TRI ANGLE: UN TRIBUTO

A fine aprile ha chiuso i battenti la Tri Angle.

L’etichetta discografica di Brooklyn era diventata un nome di riferimento per gli appassionati di musica ibrida e visionaria, seguendo un percorso peculiare con pochi eguali a parità di risorse. Molte label si guadagnano la propria nicchia di ascoltatori affezionati legandosi ad un suono e ad uno stile ben riconoscibili, nell’esplorazione e nella definizione dei quali costruiscono la propria legacy. Per la Tri Angle il discorso era radicalmente diverso: l’ampio apprezzamento di cui godeva era legato all’imprevedibilità della direzione futura, all’eccitazione di fare esperienza di una nuova uscita senza sapere cosa aspettarsi. Gli anni di attività dell’etichetta coincidono con i confini dell’ultimo decennio, quello che ha visto la personale crescita come ascoltatori del presente di noi quasi-trentenni, per cui abbiamo potuto seguire direttamente le scene e gli stimoli che andavano formandosi attraverso questa storia discografica. E dalla prima pubblicazione (un tributo a Lindsay Lohan con la partecipazione di Laurel Halo e Onehotrix Point Never: si può decisamente parlare di dichiarazione d’intenti) la creatura di Robin Carolan ha saputo attraversare i mutamenti degli umori musicali assorbendone la forza senza bisogno di piantare radici.

Questo è stato possibile anche perché alla Tri Angle avevano un occhio speciale per gli artisti emergenti. VesselLoticForest SwordsRabitThe Haxan Cloak: tutti messi sotto contratto dall’etichetta quando erano titolari di giusto qualche uscita minore in cui mostravano a sprazzi le proprie potenzialità e che hanno poi trovato nelle pubblicazioni su Tri Angle le affermazioni più compiute della propria arte. Si trattava di un meccanismo virtuoso per tutte le parti coinvolte: per i discografici, che potevano portare in roster voci originali sulla rampa di lancio dell’hype senza dover rischiare accordi esosi; per gli artisti, che trovavano supporto logistico, libertà artistica ed ottima risonanza per la propria musica; per lo sviluppo dell’etichetta stessa, che accogliendo e dando spazio a sperimentatori pienamente immersi nei suoni del proprio tempo riusciva a mantenere una direzione sonora innovativa e all’avanguardia. Dalle pubblicazioni witch house degli esordi, attraverso la risacca post-dubstep fino all’elettronica hi-tech e schizoide, in ultima analisi verso qualunque lido a cui il sound design potesse condurre.

Abbiamo scelto di parlare di tre dischi pubblicati dalla Tri Angle, non necessariamente i più celebrati o influenti, per omaggiare un’etichetta a cui eravamo affezionati.

Ad maiora.

Forest Swords – Engravings (2013)

Il legame tra la Tri Angle e Matthew Barnes (aka Forest Swords) non è stato particolarmente duraturo, visto che il prodotto di questo sodalizio è stato un singolo full-length, Engravings, uscito nel 2013; eppure, risulta impossibile non considerare quell’unico album come uno dei momenti cardine tanto dell’opera di Barnes, quanto dell’intero catalogo dell’etichetta. Da una parte, Engravings ha rappresentato il disco più riuscito del progetto Forest Swords, riscontrando oltretutto un considerevole successo di critica e pubblico e consacrando la statura artistica di Barnes presso molta stampa influente che attendeva il suo debutto dopo l’EP Dagger Paths del 2010 (tra le testate che tessero sperticate lodi di Engravings ai tempi dell’uscita ci sono state anche ResidentAdvisor, Pitchfork e The Quietus). Dall’altra, Engravings è stato, insieme a Held di Holy Other ed Excavation di The Haxan Cloak, uno dei primissimi dischi licenziati dalla Tri Angle a trascendere quella micro-nicchia di pubblico infognatissima con le più nuove e stravaganti tendenze dell’elettronica che ne seguivano le mosse fin dalla nascita dell’etichetta. In retrospettiva, quelle produzioni sono generalmente considerate fondamentali nell’istituzione dell’estetica witch house e hauntology che hanno permeato molta musica pop ed elettronica dello scorso decennio; ma se la Tri Angle nella prima metà degli anni Dieci ha trovato un’accoglienza molto calorosa da parte di un’audience alternativa più ampia e meno legata alla scena elettronica sperimentale, lo si deve anche ad album come Engravings.

Engravings è, in effetti, un disco elettronico fortemente atipico – con un po’ di snobismo, lo si potrebbe tacciare di essere uno di quei lavori di musica elettronica che piacciono a chi non apprezza davvero la musica elettronica. Lo stile di Forest Swords in questo lavoro risente nitidamente dell’influenza delle (allora) ultime tendenze elettroniche anglosassoni, dalle atmosfere notturne della future garage ai bassi pulsanti della dubstep e della post-dubstep. Tuttavia, l’incedere ritmico ha poco a che fare con la musica pensata per il dancefloor, e suggerisce piuttosto un’influenza della dub primigenìa degli anni Settanta e Ottanta. E anche il particolare missaggio (realizzato interamente all’aperto nei pressi di Thurstaston, nella penisola di Wirral, dove Matthew Barnes tuttora vive) concede ai suoni di Engravings un’ariosità naturale che ha poco in comune con la musica elettronica coeva, e sembra quasi provenire dalla psichedelia più bizzarra di derivazione new weird America. Ciò che rende però la musica di Engravings particolarmente insolita è però l’utilizzo esotico di sample strumentali di ogni sorta e il trattamento della voce, che insieme alla spazialità tridimensionale dei suoni rievoca un folklore immaginario che sembra provenire da una moltitudine di luoghi dispersi per il mondo, e allo stesso tempo da nessun posto in particolare. Una nenia vagamente orientaleggiante su Ljoss, delicati tocchi di strumenti idiofoni dal sapore africano che contrappuntano l’ostinato del pianoforte su An Hour, strumenti a fiato aborigeni che emergono dagli acidi suoni di un sintetizzatore su Thor’s Stone, un flauto ancestrale che concede spazio a una chitarra dal sapore spaghetti western su Irby Tremor, voci che vengono manipolate per dar vita a una coralità sciamanica su Gathering: non si contano il numero di scelte originali che danno ad Engravings un carattere quasi primordiale, come se fosse la reinterpretazione di musica antica prodotta da civiltà perdute tramite la strumentazione digitale del nuovo millennio. Quando l’album si chiude però con i sommessi turbinii di sintetizzatori di Friend, You Will Never Learn si viene riproiettati con forza nel nuovo millennio, tra Disco Inferno, Labradford, Demdike Stare e Peaking Lights. Forest Swords, nonostante diverse colonne sonore (l’ultima uscita l’anno scorso) e un altro full-length (Compassion), non ha mai davvero proseguito il discorso iniziato con Engravings, perdendo quel tocco vagamente folkloristico/psichedelico e puntando invece su uno stile molto più modaiolo – e, ça va sans dire, molto meno interessante. Il che è un peccato, visto la bontà delle idee mostrate in quell’album e la possibilità di elaborazione che esse ancora presentavano; a posteriori, però, questo cambio drastico di prospettiva da parte del suo autore dona ancora più forza alla musica di Engravings, che tuttora rappresenta una delle più insolite e originali declinazioni della psichedelia (intesa in senso molto esteso, ovviamente) degli ultimi anni. (Emanuele Pavia)

Katie Gately – Color (2016)

Katie Gately è un caso a parte nel roster Tri Angle. Pur essendosi presentata ad un ampio pubblico con l’esordio su LP proprio per quest’etichetta, infatti, è probabilmente l’unica di questa lista ad aver realizzato il proprio capolavoro ancor prima di approdarvi. Dopo essere comparsa sulla scena con l’EP omonimo del 2013, che mostrava già maturità nella sperimentazione sonora tra panorami elettroacustici e tensioni post-industriali a fronte di una certa timidezza nell’uso della voce, nel giro di appena un mese compie un incredibile salto in avanti con la pubblicazione di PipesNO INSTRUMENTS WERE USED IN THE MAKING OF THIS RECORDING, riportano le informazioni; in effetti Pipes è una dichiarazione spinta ed estrosa sulle potenzialità del sound design puro, che in maniera impronosticabile mette al centro della propria espressione proprio il trattamento della voce. L’apparato ritmico deve farsi così minimale da sparire, perché spesso non serve: la voce dà il tempo, la voce persegue la melodia, la voce invade e satura i canali audio come un’onda. Le modifiche, onnipresenti ma fluide, la spingono costantemente in avanti e il processo di trasformazione digitale diventa una tensione evolutiva, non appesantita da ripetizioni. Pipes occupa entrambi i lati dell’edizione su cassetta, ma vale la pena recuperare anche la bonus track digitale Acahella, possibilmente ancora più fuori schema, dandoci l’idea di una Gately in pieno stato di grazia: vocalizzi argentei sopra una base gabber (!), passaggi ambientali alla OPN, sintetizzatori guizzanti, svisate elettroniche taglienti, il tutto in un vortice di saliscendi da far invidia ad Arca. L’insieme rimane lucidissimo e potente nella propria visione, nonostante la cascata di stimoli portata in primo piano. Dopo una tale accelerazione, all’esordio su album per la Tri Angle Gately sposta il focus della propria ambizione su un obiettivo che potrebbe spaventare gli ascoltatori più esigenti: aggiungere la musica pop all’equazione. O meglio, usare la musica pop come chiave d’accesso alle pulsioni più immediate dell’ascoltatore e poi fotterle dall’interno, mantenendo un impianto sonoro provocatorio ed improntato alla sperimentazione. Niente riduzione alla facile orecchiabilità, quindi; maneggiando formule potenzialmente più standardizzanti, l’artista newyorkese riesce comunque a mantenere intatta la credibilità della propria ricerca e a direzionarla verso nuove sintesi, testimonianza dell’abilità nell’utilizzo del proprio armamentario.

Se l’avvio di Lift avrebbe le carte per stare su un disco di Rabit, con le salve ritmiche e le voci sempre pronte a degradarsi a comando, la linea vocale principale fa subito capire cosa c’è di nuovo: “If I give you all my money, honey / Will you do it for me?” canta Gately, con una lascivia e una chiara inflessione melodica che prima non c’era. La sfilza di fonemi che guida il resto del pezzo, cadenzati giocosamente al passo di una ritmica mai così nitidamente UK bass, ribadisce il concetto: qui ci si diverte non solo di testa, ma anche di pancia. Non si avrebbe torto a pensare alle plasticosità della PC Music (Product di SOPHIE era uscito l’anno prima tra l’apprezzamento generale), ma qui non c’è traccia dei facili trucchi dell’earworm mascherato da statement: ogni brano suona come un collage di almeno tre-quattro pezzi bubblegum bass possibili, rimacinati e riassemblati sotto forti dosi di radiazioni. L’elemento pop non è una guilty pleasure, ma semplice pleasure: rende immediatamente accessibile la stanza sonora in cui opera l’artista, ma una volta entrati non si viene risparmiati dall’iperafflusso di digitalismi psichedelici. Tuck arriva subito a fare da esempio: le pennellate digitale di voce trattata lasciano spazio ad un refrain appiccicoso che non perde la presa grazie all’atmosfera coloratissima e acida in cui è immerso, da cui infatti si innalza con naturalezza un synth saturo dai toni arabeggianti. Le suggestioni orientali vengono rimasticate continuamente dall’aspiratore ritmico, mentre Gately conduce con trucchi da performer consumata un pezzo che finisce per suonare come una cassetta dal nastro rovinato lasciata cuocere al sole. Sift, d’altra parte, rende evidente come la ricerca sonora rimanga il pilastro nella costruzione dei brani. Iniziando ad ascoltarla si potrebbe attendere un beat hip hop entrare da un momento all’altro, invece si sbatte contro un muro digitale innalzato al grado di power electronics; bassi e voce erodono lo spazio del brano fino a ricavarne una nicchia sonora che incuba dentro di sé un funk scheletrico. Quando il canto di sirena della Gately riprende il controllo, fa collassare due realtà parallele (un pezzo pop stralunato e un pezzo, diciamo, dei White Suns) per generare distorsioni del piano sempre più telluriche fino alla fusione finale: la voce stessa diventa un DIO DRONE densissimo e potente che spazza la landa virtuale, lasciando dietro di sé i detriti di un brano che non riesce più a ricomporsi e può solo terminare. Anche negli episodi in cui il ritmo è un tritatutto, come su Frisk (che si apre con un basso distorto quasi noise rock), Gately mette in scene una festa così ricca di strati sonori e colori musicali da non farcene accorgere. La melodia vocale si somma alla potenza dell’apparato elettronico per un’esperienza energizzante: come se fosse la direttrice di un’orchestra di circuiti, che alla bacchetta sostituisce la forza e l’eclettismo della propria voce. Sire è la perfetta incarnazione di questa metafora, con un tema ossessivo e trascinante capace di emergere dal ronzio di un elettrodomestico, le percussioni a franarci sopra, la voce a raggiungere caratteristiche paranormali nel suo essere alternativamente insinuante, austera, travolgente. Coriandoli musicali su cui i bassi mitragliano con gioia.

La title-track porta a conclusione il disco attraverso un mood spaziale, tra volteggi di sintetizzatore e un basso post-punk, mentre la voce passa da richiamo antico a tentazione profana. Una tastiera barcollante accompagna Gately nella trasformazione in vocalist jazz persa tra le galassie, a tradurre messaggi alieni in una forma appetibile per noi umani. La figura che le calza a pennello durante l’ascolto è in effetti quella di una medium, che vede la musica come colore (in questo il titolo è azzeccatissimo) e cerca di incanalarla sui binari della percezione uditiva ricorrendo anche a formule dalla presa immediata. Dal tentativo risulta un’opera esuberante e intraprendente, che riesce nel non facile compito di comunicare la propria espressività su più livelli. Nel successivo Loom il sound design sarà più misurato e solenne e la voce più spesso inalterata, come ci si può aspettare da un disco segnato dal lutto. Color rimane per ora la più compiuta prosecuzione delle visioni di Pipes, un lavoro avventuroso ma immediatamente soddisfacente. (Roberto Perissinotto)

Vessel – Queen of Golden Dogs (2018)

Queen of Golden Dogs si apre con una breve frase di violino. L’effetto è già da subito straniante: nel tono evocato da quel breve passaggio tra le corde, ci si rende conto che qualcosa non va. E infatti l’arco lascia subito spazio a un assalto cibernetico spezzettato e opprimente: Fantasma (For Jasmine) si muove tra labirinti percussivi mutuati a certa trance hardcore, tra i cui frattali si intravedono schegge di quello stesso impianto barocco che Vessel, il moniker dietro a cui si cela il producer britannico Sebastian Gainsborough, ha minuziosamente cesellato in questo suo terzo album pubblicato per la Tri Angle, entro i cui spigolosi confini si è mosso fin dal suo primo LP nel 2012. Queen of Golden Dogs si agita con movimenti sconnessi attraverso la sua spina dorsale: il finale di Fantasma lascia spazio al breve interludio di Good Animal (For Hannah), una sorta di meditazione dai toni soffusi in cui elementi corali fluttuano attraverso un paesaggio elettronico spettrale… È la bordata d’archi di Argo (For Maggie) a rigettarci nel caotico mondo dei vivi: le percussioni distorte si accalcano una sull’altra, mentre la cassa si muove incessante al di sotto dello stab epilessico dei synth, per riadagiarsi infine sui florilegi degli archi. Non bisogna pensare che Vessel voglia però prendersi un momento di pausa: anche se scevro di un vero e proprio sistema ritmico, persino un numero come Zahir (For Eleanor) esprime l’urgenza di muoversi verso altri lidi, di cambiare continuamente la propria forma e di mettersi al servizio delle papille dell’ascoltatore. Ecco quindi che la palette sonora si dischiude ancora una volta, rivelando adesso un clavicembalo con cui le punteggiature vocali di Olivia Chaney possono flirtare; ma il tutto svanisce nel pulviscolo elettronico che avvolge l’apertura di Glory Glory (For Tippi), senza alcun dubbio il pezzo che tradisce di più il retroterra post-club dal quale Vessel è emerso, facendo cozzare pezzi di lamiera estrapolati da drum machine fritte per i troppi volt in circolo con reminiscenze che solo un figlio dei rave d’oltremanica può conoscere così intimamente.

Il trittico finale di brani è però il vero punto forte del disco, sia dal punto di vista stilistico sia tematico. Torno-me eles e nau-e riarrangia un frammento di Fernando Pessoa, che secondo Gainsborough stesso è stato un’importante influenza nella creazione del concept del disco, una riflessione sul tema dell’identità e su come essa si perda nel confronto con l’altro: la dedica all’artista Remedios Varo, responsabile della copertina, è trasmutata in un pezzo in cui le armonie della Chaney si sovrappongono, sbandando al limite dell’anarchia ma risolvendosi sempre in quello che è probabilmente il momento più intimo del disco. Non appena la voce tace, è ancora una volta il turno di Vessel nel prendere la parola: Paplu (Love That Moves the Sun), con i suoi nove minuti, scompone le intuizioni dei Fuck Buttons di Tarot Sport e le riassembla in un coacervo di frammenti singhiozzanti, campanacci e schiaffoni distorti, ammucchiando nugoli di tensione che non lasciano mai posto a una scarica esplosiva. Il microcosmo di Vessel non può necessariamente conoscere la tranquillità unificante dell’entropia: il finale di Sand Tar Man Star (For Aurelia) lo evidenzia fin dal suo titolo, in cui l’elemento umano si ritrova catalogato attraverso distese di materia organica, costantemente in bilico tra la decomposizione e il cosmo. Ecco quindi che per un’ultima volta la voce umana, ora abbandonata a vocalizzi tremolanti, si fonde a deflagrazioni distanti, sintetizzatori che scampanellano nell’ignoto siderale e che echeggiano ribollendo in vortici imperfetti di ritmicità, prima di spegnersi in un’ultima spirale sintetica. Quello che insomma Vessel lascia sul finale del disco non è una summa di un trattato, ma l’elaborazione di una nuova domanda: e mentre cerchiamo di ricomporre la formula, di ritrovare le parole, siamo inghiottiti da un silenzio che non è altrettanto esaltante e stimolante. (Jacopo Norcini Pala)

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Livore Redazione
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