascienza hard, di grande rischio e grande impatto. Non è un caso se la pagina bandcamp di Faster Than Light è piena zeppa di sostenitori, se il video di youtube ha più di un milione di visualizzazioni, se Prunty è stato poi ingaggiato per lavori grossi come Into the Breach e Subnautica. La colonna sonora di Faster Than Light è un piccolo capolavoro, e non dovreste privarvene. 

Archie Pelago – Off-Peak (2015)

Nascostissima gemma, Off Peak è un videogioco surreale di esplorazione che non ho giocato e di cui quindi non so dirvi nulla. Vi so dire qualcosa sulla sua soundtrack scritta da Archie Pelago, però: uno strano organismo di nu jazz, deep house, e IDM – tutto sempre declinato in un’accezione darkish. I beat di Archie Pelago, i componenti della ritmica, sono i protagonisti di tutto Off-Peak, ma uno dei più interessanti risvolti della soundtrack è la sua postura aliena e mutante, un po’ debitrice dei Neotokyo e killer7 di cui ho parlato qua sopra, un po’ radicato nelle visioni più analogiche del Nnu jazz o della lo-fi di Nujabes, un po’ innamorato dei piccoli suoni della sintesi FM. Fascinoso, strano, notevole.

Nightmargin – Oneshot (2016)

Oneshot è un gioco strano che si accompagna a una soundtrack a sua volta piuttosto peculiare. Il lavoro di Nightmargin all’elettronica prende chiaramente ispirazione dall’ampia gamma di melodie scritte da Toby Fox per i suoi videogiochi, ma non si limita a quella mistura di chiptune e tracker che abbiamo visto nella maggioranza dei brani di UNDERTALE, bensì amplia a sua volta il campionario strumentale con i più svariati synth, campionamenti, strumenti che sono o sembrano in presa diretta. In questo modo l’ascolto della soundtrack di Oneshot riesce ad essere allo stesso tempo vagamente nostalgico e sempre sorprendente, rinnovato: tutto tende a ruotare attorno a un centro passatista, ma ogni anima espressa da Nightmargin intraprende una strada diversa, sia dal punto di vista dell’arrangiamento che da quello dei temi. 

Christ Christodoulou – Deadbolt (2016)

Basta ascoltare Now I Am Become Death per farsi un’idea di quanto Deadbolt provi molto forte ad essere hard-boiled, raccogliendo nello stesso arco gli Hotline Miami e Under a Killing Moon. In realtà ci riesce: il disco è una stranissima ma efficace commistione tra downtempo, dark jazz, funk e trip hop che, con qualche incertezza qui e lì, riesce comunque a guadagnarsi il suo posto nella vetrinetta dei memorabilia. Concedetevi un ascolto della balorda Blood on the Dancefloor e della dinamica e brillante Hemolysis, male non può farvi.

James Primate & Lydia Esrig – Rain World (2017)

Di Rain World so che piace molto al mio amico Marco, che è un Metroidvania post-apocalittico in cui sei un coniglietto o cose simili, che è nella mia libreria di Steam da secoli e non riuscirò mai a giocarlo. Ma so già che Marco non è così scemo, perché la soundtrack firmata da James Primate e Lydia Esrig riesce a spiccare in cuffia nonostante sia composta da una serie di arazzi ambientali, una vera best practice per la maggioranza dei giochi del genere, basti vedere Hollow Knight. La componente techno/downtempo dà un kick importante a questa musica d’ambiente, e Primate riesce a fare leva sull’immaginario futuristico del Rain World per modellare i sintetizzatori al di là del semplice tappeto, rendendo questo sfondo sonoro plastico e tutto fuorché noioso. Tra un beat lineare, un fendente di power noise, un acquatico ricorso alla dub, la colonna sonora di Rain World riesce nell’impresa complessissima di dare un’identità ad ambienti che non ho mai toccato con mano. Chapeau.

Dabu – Dwarf Fortress (2022)

La colonna sonora della nuova versione Dwarf Fortress è un bell’outlier, ricorda per certi versi e per la scelta degli strumenti le OST della Supergiant Games, ma ha un’identità molto precisa, riesce a dare un piglio disperato e usa il primitivismo per compilare una palette di note che è il corrispettivo sonoro dello storico mapping di Dwarf Fortress, spesso e fin troppo crunchy. La melodia è una take particolarmente dark sul primitivismo americano, che quasi quasi non appartiene al genere – sento queste chitarre, associo al folk medievale o al dark cabaret – ma che in cuffia funziona tantissimo. Quasi non fatico a intravedere il menestrello che sta sulla copertina di The Hermit, qui e lì, stavolta spogliato di qualsiasi ambizione musicale, al servizio di un gameplay soffocante. Non è affascinante?

Ho voluto farvi fare strade nel mondo delle colonne sonore dando per scontato che qualcosa la conosceste già, sacrificando in questo modo molti dei brani e delle release che ho amato di più nei miei anni da ricordatore di videogiochi, da giocatore di ricordi, da giocatore di videogiochi, da ricordatore di ricordi e a seguire. Manca tanto in questo articolo, ma non potevo fare un semplice elenco di ogni singola colonna sonora che mi ha colpito o addirittura sconvolto. Il punto è che forse avrei potuto fare un semplice elenco di ogni singolo disco funk metal che l’ha fatto, oppure di ogni disco anti-folk, glitch pop, i primi generi che mi sono venuti in mente. Per me è inaccettabile continuare a vedere schivato e ignorato un genere musicale che ha motivazioni storiche per essere così bello, che è molto influente in tanta della musica che mi passa in mano giorno dopo giorno, che spesso accompagna da un lato o dall’altro tante delle mie giornate più spente. Il grande ombrello della Video Game Music – e arrivati a questo punto avete tutte le armi per capire perché, come, dove, chi – ha una sua dignità. Una sua grande dignità, che sia nelle vostre corde o meno. Forse è anche arrivato il momento che le persone che ascoltano musica, le persone che parlano di musica, le persone che scrivono di musica se ne accorgano. Voi fatemi sapere, io salvo e spengo.

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Alessandro Corona M
Alessandro Corona M