MARY HALVORSON – ABOUT GHOSTS
È da ormai diverso tempo che gli Amaryllis sembrano essere diventati la principale valvola di sfogo creativo della penna di Mary Halvorson. Per dare dei numeri precisi, basti sapere che in soli quattro anni Halvorson ha inciso ben tre album con questo suo nuovo sestetto: il nuovo About Ghosts, uscito a giugno, è soltanto l’ultimo di una serie che parte da Amaryllis & Belladonna del 2022 – il doppio che aveva presentato al mondo la sua nuova band – e passa per quel Cloudward che abbiamo salutato entusiasticamente soltanto un anno fa.
Di conseguenza, gli Amaryllis hanno progressivamente acquisito un carattere e delle specificità che hanno reso la loro musica estremamente riconoscibile non soltanto nell’affollatissimo panorama jazzistico attuale, ma anche all’interno dello stesso corpus artistico di Halvorson. La loro formula si è ormai affrancata da certi astrattismi in odor di progressive rock che facevano la forza dei dischi dei Code Girl, limandone il minutaggio e sciogliendo alcuni dei numerosi rompicapo ritmici e armonici che caratterizzavano quei lavori. Al contempo, la scrittura di Halvorson si è fatta meno densa, lasciando respirare maggiormente le proprie composizioni e dando così più libertà agli strumentisti per riempire gli spazi con i loro assoli – giustamente, Jacopo notava la discrezione come un punto di forza del precedente Cloudward. Il risultato è che gli Amaryllis hanno imparato a sfoggiare una leggerezza e un senso di accessibilità che i precedenti gruppi di Halvorson (pur volontariamente) eludevano, ed è forse anche per questo che critica e pubblico sembrano entusiasti come mai lo sono stati per la musica della chitarrista.
Su About Ghosts, questa nuova sensibilità viene messa alla prova con l’inclusione in diverse tracce di un sassofono contralto (Immanuel Wilkins), di uno tenore (Brian Settles), e di un pocket piano suonato direttamente da Halvorson. Il tipo di contributo che questi nuovi strumenti apportano al sound Amaryllis è sostanzialmente opposto: i due sax ampliano la gamma espressiva del gruppo, condividendo con la tromba di Adam O’Farrill e con il trombone di Jacob Garchik il compito di elaborare i temi e le melodie; il pocket piano invece dà un apporto molto più subliminale, ma proprio per questo può essere interpretato come l’oscuro protagonista del disco. Con l’espressione About Ghosts, infatti, Halvorson si riferisce principalmente agli elementi posti ai margini del quadro sonoro – glitch e bleep elettronici, ghost note, effetti vari e assortiti – che pure influenzano sottilmente la resa complessiva della musica degli Amaryllis, conferendole significati inediti. Il pocket piano gioca un ruolo determinante a questo scopo: Halvorson lo usa principalmente come fonte di suoni inintelligibile da relegare perlopiù a rumore di fondo, sempre presente ma percepibile solo occasionalmente, quando può emergere distintamente dal mix approfittando dei momenti più distesi e silenziosi dei brani. (Il titolo ammette comunque anche un’interpretazione letterale, visto che il disco è dedicato alla memoria di Susan Alcorn, scomparsa a gennaio.)
Per questo, le tracce che vedono la partecipazione dei due sassofonisti e/o del pocket piano appaiono anche come quelle più interessanti e moderne di tutto About Ghosts. Seppure non sempre la strumentazione sia al completo, l’aggiunta di anche soltanto uno o due di questi nuovi elementi all’interno della line up degli Amaryllis offre alla leader l’opportunità di sfoderare tutta la ricchezza e la varietà di soluzioni che la band ha sviluppato nei suoi cinque anni di vita. Sull’iniziale Full of Neon, per esempio, i temi vengono enunciati all’unisono dalla front line tramite l’accostamento irrequieto di linee brevi e spigolose, che interrompendosi a più riprese lasciano la possibilità al resto del gruppo di riempire i vuoti lasciati dagli ottoni. In particolare, in più punti gli accordi e i corali del vibrafono di Patricia Brennan e il contributo subliminale del pocket piano di Halvorson sembrano deformare la materia sonora dell’ottetto, il che unito alla pulsione ritmica fratturata dettata dal batterismo cangiante di Tomas Fujiwara conferisce una sfumatura ancora più nervosa e spettrale al brano. È un approccio che, nonostante l’assenza di Settles e del sintetizzatore, si può cogliere anche nella ben più frenetica Absinthian: l’assolo di Wilkins che domina il pezzo è strutturato inanellando tante frasi frammentate suonate a rotta di collo, intervallate da pause che lasciano emergere il comping della chitarra e del vibrafono e le elastiche linee di basso di Nick Dunston in secondo piano.
Carved From si apre invece con una fanfara quasi canterburyana dei fiati, prima di esplodere in un scintillante post-bop dominato dapprima dall’assolo pirotecnico di Halvorson (al solito, conteso tra le frange più avant-garde del jazz e lo stile dinoccolato dell’indie rock alternativo a lei caro) e quindi da quello di Wilkins, che manifesta pienamente la sua riverenza verso Charlie Parker; sullo sfondo, gli sfarfallii del pocket piano tratteggiano abbozzi space age pop. La title track – l’ultimo brano che vede la presenza di entrambi i sassofoni – è al contrario una misurata ballata portata avanti dolcemente da un tema di spiccata discendenza ellingtoniana enunciato dagli ottoni, se si esclude un assolo di chitarra che ruba la scena intorno a metà. Infine, Endmost chiude il disco con il numero che forse maggiormente rende giustizia ai fantasmi del titolo. Gli assoli di tromba, trombone e sassofono (questa volta, Settles al posto di Wilkins) conducono il brano dalle parti di un post-bop evoluto ma comunque tenue e delicato; dietro le quinte, però, l’effettistica della chitarra, il vibrafono, il synth, e pure lo straripante assolo di batteria in chiusura aggiungono continuamente fonti di disturbo al naturale andamento del pezzo.
Le tre tracce che vedono solo la presenza del classico sestetto Amaryllis mostrano un approccio più affine a quanto visto su Cloudward, e non a caso tutt’e tre venivano già eseguite in concerto un anno fa. Ma, per quanto non siano illuminanti quanto una Full of Neon o una Endmost, è difficile non perdersi nel tono funereo di Eventidal, con quei riff di chitarra degni di Robert Fripp e con il sommesso assolo per archetto del basso di Dunston, o negli arzigogoli di Amaranthine e di Polyhedral. In definitiva, anche nei momenti in cui About Ghosts sorprende di meno, la qualità di esecuzione e di scrittura è tale che è difficile non cogliere un ulteriore affinamento di quanto gli Amaryllis non avessero già mostrato sui due dischi precedenti. Probabilmente, è il miglior lavoro a firma Mary Halvorson dai tempi dei due dischi con i Code Girl: fatelo vostro.





