L’UNICUM INIMITABILE DELLA SUMMER OF SOUL

In un sito che si occupa di musica, trattare di un film può risultare inappropriato: lo sappiamo che se ci leggete è prevalentemente perché vi parliamo di dischi bellissimi (o bruttissimi). Summer of Soul è tuttavia un’eccezione straordinariamente rinfrescante: in primis perché stiamo comunque parlando di un film-concerto, realizzato da un musicista e contenente musicisti; e soprattutto perché abbiamo ritenuto che le riflessioni che riescono a scaturire da poco più delle due ore di durata della pellicola in questione siano particolarmente interessanti e pungenti. Nel caso in cui invece voleste ascoltare un punto di vista più coinvolto e socialmente coerente di quello di un italiano nato negli anni Novanta, NPR ha recentemente pubblicato una bella intervista con Questlove dove Summer of Soul viene discusso e analizzato, e che potete trovare qui.


Chiunque abbia un’infarinatura sulla storia della musica è a conoscenza dell’esistenza di Woodstock: la mitizzazione dei tre giorni di “peace and rock music” è stata croce e delizia della lunga epica della controcultura sessantiana e non, e gli strascichi di quello che è facilmente considerabile come l’evento musicale più rivoluzionario di tutti i tempi echeggiano poderosamente anche oggi – si pensi, per parlare anche solo dell’esempio più banale, alla schedule tripartita cannibalizzata e rimasticata fino ad oggi dai più grossi festival musicali contemporanei come il Coachella o il Primavera.

Croce e delizia, appunto: perché se da una parte i concerti sull’enorme prato verde pieno di fango di metà agosto sono stati forieri di momenti immortali della tradizione rock (manco sto a citarveli perché tanto li conoscete anche voi, appunto; e se non avete idea di cosa io stia parlando, cosa aspettate?), dall’altra chiunque abbia raccontato Woodstock ne ha fornito un ritratto sempre più problematico e meno idilliaco di quanto certe narrazioni abbiano voluto lasciare intendere. La copertura mediatica mainstream ha ovviamente tentato in ogni modo di demonizzare ciò che è accaduto poco a nord di New York, ma è indubbio che i problemi legati all’organizzazione e al mantenimento dell’ordine e della sicurezza abbiano generato non pochi problemi di reputazione a Woodstock come agli eventi che l’hanno succeduto (la sfortunata vicenda dei Rolling Stones e gli Hell’s Angels vale più di mille altri esempi). Come dicono molti critici della storia del rock affermano, Woodstock ha immortalato la propria aura imperitura grazie anche alla creazione del documentario omonimo, che ha faticosamente cesellato e compresso tre giorni di concerti in poco più di tre ore di bobine: le immagini si susseguono in maniera non lineare, tra giorno e notte, tra un set e l’altro, oscurando (volontariamente o meno) i tanti passi falsi che quei tre giorni di musica hanno creato ai propri organizzatori.

L’altra grande problematica è che Woodstock è contraddistinto da una tanto palpabile quanto allo stesso inesplicabile sameness: sia chiaro, non è che vedere gli Who, i Jefferson Airplane, Hendrix, Santana, i Grateful Dead e compagnia cantante (è proprio il caso di dirlo) tutti sullo stesso palco mi faccia schifo. Anzi. Ma è facile notare come la direzione artistica di Michael Lang e Artie Kornfeld avesse deciso di incasellare il pubblico del festival in una precisa nicchia: hip, giovane, presumibilmente bianca e in-the-know. Le eccezioni di Richie Havens, Hendrix e Santana sono significative, certo, ma vanno comunque inquadrate in quella che era una folla discendente dai beatnik di Greenwich Village e già assorbita dal movimento della summer of love: in che modo il repertorio del primo tra i tre artisti citati poco sopra è differente dai tanti emuli di Tim Buckley o Richard Fariña? In che modo gli altri due aggiungono una dimensione identitaria al loro sound che li distingua dalla masnada di band psichedeliche della West Coast che imperversavano in quegli anni?

Questo spiegone introduttivo serve perlopiù come pietra di paragone: è infatti difficile pensare, mentre Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised) scorre sullo schermo, che un festival ambientato essenzialmente negli stessi giorni di Woodstock possa essere così radicalmente differente nei suoi significati come nella sua offerta musicale.

