VI STANNO RACCONTANDO LA STORIA SBAGLIATA

Premessa

Nessuno ha detto che scrivere di musica sarebbe stato facile. Scrivere qualsiasi cosa su qualsiasi altra cosa è difficile: richiede stile, ponderazione e possibilmente competenza. I libri di qualsiasi genere vengono votati e criticati da pubblico generalista ed esperti. Correggere un articolo di giornale può essere la consegna di un compito delle medie, perfino un comunicato su qualsivoglia social viene passato al setaccio, se c’è qualcosa che si vuole distruggere. La critica, presto detto, passa impunita. Un po’ perché sembra brutto salire nella gerarchia delle critiche, un po’ perché non la legge comunque nessuno, un po’ perché nessuno spreca stile, ponderazione o competenza contro qualcuno che può farne a meno schioccando le dita. Il risultato di questa mancanza di confronto, di questa impossibilità al dialogo, è terrificante: semplicemente, vince chi scrive di più.
Una testata che rivendica istanze di accelerazionismo in ogni disco bubblegum che esce vince. Una testata che decide che quello specifico gruppo heartland è il fad dell’anno e che quindi tutta la classifica gira intorno ad esso vince. Una testata che rilegge la storia della musica quotidianamente come se ogni disco fosse degli anni ’10 del XXI secolo vince.
Il giornalismo musicale pecca rovinosamente di etica: è uno strumento nelle mani di diversi think tank più che una finalità ultima e nessuno è capace di intervenire, per un’interessante e diversificata serie di motivi. Il pezzo che nello specifico mi sta facendo vomitare queste riflessioni è la recente analisi di The Fat of The Land, terzo LP dei Prodigy, fatta da Jesse Dorris sulle pagine di Pitchfork. Una vergogna – chiaramente.

Ma perché succedono questi fatti? Come funzionano e quali sono i rischi? Con una sommaria analisi è possibile dare delle risposte a queste domande.

Blousons

1. L’INCOMPETENZA

Nel 1987 il compianto Federico Zeri, noto critico d’arte, scriveva:

Ogni giorno noi cresciamo, maturiamo, mutiamo, non siamo mai gli stessi. Ci sono epoche artistiche che possono essere intuite, comprese soltanto al momento opportuno: ma il passato è morto per sempre. Quello che è ieri, rimane ieri, non è possibile farlo risorgere. […] Pur essendo morto per sempre, ciò che è trascorso ci ha lasciato una gran quantità di significati, nelle opere artistiche e nelle opere letterarie, che possiamo rileggere e interpretare. Basta però tener presente che si tratta sempre di una riesumazione. […] Persino musiche, canzoni, giornali di una ventina di anni fa contengono allusioni e connotati che già oggi ci tornano completamente oscuri. Più si conoscono la letteratura e la storia e più possiamo impadronirci del significato di un’opera figurativa. […] Ma non bisogna illudersi: molti dei suoi significati essenziali ci sfuggono. […] Avviene così che ripieghiamo su una finta interpretazione dell’opera d’arte, un surrogato, che consiste in una lettura basata non sull’opera d’arte in se stessa, ma sul come noi vorremmo che fosse. Come accade, di solito, nei rapporti tra le persone: l’unico modo per andare d’accordo è cercare nell’altro quel che già c’è in noi.

Quest’estratto di Dietro l’Immagine è ierofantico: ogni interpretazione di un’opera d’arte nasce con delle lacune, con dei vuoti che siano colmabili o meno. In effetti, il mestiere del critico è anche il mestiere ermeneutico per eccellenza: tutto quanto quello che passa dall’articolo di un critico esperto brilla di una nuova luce o soffoca in un nuovo buio. Quando siamo dinanzi a creazioni di cui non sappiamo molto dobbiamo quasi arrivare a tradurre tutti i riferimenti e le allegorie in dati di fatto, muovendo in un territorio estremamente ostico e inadeguato, che sia un periodo storico che non è il nostro, un continente che non conosciamo, o una forma musicale di cui non sappiamo niente. A quel punto scatta il meccanismo descritto da Zeri, e un’analisi approfondita di un’opera che sprofonda nell’ignoto si porta via un codazzo di concetti appartenenti alla nostra epoca, alla nostra condizione sociale, alla nostra lotta e così via.
Mi rendo conto di come tutto questo possa essere ammaliante, e ci sono anche giudizi di valore che si possono dare in merito: un mixtape di b-side hardcore recuperato da un pen pal nel 1992 può avere una grande bellezza anche solo per il fascino dell’archivistica e della collezione. Il dramma è che nel quotidiano giornalistico le lacune da colmare non sono riferite alla Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo o ad oscure cassette per corrispondenza: tutto quanto è massacrato da enormi buchi di competenza da riempire in qualsiasi modo possibile per raggiungere le 500/1000 parole.

E qui arriviamo al primo punto: pochissime persone sanno qualcosa su qualcos’altro ma tantissime persone devono dire qualcosa su qualcos’altro. Il caso di The Fat of the Land è topico (davvero): Dorris divide con l’accetta la sua recensione in due parti un po’ raffazzonate, direi circa ‘prospettiva storica’ e ‘commento’, se volessimo ragionare per comparti. La prospettiva storica è piuttosto corretta, da subito si paventa la mezza stroncatura facendo riferimento al famoso articolo del MixMag, alla periferia-bene dell’Essex, da cui proviene Liam Howlett, e alla generica antipatia diretta dagli hardcore raver all’act ‘Prodigy’, coinvoltissimo nello star system a partire da Charly, il singolo con cui hanno sfondato. Forse non tutti se lo ricordano, o non tutti conoscono queste vicende, ma il mio tono svogliato sarà perdonato da chi mi legge quando con una breve ricerca potrà scoprire che tutte queste informazioni sono placidamente ricopiate dalla Wikipedia inglese, nonché già rimbalzate da decine di altri media.

(Chiaramente Dorris non ha nemmeno avuto voglia di leggere l’interno della copertina derisoria di MixMag, o farsi un attimino di cultura sugli anni ’90 in toto. Più avanti la vediamo chiedersi: “After grunge, what was left for men and their guitars?”, che è una domanda a cui non saprei veramente come rispondere perché c’è circa una marea di generi diversi guitar-oriented che hanno avuto un successo strabiliante negli anni ’90 a ogni livello di copertura di pubblico. Cioè, cristo, non voglio nemmeno che tu conosca chissà che perla misconosciuta di Noise Rock duro e puro, ma porco dio il Britpop?)

Il problema comincia a farsi evidente, la struttura – che già di suo è scricchiolante – comincia a gridare il bisogno di due grammi di new thing e, una volta fatto il copypasta di wikipedia, si sente la necessità di colmare le lacune. Ma se non si ha voglia di fare una ricerca e di base non si sa comunque niente di musica, cosa si può fare? Ovviamente quello che si fa per stordire un professore a un esame, per avere ragione durante una conversazione, per fare impressione alla morosa: parlare di quello che si conosce già, e far finta che tutto sia profondamente correlato. 

pietrogo

2. IL FILLER POLITICO

Ognuno di noi si prefigge uno scopo nella vita. Lo scopo di alcune persone è avere successo, lo scopo di altre persone è lottare per svariati gradi di equità sociale o civile, lo scopo di altre persone è arricchirsi pubblicizzando al massimo opere e concetti che sono un po’ fuori dalle luci della ribalta. Ogni persona che ha uno scopo ben preciso farebbe di tutto per raggiungerlo, e sfrutterebbe ogni occasione inattiva per dare una spinta in più. Allora cazzo, è qui che nasce la SINERGIA. È chiaro!
Quando un giornalista avrà una potenza di fuoco tale che la sua voce arrivi a più persone penserà che vale la pena riversare sulla pagina la propria battaglia e i propri interessi appena se ne vede l’occasione, proprio come determinati leader dei più svariati settori associano specifici mantra ad ogni loro apparizione pubblica (basta andare a vedere la politica, ma sono sicuro che ognuno di noi conosce miriadi di intellettuali che rimasticano ad libitum gli stessi concetti ogni volta che se ne palesa l’occasione).
E quale migliore occasione di condividere la propria battaglia se non quella pagina mezza vuota con 500 su 1000 parole di un disco di cui ce ne frega un cazzo di niente e su cui abbiamo già espresso i dettagli in una linea di massima? SINERGIA!
Qui entrano in gioco pigrizia mentale, poca competenza generale, scarse conoscenze particolari, scadenze pressanti, in un maxipimer che rimescola tutte le carte in tavola e fa diventare le cose diverse da quelle che erano, completamente. E tutte le critiche più cogenti relative all’opera, nel bene (The Fat of the Land ha avuto successo perché…) e nel male (I Prodigy hanno ucciso la rave culture perché…), vengono affogate dalle chiacchiere.
La aggressione ai limiti dell’hardcore punk di Smack My Bitch Up quindi diventa – a distanza di 21 anni, dopo che già seguendo la sensibilità dei tempi ci fu un pippone infinito tra Prodigy e National Organization for Women e decine di censure – il mcguffin per reinventarsi gli anni ’90 sotto un’ottica di questioni di genere che con i Prodigy non c’entrano niente e sono pure affrontate a casaccio.
Gli anni ’90 diventano unicamente “un periodo di testeria, un panico mascolinizzato per i piccoli passi per l’uguaglianza fatti dalle donne, dalla comunità LGBTQ e dalle persone di colore” e non il decennio che per eccellenza dà (parzialmente) ragione alla fine della storia di Fukuyama, o gli anni d’oro dell’hip hop hardcore – un paio di esempi di ricontestualizzazione.
La cultura pop “Fin-de-siècle” non è più il riflesso ridanciano di una società sull’orlo dell’abisso nonostante sia libera dal disastro nucleare, ma materiale per PROTO-INCELS (???), che vedono del macho boosterism in Fight Club e la chiusura in un mondo completamente eterosessuale in Friends, che poi – al netto di alcuni odiosi personaggi del cast principale – è lo stesso Friends che comincia con Ross mollato dalla moglie bi che ha in affidamento il bambino con la compagna, lo stesso Friends in cui Phoebe si sottopone a GPA per suo fratello e lo stesso Friends in cui il padre di Chandler è una persona trans.
I Beastie Boys diventano Woke e Liam Howlett diventa un Troll.
Che cazzo, no.
Non c’è bisogno nemmeno che vi spieghi perché un’analisi del genere è terrificante, dico bene? Del resto noi non siamo americani, le questioni civili di livello più avanzato non ci toccano, qui il dibattito è ancora fortemente diviso a uno stadio primevo tra fascisti e persone che gradirebbero non avere centinaia di morti sulla coscienza.
Ma proviamo ad allargare un secondo la lente e vediamo cosa succede in casi similari.
Un tempo in 4/4 diventa automaticamente motorik, un normalissimo contrappunto diventa “la tecnica del counterpoint” e una voce atona diventa una voce atonale. L’ennesimo chop di vaporwave diventa uno strumento politico contro il capitalismo, un set fotografico pieno di aesthetic e bianco diventa un puntello stilistico di una musica di per sé mediocre e il Bubblegum pop diventa improvvisamente un’avanguardia.
Tutto questo, ovviamente, su pagine italiane.
Che succede, quindi, quando la critica esce dal proprio fuoco senza ritegno, quotidianamente, con diverse direzioni a seconda della testata e su larga scala?

