TOMAS FUJIWARA – DREAM UP
Nell’ultima ventina di anni, il percussionista Tomas Fujiwara si è imposto come uno dei nomi di punta della nuova scena jazz e improvvisativa americana. Le sue vicende si sono spesso intrecciate con quelle di altri importanti musicist* attivi tra New York e Chicago – John Zorn, Anthony Braxton, Tomeka Reid e Matana Roberts tra *l* altr* – ma è con la nostra amata Mary Halvorson che si è instaurato il legame artistico più fecondo e longevo. Dal 2010 circa, nessun* dei due ha mai messo su una band senza che l’altr* non figurasse nella formazione: Halvorson è stata prima chitarrista negli Hook Up e quindi nei Triple Double di Fujiwara, mentre quest’ultimo ha militato nei Code Girl e ora suona stabilmente nel sestetto Amaryllis di cui vi abbiamo già raccontato ampiamente. E a tutto questo si può aggiungere il trio Thumbscrew, messo in piedi dai due insieme al bassista Michael Formanek.
Quindi, anche qualora non conosceste il lavoro da leader di Fujiwara, se avete ascoltato i dischi di Halvorson che abbiamo recensito recentemente su queste pagine avrete comunque già avuto modo di apprezzare la sofisticatezza del suo stile esecutivo. Sotto l’influenza ovvia di Max Roach, uno dei suoi idoli batteristici, le parti di Fujiwara si distinguono per il dinamismo e per la ricchezza di sfumature e dinamiche, con incastri sapienti di rullante, tom e hi hat che fluidificano la pulsazione e aggiungono colore ai brani. Ai tempi del primo album degli Hook Up, nel 2010, questa concezione del drum kit come di uno strumento dalle possibilità melodiche oltre che ritmiche era stata definita addirittura orchestrale (Nate Chinen). Da allora, la carriera di Fujiwara non ha fatto che confermare la fondatezza di una simile formula.
Il culmine di questo processo di ricerca sulla reinvenzione dei compiti delle percussioni nel contesto improvvisativo, che va avanti da ormai decenni, è stato però raggiunto solo nell’ultimo Dream Up. Registrata in concerto nel gennaio 2023, Dream Up è una suite composta e arrangiata per un Percussion Quartet – Patricia Brennan, Tim Keiper, Kaoru Watanabe, oltre a Fujiwara stesso – che si avvale (quasi) esclusivamente di strumenti a percussione, sia membranofoni che idiofoni. Solo su qualche traccia fanno capolino anche un ngoni (è lo strumento a corda che produce l’ineffabile arpeggio nella title track e che scandisce la progressione armonica di You Don’t Have to Try) e uno shinobue (il flauto giapponese che si esibisce in assoli pirotecnici su Recollection of a Dance e di nuovo su You Don’t Have to Try). Il fatto che i loro contributi si trovino rispettivamente in apertura, a metà e in chiusura del disco si deve probabilmente alla volontà di fornire un’ancora di salvataggio all’ascoltatore: in quasi cinquanta minuti di sole percussioni, riconoscere uno strumento a corda o una sequenza di tema/assoli più tradizionale può essere sicuramente rigenerante. Visto inoltre che allo shinobue vengono affidati esattamente gli stessi compiti di un normale flauto traverso, le sue parti rendono più intelligibili le sonorità del quartetto avvicinandole a certo nu jazz dalle tinte più esotiche prodotto recentemente (penso in particolare all’ultimo Christian Scott e all’apporto della flautista Elena Pinderhughes).
Tuttavia, nonostante questi pezzi siano comunque bellissimi, Dream Up propone il suo meglio proprio quando Fujiwara si immerge in maniera più radicale nella propria missione, facendo leva esclusivamente sulla variopinta tavolozza di colori che le sole percussioni possono rappresentare. In questi momenti, per forza di cose, è il vibrafono di Brennan a definire la linea melodica dei brani: è sinceramente uno spettacolo ascoltare il contrasto tra i suoi temi e la fitta rete poliritmica imbastita dal drum kit e dal balafon (Columns of Leaning Paint), o da quelli che sembrano essere un djembé e un ojime-daiko (Mobilize). Su Tapestry, addirittura, il vibrafono sembra soppiantare la batteria del leader acquisendo il ruolo di protagonista come nei gruppi di Bobby Hutcherson – anche se le armonie oblique dei suoi assoli, invero, ricordano più l’eloquio di Thelonious Monk al pianoforte.
Altrove, è invece straniante osservare come Brennan accetti di rinunciare al ruolo melodico esaltando il carattere percussivo del suo strumento, celandone il tono cristallino tramite armonici che si confondono tra i suoni di shime daiko, campane, temple block e gong cinesi (cfr. Blue Pickup e Ritual Pace).
Badate bene: anche se inusuale, non è la prima volta che un batterista jazz prova a comporre un lavoro per sole percussioni. L’esempio più celebre è dato, di nuovo, da Max Roach e il suo M’Boom, che peraltro è un esperimento sia più integralista (visto che non appare altra tipologia di strumento per tutto il disco) che sorprendente dal punto di vista musicale – anche perché l’ensemble M’Boom contava nove elementi, offrendo una gamma di timbri più ampia rispetto al quartetto di Fujiwara. Tuttavia, il valore di Dream Up non sta in un supposto fattore novelty del Percussion Quartet, quanto nell’afflato narrativo e panculturale che anima tutta la suite. Con strumenti provenienti da ogni parte dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia, all’ascolto di Dream Up è possibile riconoscere forme e suggestioni che rimandano al teatro Noh giapponese, all’opera cinese, al Senegal e alle musiche delle popolazioni Mandé, oltre che ovviamente al jazz più avant-garde. Da un puzzle all’apparenza indecifrabile, realizzato con la sola percussione di membrane, pelli, placche di metallo e blocchi di legno, sembra emergere un trattato sul ritmo e una storia di come i popoli ne hanno percepito il valore attraverso epoche e continenti distanti: è questo il vero miracolo di Dream Up.





