STORIE PER UN RE

Una delle caratteristiche più meravigliose dell’arte è la capacità di stupire. Se sei ricettivo, puoi trovare del sublime nel più insospettabile dei luoghi, nella più umile delle opere – in quel momento ti viene fatto un dono preziosissimo, una fonte di benessere la cui importanza viene spesso sottovalutata. Quando amiamo qualcosa non si prova piacere solo nel venire in contatto con la cosa stessa, bensì anche nel consigliarla, nel parlarne, nel pensarci; tale amore ci arricchisce, accomunandoci col mondo esterno, facendoci sentire meno soli. Mentre scrivo questa introduzione, il pensiero si sofferma su tutto quello che mi ha dato Storie per un Re di Manuel Bongiorni (aka Musica per Bambini): il tempo passato a tirar giù gli accordi delle mie tracce preferite, per poi cantarle a squarciagola con gli amici rendendole memorabili epiloghi di alcune delle serate più belle; le lacrime trattenute sui mezzi pubblici, certe mattine in cui quelle chitarrine stonate colpivano più a fondo del solito; e ancora il senso di meraviglia nel constatare come una delle opere più incredibili della musica moderna sia così semplice e vicina, così lontana dall’olimpo di formalismo o influenza in cui risiedono quasi tutti gli altri miei dischi del cuore. Storie per un Re potrebbe ben essere considerato un album outsider. I lavori successivi di Bongiorni, col moniker più conosciuto, pur mantenendo una sana dose di bizzarria e improbabilità non risultano altrettanto fuori da quello che è il normale canone di piacevolezza. Sarà che sono dotati di una vera e propria produzione, sarà che mischiano generi un poco più presenti nel panorama musicale moderno, sarà che le stonature – pur presenti ancora in abbondanza – sono nascoste o stratificate con maggiore coscienza. Al contrario, Storie per un Re non ti tiene nascosto niente, neanche quando lo vorresti. La comunicazione di Bongiorni e collaboratori è talmente diretta e senza pretese da sfociare abbondantemente nel naïf, creando panorami medievaleggianti sbilenchi eppure straordinariamente vividi. Cantastorie stonato, poeta bislacco, alchimista di elisir miracolosi preparati senza alcun criterio scientifico: il musicista piacentino riversa in queste sedici tracce tutta la sua essenza. 

L’immaginario su cui si basa è quello delle fiabe tradizionali, popolate da cavalieri e draghi, stregoni e giullari, castelli e luoghi incantati; come nelle migliori di queste, dietro la spensierata leggerezza si annida sempre un piglio morboso, quelle immagini che fanno alzare le sopracciglia ai genitori quando leggono le versioni integrali di Cappuccetto Rosso. Bongiorni è maestro nello sposare queste e altre componenti apparentemente immiscibili: i suoi panorami fantastici sono intrisi di mondanità, le sue canzoni più frivole si rivelano tra le più disturbanti, i personaggi più sciocchi nascondono in loro le storie più profonde e toccanti. Il disco nasce da una sponsorizzazione (di che tipo non è ben chiaro, e ormai neanche importante) col Parco delle Fiabe nel Castello di Gropparello in provincia di Piacenza, e si presenta come una serie di storie tra il fittizio e il liberamente ispirato alle tradizioni di quei luoghi. Nel disco, il pretesto per inanellare questi racconti è una gara indetta da un sovrano capriccioso, che al fine di combattere la noia promette libertà al prigioniero che saprà sollazzarlo col miglior racconto; si dipanano così le vite di gioiosi ubriaconi e capricciosi riccastri, le pene di amori non corrisposti e le fortune inaspettate regalate dal fato. Tra chitarrine magre magre dalla dubbia accordatura, percussioni semplicissime, fiati petulanti e cori stonati, a livello strumentale il disco suona come una banda paesana improvvisata, eppure non si ha neanche per un secondo quello spiacevole senso di vuoto che si prova quando sentiamo musica troppo semplicistica, troppo dilettantesca. A livello strutturale e compositivo, Storie per un Re è infatti vario e creativo, e mette abbastanza carne al fuoco da intrattenere anche quegli ascoltatori che non riescono a spegnere la parte più analitica del cervello. Festose cavalcate accompagnate dal battere marziale di tamburi si alternano a malinconici arpeggi e sussurri furtivi, poetici spaccati di folk intimista seguono brani più sbottonati e frivoli lasciando riprendere fiato al momento giusto: le tecniche del buon cantautorato sono indubbiamente presenti. Nonostante ciò, creare un mondo talmente vivido e coinvolgente partendo dalle premesse descritte finora rimane un’impresa miracolosa. Durante brani più leggeri e scherzosi (O’ dipintore, Cosciotto di pollo) Bongiorni è un caro amico che ti fa sorridere con le sue sciocchezze, alleggerendoti la giornata, mentre nei momenti più sognanti e malinconici (L’ubriacone, La ballata di Rosania, Il dialogo) è invece capace di farti partecipe delle situazioni di questi personaggiucoli di cartapesta come fossero capitoli della tua stessa vita. Il mercante d’ovo, brano di chiusura del disco, svetta poi a ricalcare tutto quello che Bongiorni ha messo sul tavolo in precedenza, un’estasi di quasi nove minuti narrata a ritmo serrato, ultima occasione per dare un rapido sguardo al carosello di personaggi bislacchi.  

Volendo semplicisticamente associare il concetto di arte con quello di espressione, tutte le grandi opere eccellono nel sintetizzare un gran numero di sensazioni, riflessioni ed emozioni dentro un prodotto compatto, capace poi di espandersi gradualmente nella mente di chi lo viene a conoscere ed è disposto a spendere energia per capirlo; la fase vitale di un artista, ma anche un’intera epoca storica, sono cristallizzate al loro interno. A volte il processo di decompressione è istantaneo come un’esplosione, e noi fruitori ne usciamo folgorati – altre volte servono tempo e volontà, come lo schiudere i petali di un fiore che non ha intenzione di aprirsi. In ogni caso, però, al piacere si accompagna un senso di sbalordimento, e quando se ne parla coesistono di conseguenza il desiderio di far provare ad altri lo stesso tuo piacere e la paura di non riuscire ad articolare bene perché si ha l’opinione che si ha. L’arte creata dagli uomini è senza dubbio al di sopra di essi: la sua forza rimane nel tempo, nutrendosi dei pensieri che le future generazioni ci riversano sopra. Questo discorso è particolarmente adatto a spiegare la natura mitologica di alcune figure della musica classica, nate semplici uomini, la cui capacità espressiva è stata però ingigantita da secoli di studio e altrui passione, fino a far assumere una dimensione quasi sovrannaturale alle loro vite e alle loro opere. Tale processo è al contempo bellissimo e pericoloso, ma soprattutto dimostra l’infinito potenziale di risonanza di un prodotto artistico. Quando sediamo sulle spalle di giganti parlando di Bach, o Mozart, o Mahler, c’è sicuramente un certo timore reverenziale e la paura che sia ormai impossibile dire qualcosa di nuovo; parlando invece di un disco misconosciuto prodotto da un musicista italiano minore, la paura è invece quella di non essere presi sul serio. La natura stessa di Storie per un Re, la sua intrinseca sfuggevolezza a qualsiasi catalogazione e il suo flirtare continuamente con lo sciocco e il ridicolo, muta poi questa paura in una terribile consapevolezza. Per come la vedo io, un utile strumento per tentare di far capire il fascino e il valore del lavoro di Bongiorni può essere la comparazione con un album per certi versi simile, ma infinitamente più conosciuto e rispettato. Prendiamo quindi Non al denaro non all’amore né al cielo di Fabrizio De André, uno dei suoi dischi più interessanti e celebrati, ben radicato nella storia musicale del nostro paese. Le similitudini tra questi due lavori sono prima di tutto strutturali, essendo entrambi album che ruotano attorno alle vite di un popolo fittizio, un villaggio di cui vengono descritte le vite e i pensieri dei suoi abitanti. Faber si appoggia all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, traslando sapientemente in musica spaccati di tante vite diverse, ciascuna con le proprie gioie e i propri dolori. Oltre a ciò, questi due dischi così diversi nell’approccio condividono anche il mezzo attraverso il quale riescono brillantemente nel loro intento: tramite la costruzione, immagine dopo immagine, di una collettività che ingloba l’ascoltatore. In entrambi i casi, le singole vite dei personaggi riconducono a temi universali in cui tutti ci possiamo riconoscere, e li collocano in uno spazio ben preciso facendoli dialogare l’uno con l’altro – un cimitero in collina per De André, la prigione di un castello per Bongiorni. Da lì, i personaggi anelano alla libertà evocando storie di un passato reale o immaginario, e tu ti trovi immancabilmente a sognare con loro. La musica di De André mantiene poi quell’aura di dignificata e poetica malinconia, mentre Bongiorni preferisce trascinarti sguaiatamente per le braccia senza la minima paura di sembrare ridicolo. C’è libertà, in questo. Libertà espressiva da parte sua, che porta in secondo luogo alla liberazione di chi ascolta: non c’è misura né regola, non c’è forma né buonsenso, solo divulgazione estatica. La musica di Storie per un Re non sembra dover durare nel tempo, non sembra cristallizzata: è viva e presente come quella di una festa in paese – ti riporta a un periodo che non hai mai vissuto, un tempo in cui una storia smetteva di esistere all’ultimo rimbalzo dell’ultima onda sonora. Bongiorni si rifà una concezione di condivisione incredibilmente diretta e genuina, eppure finisce per creare un disco che ha tanto da insegnare: ai musicisti, che l’arte sa essere meravigliosa anche nella sua povertà, che con l’idea giusta è possibile toccare profondamente gli altri anche con una manciata di accordi e qualche strofa stonata; agli ascoltatori, che a volte spogliarsi di tutti i preconcetti e le fisime su tecnica ed estetica è il modo giusto di approcciarsi a un’opera, e può regalare un’esperienza irripetibile. Io stesso, che ho spremuto le mie meningi e mi sono sforzato di creare uno scritto accattivante che potesse avvicinarvi all’ascolto di uno dei miei album preferiti, mi sono in un certo senso allontanato dal vero punto della questione. Avrei dovuto semplicemente dire: ascoltate Storie per un Re, vi farà tornare bambini.

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David Cappuccini
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