STEFAN PASBORG – RITUAL DANCES
Nonostante una carriera quasi ventennale e i premi della critica ricevuti, quello del batterista danese Stefan Pasborg non è propriamente un nome di punta del panorama jazz contemporaneo. Finora, il suo maggiore claim to fame è anzi estremamente recente e risale alla sua performance sul bel Magic Spirit Quartet dell’oudista marocchino Majid Bekkas, edito dalla ACT nel 2020. Su quel disco si era cimentato in una curiosa interpretazione della musica gnawa riletta attraverso la lente del jazz europeo – operazione che era riuscita a evitare i facili esotismi e gli anemici squarci ambientali di molte operazioni analoghe provenienti dal Nord Europa, suonando in certi frangenti finanche frizzante e psichedelico.
Specie nei momenti più spiccatamente jazz di Magic Spirit Quartet, però, lo stile poderoso e policromatico di Stefan Pasborg tradiva un’ispirazione molto postmoderna e molto poco filologica. Non sorprende quindi che nell’estate 2021 abbia firmato con la Sunnyside, una delle tante etichette newyorkesi che cercano di fotografare l’hic et nunc del jazz del XXI secolo, per registrare una sua personale rielaborazione di alcuni frammenti provenienti dai rinomati balletti della fase russa di Stravinskij – in particolare, l’Uccello di fuoco e la Sagra della primavera. Non è la prima volta che Pasborg si cimenta in un lavoro simile (nel 2015, aveva provato un esperimento analogo con una formazione in trio su The Firebirds), e d’altronde la musica del primo Stravinskij, con i suoi timbri scintillanti e il suo passo ritmico operoso e intricato, si presta particolarmente a jazzificazioni di questo tipo. Per motivi vari, però, il risultato non funziona sempre perfettamente, e questo – pur non disprezzabile – Ritual Dances non fa eccezione.
Della meraviglia dell’Uccello di fuoco e della Sagra della primavera, Pasborg riesce a cogliere il piglio straripante, selvatico e febbricitante. Il vastissimo ensemble che lo accompagna (un esteso nucleo di solisti, presente su tutte le tracce, più due diverse orchestre jazz – una per le tracce registrate in studio e una per quelle live) mette a disposizione un arsenale di timbri acustici e analogici che vanno da ottoni di ogni forma e dimensione a organi Hammond, moog, chitarre distorte ed elettronica varia. La collisione di così tante voci differenti recupera il colore della partitura originale, nei momenti migliori addirittura rivestendolo di un tono surreale e sornione che è quello delle incisioni jazz di Raymond Scott e delle elucubrazioni post-moderne sullo swing e sulla musica per big band di Don Byron, aggiornando efficacemente Stravinskij in un contesto urbano e contemporaneo. Non è un caso che ciò accada esattamente nei momenti in cui l’opera di Stravinskij si faceva, già in origine, più convoluta, straripante, e visionaria, specie nella Sagra: si sentano, a tal proposito, Sacrificial Dance, Ritual Dance oppure Dances of the Young Girls.
Questo equilibrio tra fedeltà allo spirito originale e contributo personale di Pasborg però spesso viene meno, e il più delle volte in Ritual Dances si avverte una stonatura. In certi frangenti, l’ensemble sembra procedere con il pilota automatico, approfittando dell’estrema potenza del materiale stravinskijano di partenza, giocando un po’ troppo safe: è questo il caso soprattutto dei due brani live che, specie nelle giunzioni tra i diversi assoli e nel sostegno ritmico ai solisti, appaiono piuttosto ingessati. Dall’altra parte, in alcuni brani Pasborg sembra tentare il tutto per tutto pur di evadere dalla gabbia dorata della musica di Stravinskij, operando delle scelte che, con l’inevitabile raffronto con il materiale originale, escono irrimediabilmente malconce. Per esempio, su Adoration of the Earth l’indimenticabile assolo di fagotto (che già viene, non troppo felicemente, trasposto su sassofono) si perde in un esercizio stilistico che richiama alla memoria addirittura Colin Stetson, senza lasciare traccia del velo di esotico misticismo del brano originale. Ancora, Infernal Dance appare come eseguito per tramite di Hal Willner, o addirittura del Badalamenti della danza di Audrey. Non è ben chiaro che scopo abbia un pezzo del genere.
Lontano dall’essere imperdibile, Ritual Dances rimane comunque un disco guidato da sincera affezione per la musica di Stravinskij, scoperta in tenera età tramite la madre (ex ballerina presso il Teatro Reale Danese, e dedicataria ufficiosa del disco). In diversi punti, è anche un album riuscito e originale; e pure nei pezzi un po’ più traballanti della scaletta, l’aderenza al modello di riferimento lo rende un ascolto di sottofondo perlomeno piacevole, se si ama la musica di Stravinskij.