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3. IL DISASTRO AMBIENTALE

Comunicare significa essere responsabili.
Citando le quattro massime conversazionali enunciate da Grice (quantità; qualità; relazione; modo), una conversazione responsabile e cooperativa non deve fornire dati inutili, non deve lavorare con affermazioni false, deve essere pertinente e deve essere chiara. Senza stare a fare complesse analisi psicolinguistiche, chi non comunica rispettando il principio di cooperazione è un cane.
Immaginatevi di essere in una situazione qualunque in cui nessuno rispetta le massime convenzionali enunciate da Grice, ad esempio, siete in un paese che non conoscete e chiedete a 4 persone diverse l’indicazione per la piazza centrale del paese.
La prima persona vi dice dov’è la piazza ma nasconde l’informazione in una tempesta di dati inutili, la seconda vi dice che la piazza non esiste, la terza vi dice solo che le piazze possono essere tonde o quadre e la quarta vi parla in dialetto berbero. Tutti cani, ovviamente. Ora andiamo un po’ oltre: sapete che queste 4 persone sono vere e proprie autorità dell’urbanistica di quella città. Decidete quindi di accettare una parte dei consigli che vi hanno dato queste autorità, o, peggio ancora, tutti. Il risultato, ovviamente, è che siete disorientati, persi, non ne sapete più di prima ma al massimo conoscete informazioni inutili, false, poco pertinenti o espresse in modo non consono.
Ora, che succederà quando qualcuno vi chiederà un’indicazione sulla piazza in questione? Qui nasce il disastro ambientale.

Nel mondo del giornalismo musicale non solo pochissimi hanno idea di quello che stanno scrivendo e di come lo stanno scrivendo, ma tante persone che non lo sono né per contenuti né per forma vengono scambiate per autorità del settore, tramite un qualsiasi brand, che sia una testata come un gruppo di persone che decide che quella persona è un esperto. Il risultato, chiaramente è la bomba atomica sulla critica, la morte di qualsiasi credibilità, la fine della comunicazione top-down tra chi ha le armi per far conoscere e chi è assetato di conoscenza.
Da ogni articolo famoso e mal scritto nasce un rivolo di articoli mal scritti e meno famosi, e da loro una cascata di persone disorientate e confuse che non sanno che riferimenti prendere per buoni. E poi queste persone comunicano con altre persone e condividono la loro confusione creando una risonanza impressionante che non può venire fermata da nessuno.
Il mondo della critica e della parola scritta si disintegra quindi in miliardi di particelle che si riacconciano nei motivi più disparati, giorno per giorno e in modo diverso – e ogni articolo che non rispetta il principio della cooperazione scuote questo caos facendolo diventare ancora più rumoroso e spaventoso. La responsabilità di un giornalista o di un critico evapora quindi nella totale possibilità, l’aderenza con i fatti si perde completamente e ogni cosa può essere qualsiasi altra cosa: tanto vale che sia la cosa che piace a chi scrive.
Non sarebbe nemmeno così male se fosse un movimento poetico. Ma purtroppo è la critica che gode di questo stato, e la critica ha una missione che riesce a non impallidire davanti a quella, universale, dell’arte.
Guardare alle cose, capire le cose e spiegare le cose. Non c’è niente di così lontano da noi stessi e dal nostro narcisismo come le cose del mondo, che ci guardano dall’alto di un’impenetrabilità rocciosa, monolitica.
Il disastro è già avvenuto/sta avvenendo/avverrà a breve e noi non possiamo fermarlo. Ci toccherà vagare in un deserto piagato da chiacchiere radioattive alla ricerca di ciò che ci arricchisce umanamente della musica che ascoltiamo, come abbiamo sempre fatto, del resto.
Da qui, giorno per giorno, ricostruire quello che è stato spazzato via dalla tempesta di cazzate e provare, di nuovo, a guardare le cose con lo sguardo opportuno, a capire la maggior parte possibile di come e di perché. A raccontare la storia giusta.

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Alessandro Corona M
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