SUFJAN STEVENS – JAVELIN

Asthmatic Kitty

2023

Chamber Folk

Qui in redazione ci eravamo tutti un po’ rotti il cazzo di Sufjan Stevens. Dalla pubblicazione di The Age of Adz in poi, tutto quello che aveva tirato fuori ci era sembrato una pallida imitazione di quel cantautore che aveva consegnato ai posteri dei dischi imponenti come Illinois; cosa ce ne facevamo di un disco monocorde come Carrie & Lowell o di ruminazioni elettroniche stantie come quelle di Planetarium e The Ascension? Dove era finita l’inventiva post-minimalista, cosa era successo agli arrangiamenti fantasiosi, e perché nel suo disco live del 2017 chiudeva il concerto con una cover – a sua parziale discolpa, più divertente dell’originale – di Hotline Bling di Drake?

Fatto sta che l’uscita del singolo Will Anybody Ever Love Me? mi aveva sinceramente stupito: certo, si trattava ancora una volta di una canzonetta semplice semplice, tutta dritta e senza curve, ma al suo interno si nascondevano dei piccoli dettagli che facevano presagire che il Sufjan che mi piace, quello dei primi anni Duemila, fosse finalmente riemerso da una lunga apnea; in particolare, questo momento di epifania era arrivato ascoltando la modulazione tonale del coro (!) sulla coda del brano, che in maniera sottile stravolge l’intero impianto armonico del refrain gioiosamente pieno di chitarre, banjo, synth e drum machine. Questo accadeva un mese fa: e dato che sono ancora tremendamente indietro con il calendario delle uscite “in” di quest’anno, ho pensato che Javelin avrebbe potuto fare da scintilla per farmi ripartire ad ascoltare altri dischi che ho lasciato distrattamente per strada.

Ma quindi, com’è questo disco? Penso che ci siano due modi di recensirlo: uno, quello più facile, è anche quello che avevo frettolosamente buttato giù mentre lo ascoltavo per la prima volta. “Ritorno alle origini”, “melting pot di un percorso artistico lungo vent’anni”, “una boccata di aria fresca”: non ci sono dubbi sul fatto che Stevens abbia voluto ridimensionare la solitudine opprimente e monocromatica del folk intimista di Carrie & Lowell senza abbandonarla del tutto, e che sia riuscito a rimaneggiare il concetto fondante della propria nuova estetica inserendo tutti ‒ ma proprio tutti ‒ gli stilemi della propria carriera precedente qua e là tra i solchi di Javelin. Dalle sleigh bells dei dischi delle canzoni di Natale ai sopracitati cori femminili di ascendenza gospel, dalle delicate manomissioni elettroniche à la Vesuvius ai build-up emozionali dove gli strumenti si accumulano armoniosamente su binari diversi e che nonostante tutto corrono paralleli l’uno con l’altro. Questo è, d’altronde, anche il modo in cui è stato salutato Javelin dalla stampa: un grande concentrato di tutto quello che ha reso Sufjan Stevens il più grande nome del cantautorato indie internazionale oggi, servito in una porzione digeribile e accattivante.E poi c’è la versione più difficile, quella anche più dura da mandar giù: Javelin non è davvero niente di speciale, e quasi dispiace che sia così. Bastano pochi riascolti per rendersene conto; certo, è vero che le canzoni del disco sono state rimpolpate con un sound variegato e degli arrangiamenti che non vedevamo da anni nell’opera di Stevens, ma più si va avanti col disco e più appare evidente che quegli stessi arrangiamenti sono come i vestiti nuovi dell’imperatore. La penna di Sufjan su Javelin si adagia ancora una volta sulla cifra stilistica che intreccia morte, amore e religione raccontati attraverso un arpeggio di chitarra: ma l’impressione è che pezzi come Genuflecting Ghost, My Little Red Fox e persino Shit Talk (comunque il più bel brano del disco assieme a Will Anybody Ever Love Me?) non contengano la stessa potenza emotiva di brani come Casimir Pulaski Day o di Seven Swans, e che allo stesso tempo siano state limate le architetture imprevedibili di quegli stessi brani per riportare tutto in acque più sicure e facilmente imbellettabili. La chiave di lettura che smaschera questo inganno meravigliosamente orchestrato è l’ultima traccia del disco, una cover di There’s a World di Neil Young: un pezzo atipico, con un’orchestrazione magniloquente fatta di timpani, pianoforti, e archi che all’interno di un album come Harvest sembra quasi essere lì per errore. Eppure, ad ascoltarla fuori dal contesto di quello stesso disco, suona follemente vicina a un pezzo di Sufjan Stevens. Ecco, la versione presente su Javelin è invece interamente spogliata di quell’elemento out there dell’originale, preferendo mostrarsi in una forma intima per chitarra, coro e voci; e in un album che ha invece osteggiato attivamente il riduzionismo per quaranta minuti, ritornare a una questione privata come quella descritta qui fa pensare a un armadillo che si ritrae nel suo guscio. Forse c’è stato timore di uscire dai bordi; o forse lo stato psicofisico di Stevens non è dei migliori, tra lutti e malattia. Ma sulle ultime note di Javelin, è impossibile non rimanere con l’amaro in bocca: tutto qui?

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala