CONTAINER BRUTTO

TREES È UNA DEPRIMENTE DELUSIONE

AVANTDALE BOWLING CLUB – TREES

Years Gone By

2022

Jazz Rap

Immaginate questo: è il settembre del 2018 e mi sto accingendo ad ascoltare il primo disco degli Avantdale Bowling Club, uscito un paio di settimane prima. Trovo un jazz rap brillante, misurato nei timbri ma comunque dinamico e intelligente; il classico uno-due di generi è portato avanti con una consapevolezza tale da far pensare che dietro ci sia una mente abile e creativa. Due influenze saltano subito alle orecchie: gli A Tribe Called Quest per il flow gioviale e il timbro di voce pulito, Kendrick Lamar per il tipo di jazz che viene incorporato e la delivery quando le ritmiche si fanno più cadenzate. Il disco riscuote discreto successo, non è un game changer ma sicuramente un’ottima prova d’esordio, son contento. Chissà come sarà il loro progetto successivo!

Fast forward quattro anni ed eccomi intento a sbirciare varie liste per vedere se qualcosa mi possa interessare: vedo che è uscito Trees, nuovo progetto degli Avantdale, giusto qualche giorno prima. Reduce da una manciata di ascolti non proprio stimolanti premo play di buon grado, pensando di andare relativamente sul sicuro – il panorama che mi si apre davanti, invece, è infernale. La componente jazz sembra continuare sugli stessi binari stilistici ma è diventata rigida, banalissima, affiancata da orribili inserti neo-soul che rendono il sound stantio; la pulizia e la semplicità della produzione, che nel lavoro precedente facevano fluire con garbo l’impianto strumentale evitando di sovraccaricare timbricamente un disco che di queste esplorazioni non ha bisogno, in Trees remano attivamente contro a delle parti di fiati e synth già di per sé dozzinali, portando al totale appiattimento delle basi. L’incedere non è più energico, ma imbolsito e tedioso – e non parlo solo della musica: il rapping di Tom Scott sembra essersi scolorito, accartocciato sopra soluzioni da manualetto a cui solo chi non riesce a sviluppare un proprio stile potrebbe far riferimento. Le tracce si susseguono tra pigri giri di synth che approssimano il timbro (peraltro ormai inflazionatissimo, da usare a proprio rischio e pericolo) di un Fender Rhodes, linee di basso burrose che a tratti wobblano ma non troppo (non sia mai prendere un  rischio, premere un attimo l’acceleratore per colorare questo grigiume) e strofe tra il cringe e il pateticamente banale. Uno spettacolo indegno. Arrivati al 2022 io voglio sapere come possa venire in mente a un artista anche solo lontanamente capace di mettersi a scrivere e dare alla luce versi come: 

Twenty-eight grams in an ounce, break it down
Sixteen ounces in a pound, double that
Round it up about ten thou
Once you take away the rent nothing left in the account
Add it up while I bag it up in the lounge
Next to my son watching cartoons on the couch
Round about four to five deep in an ounce
Hitting on about two to three years in a cell
But I’ll be out in one, wonder if I was brown
Would I get the same amount of time for the same amount?

Twenty Eight

oppure

L.A. coppers on my roof I can’t sleep I’m paranoid
All I seek is red and blue just tryin to feed my boys
Smoking on some shit I grew hopin I can kill the voices
I don’t know what to do, I don’t really got no choices

Flying Pigs

senza accorgersi che centinaia di rapper hanno già scritto le stesse cose, che non c’è alcuna profondità né inventiva in queste immagini trite e ritrite. Ad aggravare il tutto, in un disco con problematiche del genere il flow pulitino alla Q-Tip finisce inesorabilmente per stare sui coglioni: la mia mente partorisce visioni di Tom Scott con una barba tagliata troppo precisa, un fedora di feltro e un maglioncino col collo a V che sciorina queste stronzate conscious davanti a una cinquantina di borghesotti addormentati, e la mia giornata peggiora di una sana dozzina di punti percentuale. Preferivo gli ascolti poco stimolanti.

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David Cappuccini
David Cappuccini