Un dettaglio della locandina

Partiamo dall’inizio: Ahmir Thompson, meglio noto ai più come frontman e batterista del complesso hip hop The Roots con lo pseudonimo di Questlove, ha presentato nel 2021 al Sundance Film Festival questo documentario; si tratta in grandissima parte di filmati d’archivio sull’Harlem Culture Festival, una serie di concerti svoltasi per sei settimane (e qui sta già la prima, enorme differenza che distingue ciò di cui parleremo dalla compressione quasi soffocante di Woodstock) nel Mount Morris Park di Harlem, nel bel mezzo di quella che poteva essere definita comodamente come una delle estati più problematiche e tese della storia della città di New York – come anche degli Stati Uniti tutti.

La ragione della tensione è immediatamente visibile: oltre 300.000 partecipanti, la stragrande maggioranza di origine afroamericana, si riuniscono a poco più di un anno dell’assassinio di Martin Luther King, mentre la crisi economica, sanitaria, politica e sociale imperversa brutalmente nelle realtà suburbane americane come Harlem. L’occhio della cinepresa non risparmia visioni delle strade vicino al parco, piene di case fatiscenti, di corners già strapieni delle vittime della prima grande crisi degli oppiacei dell’epoca americana contemporanea. Come se non bastasse, le Black Panthers sono assunte dagli organizzatori del festival come misura di sicurezza privata, dato che sulle prime si teme che il corpo di polizia della Grande Mela possa dimostrarsi incapace di gestire in maniera adeguata la situazione, nel caso in cui sorgano conflitti di alcun tipo. Tutte le testimonianze d’archivio raccolte da Questlove raccontano la preoccupazione per le sorti dell’Harlem Culture Festival con grande apprensione, come se gli organizzatori stessero giocherellando con una bomba a mano. Come per miracolo, invece, Summer of Soul mostra una collettività rilassata, entusiasta, aperta: l’organizzatore del festival Tony Lawrence, sempre vestito con costumi sgargianti, dialoga e intrattiene un pubblico che risponde febbricitante a questo o quel musicista mentre si appresta a salire sul palco.

Manco a dirlo, infatti, i performer sono il punto focale dell’Harlem Culture Festival, e di conseguenza anche di Summer of Soul: ed è qui che reputo che sia necessario fare una tara con la narrazione di Woodstock e con la sua estetica tutta fango e rock n’ roll. Una breve (ma non onnicomprensiva) scaletta degli artisti sul palco in quei giorni di agosto comprende: Stevie Wonder, Mahalia Jackson, Sly & The Family Stone, Nina Simone, Sonny Sharrock, B.B. King, Max Roach e Abbey Lincoln, Mongo Santamaría, Gladys Knight, David Ruffin appena uscito dai Temptations, i 5th Dimension, le Staple Singers e i Chamber Brothers… Generi che spaziano dal jazz più liberatorio al soul in ogni declinazione, cori gospel che avanzano mano nella mano con le divagazioni interplanetarie della generazione hippie, fino al pop da classifica e al blues duro e puro. È francamente impossibile non farsi trascinare dalle due ore cesellate dalla regia. Si ha l’impressione, grazie anche al commento delle (a volte un po’ troppo verbose) voci di partecipanti al festival e musicisti, di dover per forza inquadrare alcune esibizioni con un taglio propriamente storico: non ci sono parole per descrivere la performance di Mahalia Jackson mentre canta ossessivamente sul vamp di Precious Lord, Take My Hand accompagnata dalla band del reverendo Jesse Jackson. Il gospel assume un significato emozionale gargantuesco quando il racconto del brano si mescola con quello degli ultimi minuti di vita di Martin Luther King: e allo stesso modo, dove alcuni momenti sembrano portare in maniera eccessiva il segno degli anni (Ray Barretto, che nell’atto della propria partecipazione mostra una commistione e voglia di riconoscimento da parte della comunità latinoamericana di Harlem con la vita pubblica, porta sul palco dei pezzi veramente un po’ troppo piacioni) altri stupiscono per la foga e l’attualità con cui colpiscono anche oggi (il finale dello show di Nina Simone, che da lì a poco sarebbe scappata dagli Stati Uniti per non tornare mai più, è un presagio di portata sbalorditivamente inquietante).

L’unico momento in cui sembra che il giocattolo stia per rompersi definitivamente e irreparabilmente, l’unico istante di tensione prima della liberazione, è l’ingresso di Sly & The Family Stone per la loro prima esibizione sul palco del festival. Sly viene annunciato, e si nota agitazione tra la folla nelle prime linee: all’epoca, è ancora un cantante “strano”, che quando viene comparato a David Ruffin risalta per il taglio di capelli senza compromessi e per i vestiti dai colori sgargianti, di fronte al completo preciso al millimetro indossato dall’autore di My Girl. La confusione aumenta quando sul palco assieme a Sly salgono due bianchi, anche loro musicisti della band: in un evento in cui la partecipazione e l’elogio della cultura nera sembrano essere all’ordine del giorno, la visione del pallido batterista crea sconforto, sempre secondo le testimonianze di allora. Cynthia Robinson, la trombettista del gruppo, è probabilmente una delle primissime donne nere sul palco che non sia lì soltanto come cantante o corista: ma non appena il concerto della band comincia, l’occhio del regista riprende divertito il pubblico immediatamente convertito al groove inedito e rivoluzionario della Family.

Abbey Lincoln sul palco

L’Harlem Culture Festival rappresenta quindi un crocevia di identità alla fine di un periodo storico tumultuoso che convergono in un singolo luogo: non solo sul palco, ma anche tra la folla inquadrata si scorgono completi eleganti che ben rispecchiano la mentalità Hitsville U.S.A. propagandata dalla Motown tanto quanto colorati dashiki, giacche di cuoio e capigliature afro stravaganti. Citando uno degli emblematici commenti interni al film, «1969 was the year the negro died, and black was born». E forse in questo rappresenta, criticamente parlando, un momento culturale persino più significativo di Woodstock: dove questo rappresenta il tanto glorioso quanto fallimentare canto del cigno di una generazione che verrà immediatamente disillusa, relegata o convertita nel giro di pochi anni, Summer of Soul mostra come siano germinati e quanto ancora siano ben radicati i semi dell’identità black contemporanea nel tessuto sociale statunitense. Probabilmente anche per questo sembra impossibile che un evento di una simile portata sia scomparso nel nulla per oltre cinquant’anni: ed è qui che la lente di Questlove ingigantisce la problematicità di un girato simile. Viene mostrato un breve filmato d’archivio di CBS News, dove Walter Cronkite liquida in qualche secondo il festival; si scopre che il film è stato proiettato una sola volta, una domenica a mezzanotte, in un singolo cinema di Harlem; persino alcuni dei musicisti, come confessano candidamente due membri dei 5th Dimension, fanno fatica a ricordare la Summer of Soul. Questo perché, come viene fatto notare, la dimensione del concerto black non era quella mostrata nel documentario: il massimo splendore raggiungibile rappresentava, fino a poco tempo prima, una serata all’Apollo Theatre, o in un casinò di Las Vegas. Questo dove era consentito suonare per un pubblico misto, s’intende.

Il Mount Morris Park in retrospettiva è un volo pindarico tanto quanto i live di Hendrix (che infatti provvederà a suonare negli after-party dell’evento con musicisti locali per una settimana di fila, dopo aver mancato la clamorosa occasione di essere incluso nella line-up). Come raccontano per l’ennesima volta le voci della comunità, si tratterà inoltre di un unicum inimitabile: l’amministrazione comunale di New York inizierà la costruzione di una gigantesca piscina pubblica all’interno del palco nel 1970, negando quindi la possibilità di un bis dell’evento; per alcuni, il gesto rappresentava finalmente la voglia della politica di interessarsi attivamente alla questione nera; per altri, era una manovra strategicamente pensata per evitare che manifestazioni così “sovversive” potessero essere replicate con così tanta facilità. In ogni caso, i tempi erano già irrimediabilmente cambiati.In conclusione: bisogna ascoltare Summer of Soul. Bisogna farlo, perché si tratta di un documento che riunisce alcuni dei nomi più illustri di ogni tipo di musica black degli anni Sessanta, carichi ed energetici come non li avete mai sentiti. Ma, se ne avete l’occasione, GUARDATE Summer of Soul: immergetevi nei suoi colori, nella sua atmosfera senza tempo, nella sua musica avvolgente e nel suo significato profondo. Sapete già che tiferemo per Questlove agli Academy Awards.

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala